Rade Serbedzija: da Uzicka Republika a Mission Impossible
Premio di migliore attore per Rade Serbedzija all’appena conclusa Festa del cinema di Roma. L’attore, uno dei più popolari dei Paesi dell’ex Jugoslavia, si racconta in questa intervista
Rade Serbedzija era protagonista di ben due film, uno canadese in concorso e uno tedesco girato in Israele. Nel primo, "Fugitive Pieces" di Jeremy Podeswa con Stephen Dillane, Rosamund Pike e Ayelet Zurer dal romanzo di Anne Michaels, è un greco che aiuta a fuggire un ragazzino polacco scampato al massacro della sua famiglia da parte dei nazisti. Il secondo, "Love Life" di Maria Schrader da Zeruya Shalev con la bellissima Netta Garti, è una storia d’amore complicata tra una giovane e un uomo maturo amico di famiglia. A Roma abbiamo incontrato Serbedzija. Intreprete di molti film nell’ex Jugoslavia, da "Uzicka republika" (1974) a "Prima della pioggia" (1994) fino a "Go West" (2005) che ha anche prodotto. L’attore da una decina d’anni è molto richiesto dalle produzioni internazionali: fra gli altri "Eyes Wide Shut" di Kubrick, "Mission Impossible II" di John Woo, "The Saint" di Philip Noyce e "Space Cowboys" di Clint Eastwood.
"Di solito – ci ha raccontato l’attore – nelle grandi produzioni americane faccio, indipendentemente dal fatto che il mio personaggio sia buono o cattivo, il russo o l’uomo dell’est Europa. Però avevo già fatto il greco ne "La tregua" di Francesco Rosi ed era stato proprio un bel ruolo, l’avevo amato molto. Nei greci trovo qualcosa in comune con la mia mentalità. E nella storia di quest’uomo ho trovato cose di me, che mi ricordano le cose terribili che sono accadute nel mio Paese. Così mi ha coinvolto molto il viaggio di ritorno verso la Grecia che compie portandosi dietro il giovane compagno".
Interpreterebbe un italiano?
Ci sono dei limiti a quel che posso fare come ruoli per via del mio accento. Faccio il tipo dell’est. Fare l’italiano è più difficile. Posso imitare un italiano che parla inglese perché è molto identificabile. Però il linguaggio del mio corpo è diverso da quello degli italiani. Potrei provarci ma sarebbe difficile, anche se ho ricordi di quando ero in Dalmazia e c’erano degli italiani e so come parlavano o si muovevano. Quel che è certo è che non posso fare il giapponese!.
Come ha lavorato sul set con un attore giovanissimo?
Il ragazzino, Robbie Kay, sul set è stato fantastico, abbiamo interagito molto bene. Creare un rapporto con lui era una delle cose che mi interessavano del film. E con lui è accaduto qualcosa di speciale. Ho cominciato a trattarlo da adulto, non da bambino, in modo molto serio e anche duro. Ci siamo aiutati a vicenda: io l’ho considerato un adulto e lui mi ha fatto sentire più giovane. Non dimenticherò mai quel che ha detto alla presentazione di Toronto. Quando gli hanno chiesto del nostro rapporto è stato zitto un po’, ci ha pensato e poi ha semplicemente detto: siamo diventati amici.
Jacob scrive un libro e ha successo a partire dai ricordi del vecchio Athos. Come crede che fossero come scrittori?
Credo che Jacob fosse un buon scrittore, mentre Athos non lo era. Ma di certo Athos era una brava persona, uno di cuore. Ricordo un filosofo belgradese che partecipò alla Guerra di Spagna e poi scrisse un libro di memorie. Era fantastico. Non scritto bene ma pieno di ricordi e sentimenti.
A Roma presenta anche il film tedesco?
"Liebesleben" è fantastico, tratto dal libro di una scrittrice israeliana molto interessante. Mi è piaciuto molto fare quel personaggio.
Ci eravamo incontrati a Trieste alcuni anni fa quando presentò la sua terza raccolta di poesie "L’amico dice di non conoscerlo più" (edito dalla veneziana Amos, ndr). Scrive ancora poesie?
Non ho più scritto poesie perché sono stato impegnato con la prosa. Un anno fa ho pubblicato "To the Last Breath", proprio come il bellissimo film di Godard, che ha molti elementi autobiografici, con i miei ricordi della guerra e cose della mia esperienza americana. Sono molto contento perché è andato bene, in Croazia ha avuto già quattro edizioni. Ora ho un libro nuovo, "The Green Card" che parla proprio della mia vita negli Usa, dell’incontro con le grandi star, ma anche con la gente comune in America.
Qui a Roma ha appena aperto la mostra su Stanley Kubrick. L’ha già visitata? Che le rimane del regista?
Andrò appena possibile a vedere la mostra di Kubrick. Mi incuriosisce molto. Come lo ricordo? Sono ancora convinto di non aver lavorato con un regista, bensì con un medico. Non su un set, ma in una clinica. Era uno che voleva entrare nel mio cervello, che voleva capirmi come un paziente. Però è stato fantastico. Era carino, affettuoso, caloroso, autorevole, una grande personalità. Lo chiamavo il "laboratorio Stanley Kubrick. Abbiamo girato il film per circa un anno. Fece una prima versione del montaggio e la mandò a New York a Cruise da vedere e nel frattempo morì. Così si può dire che "Eyes Wide Shut" sia un film sulla morte. Ed è incredibile l’intuizione che ebbe.
Cosa mette di suo nei personaggi?
Quando faccio un film cerco di mettere qualcosa di me, di portare la mia esperienza. Anche con Kubrick che mi ringraziò per il contributo. Con lui si cambiavano delle cose tutti i giorni e io credo che questo modo di lavorare sia buono. Parlo sempre a fondo con i registi, propongo, cerco di lavorare al meglio. Il lavoro dell’attore non è solo ripetere ciò che è scritto sulla carta.
Lei sembra avere un talento particolare nello stare tra la gente…
Non so esattamente cosa sia il talento, né se io abbia talento. Forse il talento è saper imitare o essere rilassati davanti alla macchina da presa. Io credo che la cosa più importante sia essere naturali, perché la natura non si può costruire o cambiare più di tanto. Io somiglio di carattere a mia madre che cantava sempre e aveva voglia di stare in mezzo alla gente, era sempre allegra. Io amo la gente, credo alle persone. Sono pronto ad ascoltare tutti, anche chi ha fatto qualcosa di male o di sbagliato. Penso che in ciascuno ci sia qualcosa di buono.
Ha mai pensato di passare dietro la machina da presa?
Io faccio già il regista teatrale, non ho fatto molte cose ma qualcosa sì. Alla regia cinematografica ci penso. Ho una sceneggiatura scritta dal mio grande amico Zivojin Pavlovic, morto pochi anni fa. È uno dei miei registi preferiti. Si intitola "Liberation of Skopije" e andrebbe girato in Macedonia. Da tempo sto lavorando alla sceneggiatura che va un po’ modificata e adattata rispetto all’originale. E se trovo i produttori vorrei proprio dirigerla.
A proposito di Pavlovic, lei interpretò con Pavlovic "Dezerter" che fu uno dei primi film sulla guerra nell’ex Jugoslavia. Come giudica i tanti film sulla guerra che si sono fatti?
Ci sono stati diversi buoni film in questi anni sulla guerra nel mio Paese. Alcuni hanno preso una parte o l’altra, ma la maggior parte è stata onesta, sincera, soprattutto tra i film bosniaci. Sono quelli che hanno sofferto di più e sono quelli che riescono a essere più oggettivi rispetto a quel che è accaduto. Ricordo la grande esperienza che feci per "Prima della pioggia". O anche per "Dezerter", un grande film sull’esercito della ex Jugoslavia che prese una delle parti in causa e cominciò a distruggere la sua stessa gente.
Negli ultimi anni ha fatto pochi film nei Paesi balcanici.
Ora lavoro poco nei Balcani, è vero. Il fatto è che sono molto impegnato con i film tra Usa e Canada. Però ho appena fatto un’opera prima in Croazia. Una commedia folle ambientata oggi giorno.
E i suoi prossimi film?
Ho appena girato un film con Lelee Sobieski. Era mia figlia in "Eyes Wide Shut" ed è mia figlia anche stavolta, anche se nel frattempo è cresciuta! Poi sarò in "The Code" di Mimi Leder, un thriller con Morgan Freeman e Antonio Banderas. Purtroppo devo fare molti compromessi. Fosse per me farei solo film personali e d’autore. Ma ho cinque figli e devo crescerli e mandarli a scuola. Anche se cerco di non fare schifezze. Faccio i film grossi, anche se di genere che non mi piace ma mantenendo un certo livello. Ho fatto "Mission Impossibile" ma con John Woo che è un grande regista.