Protagoniste, non vittime

Igballe Rogova è la leader indiscussa del movimento per i diritti delle donne del Kosovo. In occasione della festa dell’8 marzo l’abbiamo intervistata per fare il punto sui diritti al femminile a più di dieci anni dalla fine del conflitto. Ne emerge un ritratto con più ombre che luci

09/03/2010, Francesco Gradari - Pristina

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foto - F.Gradari

Igballe Rogova, per tutti “Igo”, è la leader indiscussa del movimento per i diritti delle donne del Kosovo. Alle spalle ha oltre venti anni di esperienza e battaglie a favore di un diverso ruolo della donna nella società. Nel 1989 è cofondatrice e poi direttrice della prima organizzazione di donne albanesi del Kosovo, “Motrat Qiriazi”, il cui obiettivo principale è l’educazione delle donne residenti nelle aree rurali.

Nel 2000 dà vita, e tuttora dirige, il Kosova Women’s Network (KWN), un’associazione ombrello a cui fanno capo 88 organizzazioni di donne di tutto il paese, appartenenti a diverse etnie. La mission del KWN è semplice, ma estremamente ambiziosa: sostenere, proteggere e promuovere i diritti e gli interessi delle donne del Kosovo. Per questo il network organizza scambi di esperienze e di informazioni, sviluppa partenariati e iniziative di rete, conduce ricerche e attività di advocacy (per info: www.womensnetwork.org).

Negli ultimi anni Igballe Rogova ha ricevuto prima il premio “Woman of the Year” dal Network Internazionale delle Organizzazioni di Donne e poi il “Lydia Sklevicky Prize “per il lavoro innovativo svolto con le organizzazioni al femminile in Kosovo. L’abbiamo incontrata nel giorno della festa dell’8 marzo.

Il Kosovo celebra oggi l’undicesima Festa della Donna del dopoguerra: ci sono motivi reali per cui festeggiare?

I motivi per festeggiare sono ben pochi. In questi dieci anni siamo riuscite ad ottenere tutti i meccanismi legislativi possibili per la tutela della parità di genere, ma quasi nessuno di questi trova un’applicazione concreta. E’ per questo che oggi 8 marzo non festeggeremo ma, come ogni anno, protesteremo, cercando al tempo stesso di proporre al dibattito nella società kosovara temi legati alla situazione femminile. Quest’anno vogliamo parlare dello scarso coinvolgimento delle donne nel decision-making process a tutti i livelli. Abbiamo preparato uno spettacolo teatrale nel quale, attraverso monologhi, sarà possibile far sentire le voci delle donne del Kosovo. Lo spettacolo verrà trasmesso dalle principali emittenti televisive del paese in modo da raggiungere il pubblico più vasto possibile.

Secondo le leggi del Kosovo, donne e uomini sono uguali, eppure i dati raccontano un’altra verità: i livelli occupazionali e di istruzione delle donne kosovare sono agli ultimi posti nelle classifiche mondiali…

E’ vero, abbiamo le leggi, ma queste non vengono implementate né rispettate. Da parte nostra, abbiamo già dato vita a campagne di sensibilizzazione in tutto il paese per far conoscere alla gente le leggi adottate dal Parlamento in materia di parità di genere e gli obblighi che ne derivano. Abbiamo poi iniziato un’azione di monitoraggio dell’attività del governo, per vedere quali passi si stanno compiendo a livello politico per l’attuazione di questa legislazione. Inoltre, il KWN tiene costantemente monitorato il grado di attuazione in Kosovo della Risoluzione UNSCR 1325 (“Women, War, and Security”).

Esiste in Kosovo una rigida separazione tra ciò che compete all’uomo e la sfera di interesse femminile? Se sì, come è possibile rompere l’isolamento femminile?

In realtà non vi è una netta separazione tra sfera maschile e sfera femminile. Ci sono molti cambiamenti in atto nella nostra società e all’interno delle istituzioni. Il problema vero è che il paese ha bisogno che più donne ricoprano ruoli di responsabilità ed entrino nelle sale in cui vengono prese le decisioni. E’ su questo aspetto che esiste nella pratica una rigida separazione tra ciò che una donna può e non può fare.

Nel paese non si è mai aperta una vera e propria discussione pubblica sul ruolo della donna nella società. Questo a dispetto degli sforzi della comunità internazionale sul tema. Come intendete lavorare per creare un consenso sociale attorno alla necessità di ripensare il ruolo della donna?

Non condivido il punto di partenza di questa affermazione. Dal dopoguerra in poi il paese ha conosciuto molte occasioni di discussione pubblica sul ruolo della donna. Il momento principale di confronto è coinciso con la redazione del primo Piano d’Azione Nazionale per il Raggiungimento della Parità di Genere. In quella circostanza sono state organizzate due conferenze nazionali che hanno ricevuto piena copertura mediatica. A ciò si devono aggiungere le tante riunioni dei comitati di donne che hanno affrontato il tema della parità di genere in diversi settori (educazione, economia, sanità, violenza domestica, ecc.).

La bozza di Piano d‘Azione è stata fatta circolare in tutte le istituzioni e ai soggetti interessati prima della discussione e dell’adozione della legge sulle pari opportunità. Si è trattato di un processo partecipativo che ha reso possibile una vasta e aperta discussione pubblica sul ruolo della donna nella società e sui passi necessari da compiere per il riconoscimento dei diritti delle donne.

Vorrei ricordare che il KWN svolge regolarmente questo tipo di attività attraverso i propri incontri assembleari interni, le campagne mediatiche e gli incontri sul terreno che vengono realizzati con le donne di tutte le comunità in tutto il paese.

La comunità internazionale, dal canto suo, ha compiuto sforzi davvero limitati per accrescere concretamente i diritti delle donne. A ciò si deve aggiungere il fatto che nella maggior parte dei casi gli internazionali hanno interferito o non sono riusciti a conciliare i propri interventi con i nostri.

Qual è l’origine del disaccordo con le autorità internazionali?

Il 10 giugno 1999 il Consiglio di Sicurezza, attraverso l’adozione della Risoluzione 1244, stabilì la creazione e il dispiegamento nel territorio del Kosovo della missione UNMIK, il cui mandato era quello di governare la regione fino a una decisione sul suo status finale.

In un primo momento, la maggior parte delle attiviste kosovare furono entusiaste dell’arrivo di UNMIK. Ci aspettavamo che UNMIK e OSCE portassero con sé i più alti standard di parità di genere e di partecipazione femminile nei processi decisionali. Eravamo entusiaste di poter lavorare con le agenzie internazionali alla progettazione e sviluppo di reali strategie in grado di rispondere ai bisogni profondi delle donne del Kosovo. Eravamo sicure che UNMIK e gli altri organismi internazionali si sarebbero consultati con noi per quanto riguarda le nostre preferenze e richieste politiche su come ricostruire il paese. Ci sbagliavamo.

Invece di introdurre un modello inclusivo e in grado di garantire un processo decisionale democratico, UNMIK impose un sistema politico patriarcale in Kosovo.

Può darci qualche esempio concreto a supporto della sua tesi?

Ne citerò solo alcuni. Nel settembre 1999 OSCE organizzò un primo incontro tra il suo staff e i rappresentanti della società civile, allo scopo di migliorare la comunicazione tra l’amministrazione internazionale e la gente del posto. A quell’incontro non fu invitata e non partecipò nessuna donna. Ebbi modo di chiedere il perché di questo approccio a un alto funzionario OSCE e la risposta fu “…perché il Kosovo è una società patriarcale”. Sebbene le donne fossero già state incluse prima della guerra nei processi decisionali, OSCE decise di non coinvolgerle nei tavoli di discussione.

Lo stesso vale per i Rappresentanti Speciali di UNMIK, che hanno del tutto marginalizzato le donne, evitando di coinvolgerci o consultarci nel momento della presa di decisioni chiave. Le leadership di queste istituzioni internazionali hanno così avvallato il sistema patriarcale, offrendo esempi molto deboli ai nuovi leader kosovari.

Invece di concentrare i nostri sforzi nella ricostruzione del paese, siamo state costrette a spendere la maggior parte del nostro tempo nel combattere per poter essere ascoltare dai decision-makers internazionali. I nostri sforzi maggiori si sono indirizzati nel tentativo di dimostrare a UNMIK che avevamo una nostra esperienza in questo settore e sapevamo che cosa era il meglio per le nostre comunità. Diverse nostre attiviste e associazioni hanno più di quindici anni di esperienza nel campo dello sviluppo di comunità.

Abbiamo più volte dovuto dimostrare agli internazionali che le donne del Kosovo non sono delle vittime che aspettano di essere aiutate, ma possiamo aiutarci tra di noi, come abbiamo già fatto in passato. Solo in questo modo possiamo essere protagoniste effettive e reali della costruzione del nostro futuro.

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