Quando l’esperienza inganna
"Non sembri albanese" è una frase che ancora oggi capita di sentire. Un breve racconto sul pregiudizio
La frase nota “Non sembri albanese” – che molti albanesi hanno sentito, almeno una volta nella vita, dopo aver dichiarato la loro origine – ha le sue fondamenta nell’immagine trasmessa dai media. Tuttavia, il profilo ottenuto nella mente umana, di una qualsiasi categoria, può dipendere anche da condizioni personali.
A cavallo del nuovo millennio, quando in Italia la tormenta dei pregiudizi nei confronti degli albanesi era al culmine, durante un convegno conobbi per caso una signora sui sessanta. Era vicina di sedia, seduta nella stessa fila.
A un certo punto mi domandò qualcosa sul programma. Le risposi con gentilezza. Dopo un paio di altre informazioni, mi chiese da dove venissi e cosa facessi. Interpretai la sua curiosità come un effetto del mio accento straniero, oppure qualcosa di simile, anche se più avanti capii che l’interesse era un semplice modo per ringraziarmi della cortesia.
“Sono albanese. Vivo qua”, le dissi tranquillamente.
“Albanese?! Non sembra un albanese!”, esclamò la signora al mio fianco, offrendomi subito una certa familiarità.
“Sì, non sto scherzando. Sono albanese”, ribadii con un sorriso che si riferiva più al clima dei pregiudizi e alla frequenza della battuta, che alla persona che avevo vicino. Ma a quanto pare, il mio sorriso fu interpretato come una presa in giro.
“Non ci credo. Lei non mi pare proprio un albanese. Poi parla così bene la lingua. Penso che lei sia del nord, oppure di queste parti”, affermò con espressione convinta.
“Non ci crede? Ma perché, come sono gli albanesi?”, ribattei con un cliché molto usato dagli albanesi infastiditi, mentre dal sorriso mi traspariva una certa ironia mischiata con divertimento.
“Lasci perdere. Mi dica di dov’è”.
Ho capito che la conversazione non avrebbe portato a nulla. Allora, in segno di sfida, estrassi dal portafoglio il mio permesso di soggiorno, con tanto di foto e dati anagrafici. Lo prese in mano, lo esaminò con l’attenzione di un agente e poi, pensierosa, allungò la mano per restituirmelo.
“Sembra un giovane per bene”. Scosse la testa in segno di incredulità. Rifletteva con aria perplessa.
“Ma perché, avrei dovuto essere cattivo?”. La voce e il mio atteggiamento si irrigidirono un po’. Il sorriso apparve formale.
“Non lo so”, rispose ancora impensierita. “Tutti gli albanesi che ho conosciuto sono cattivi”.
Aveva un’espressione talmente convinta in faccia da escludere lo scherzo come alternativa. Parlava sul serio. Anzi, molto sul serio.
“Senta signora”, continuai con la stessa moneta di serietà. “Non è possibile che tutti gli albanesi che lei ha incontrato nella vita siano tutte persone cattive”.
“Invece, è proprio così. Tutti gli albanesi che ho conosciuto fino ad oggi, e le garantisco che ne ho incontrati tanti, sono cattivi, delinquenti, mascalzoni”. La sua sicurezza cominciò ad irritarmi, ma mi ero abituato con i dibattiti sui pregiudizi e le generalizzazioni sugli stranieri. Mi sembrava di avere una certa dialettica.
“È impossibile, signora, che tutti gli albanesi che ha incontrato siano malviventi e farabutti. Capisco che i media abbiano trasmesso al pubblico un’immagine negativa sugli albanesi, ma è stato tutto creato in quell’ambito. La realtà è un’altra cosa. È chiaro, in ogni cesto c’è una mela marcia. Come in ogni popolo, ci sono le persone per bene e per male”. Mi sforzai di convincerla, anche se non avevo speranze. Le ricordai che persino il proverbio diceva che fa più rumore un albero che cade che un bosco che cresce.
Ma la sua reazione mi confermò ciò che le labbra arricciate manifestavano apertamente. “Che m’importa dei media. Io parlo per esperienza”, tagliò corto.
Rimasi senza parole. Fino a quel momento avevo combattuto i pregiudizi e l’immagine mediatica facendo appello all’esperienza personale, che normalmente smentiva l’immagine veicolata dai media, dove facevano notizia solo i delinquenti, le prostitute, i malfattori. Non era una tattica sbagliata, anche se l’esempio positivo, quello conosciuto personalmente, veniva solitamente catalogato dai portatori di pregiudizi come un’eccezione.
“Statisticamente improbabile”, dissi con cieca convinzione. “Non ha mai incontrato un uomo o una donna albanese normale? Non è possibile!”.
“Sì che è possibile. Lei è il primo”, mi rispose quasi stanca dal dialogo infruttuoso.
Ormai, arreso dinnanzi al muro della convinzione assoluta, le chiesi in modo istintivo: “Ma lei signora, da dove viene e di che si occupa?”.
La provenienza regionale non mi sorprese, l’avevo già identificata dall’accento. Ma il lavoro che svolgeva mi lasciò a bocca aperta: “Sono guardia carceraria”, dichiarò con un’espressione del tutto neutrale.
Rimasi di stucco, sbalordito, senza parole. Non mi presi la briga di spiegarle neanche i motivi delle sue conclusioni sugli albanesi. Per certi versi diceva la verità: laddove operava, c’erano solo delinquenti. La ringraziai, pronunciando qualcosa tra i denti, per la lezione data. In fin dei conti, grazie a me, in quanto eccezione della regola, anche lei andò via con certezze meno solide di prima.