Professione jazz

Markelian Kapidani, classe ’70, è uno dei nomi più creativi del jazz albanese. Lavora in Italia dal 1997. La sua musica è un insieme di ritmi balcanici rivisitati e interpretati in chiave jazz. Intervista

18/05/2009, Marjola Rukaj -

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Markelian Kapidani

Tratto da Bota Shqiptare

Markelian Kapidani, classe ’70, è uno dei nomi più creativi del jazz albanese. Dopo una lunga carriera come compositore presso la TV pubblica albanese negli anni ’90, lascia l’Albania nel ’97 per trasferirsi in Italia dove continua a esibirsi nel genere jazz. La sua musica è un insieme di ritmi balcanici rivisitati e interpretati in chiave jazz. Dopo la pubblicazione del primo disco Balkanpiano, in cui spiccano diversi ritmi della tradizione albanese, è in preparazione il suo secondo lavoro intitolato Balkanbopp in cui i ritmi balcanici saranno interpretati con il jazz americano degli anni ’40 e ’50.

Come ha maturato la scelta di combinare la musica folcloristica albanese e balcanica con il jazz?

Principalmente volevo creare qualcosa di nuovo. Non c’è musica che non possa essere combinata con un’altra per produrre qualcosa di nuovo. Ma per una tale fusione serve una profonda conoscenza sia del folclore sia della musica colta. Il folclore mi interessa come radice della musica che mi appartiene, mentre il jazz è una elevata espressione della libertà d’improvvisazione musicale. Dopo moltissimi anni di studio della musica classica, del jazz e del folclore albanese, e dopo molti anni d’esperienza in diversi ambiti, sono arrivato a voler intrecciare questi mondi così diversi della musica.

Ma lei si è formato negli anni in cui l’Albania era il paese più isolato d’Europa, e il jazz era assolutamente bandito dal regime. Come ha fatto a scoprire il jazz?
Il jazz l’ho scoperto quando avevo 14 anni. Mio padre suonava in un’orchestrina jazz, negli anni ’60, al Gran Caffè (Kafja e madhe) di Scutari. Dopo gli anni ’60 il jazz venne proibito, in Albania e nella maggior parte dei paesi comunisti perché era visto come una tipologia di musica americana e imperialista.

Nell’84, quando avevo 14 anni, curiosando tra le partiture di mio padre mi sono imbattuto in alcune riviste di jazz, piene di note e temi, improvvisazioni e accordi. E’ così che ho scoperto il jazz. Non perché mio padre lo volesse, ma per caso. Anzi mio padre, mi ha confessato poi, temeva che andassi a suonare quel tipo di musica a scuola o con gli amici, rischiando non poco in quegli anni.
Come è nato invece il suo interesse per il resto dei Balcani, dato che negli ultimi 50 anni i rapporti culturali tra l’Albania e i suoi vicini sono stati minimi, o pressoché nulli?
E’ stata una maturazione della mia personalità. Negli ultimi anni ho studiato molto a lungo il jazz, quello dei Caraibi, quello cubano, della Repubblica Dominicana, quello brasiliano e latino in genere. Di questo passo sono finito per scoprire che tutto ciò proviene dall’Africa, e questo mi ha spinto a osservare il folclore africano, in cui sono finito per trovare dei ritmi a me familiari specie nell’Africa del nord. E’ difficile da spiegare, ma è molto interessante. La civiltà dell’Antico Egitto, ha influito su tutto il Mediterraneo, la Grecia, e in seguito alle conquiste di Alessandro Magno si è sparsa su tutti i Balcani e il Medio Oriente. Esiste un legame molto forte spirituale e musicale tra tutti i paesi balcanici e il Medio Oriente, che si estende addirittura alla Spagna. Questo lungo viaggio immaginario durato molti anni mi ha riportato nei Balcani, facendomi riscoprire la loro musica.
Che tipo di musica ascoltava prima dell’apertura dell’Albania, durante il regime?
Io ho sempre ascoltato jazz, a parte la musica classica che studiavo a scuola. Tra mille difficoltà naturalmente, perché lo ascoltavo di nascosto. Avevo uno stereo a casa, con cui registravo il festival di San Remo che all’epoca mi sembrava di una qualità incredibile. Poi registravo le trasmissioni musicali del primo canale jugoslavo, e quelle di Rai 1. In Jugoslavia c’era un’ottima tradizione del jazz, e c’erano dei nomi che avevano creato un loro genere. Seguivo molto Miljenko Prohaska, o Duško Gojković. Poi ho avuto modo di trovare molto materiale negli anni ’90, ’91, e ’92. Quando sono andato per la prima volta all’estero, ho comprato libri e dischi che da noi non si trovavano.
Quali ritmi preferisce per la sua musica?
Ci sono diversi ritmi. E’ interessante perché i ritmi che usano sia gli albanesi sia gli slavi del sud, e i turchi hanno le radici in Egitto e in Grecia. Ad esempio è molto diffuso il ritmo kalamatiano, che deriva da Kallamathas, città costiera della Grecia. Oppure il ritmo Karsilamas è molto diffuso in Turchia e in Palestina. Ci sono anche celeberrime canzoni albanesi che rispecchiano in pieno quel tipo di ritmo. Un altro ritmo molto diffuso tra gli albanesi e gli slavi del sud è il ritmo Malfouf. Ma la maggior parte di chi fa musica nei Balcani, non conosce questi generi, e le strutture di questi ritmi. Come si suol dire, suonano semplicemente a orecchio.
Lei era un nome onnipresente in tutte le iniziative musicali della TV pubblica albanese negli anni ’90. Poi nel ’97 si trasferisce in Italia…
E’ successo nel ’97 durante la grande crisi. Mi sono trovato in un punto in cui non avevo più nulla da fare, perché la situazione era degenerata completamente. Lavoravo presso la TV pubblica, nel dipartimento degli spettacoli. Non era più clima d’arte. C’erano troppi problemi, non si poteva fare arte. Così ho deciso di trasferirmi a Milano, e poi ho lavorato tra Milano e Venezia. Sono ripartito da zero in un paese in cui nessuno mi conosceva e in cui, oltre a essere un musicista, ero anche albanese.
Che rapporti ha con l’Albania oggi?
L’unico rapporto di tipo artistico che ho con l’Albania ormai è il festival del Jazz che ha luogo a Scutari ogni anno. Ci vado tutti gli anni, per una settimana o 10 giorni, e poi vado a Tirana a vedere i miei genitori e qualche amico di vecchia data. Ma la maggior parte sono partiti.
Segue la scena musicale albanese degli ultimi anni?

Per quanto riguarda i festival non sono molto interessato, perché da quanto si dice e da quanto ho visto, mi sembra che siano cambiati gli obiettivi artistici. Sono finiti i tempi in cui cercavamo di introdurre qualcosa di nuovo, di creare. Oggi è molto diverso. Tutti vogliono diventare cantanti, tutti pensano a come guadagnare, senza badare alla qualità della musica. Questo per quanto riguarda la musica leggera, quella classica rimane legata alle istituzioni, e quindi continua a essere controllata e di qualità.
Da cosa deriva questo degrado?
Forse dalla troppa libertà, dalla voglia di strafare, e dall’ignoranza. Non si può diventare artisti, musicisti o pittori senza aver prima studiato in maniera professionale. In Albania sono numerosissimi gli artisti dilettanti. Oggi il dilettantismo si trova a volontà ovunque, ma forse essendo l’Albania un paese molto piccolo il suo peso si sente più che in un grande paese.
Negli anni ’90, c’è stato un risveglio creativo della musica albanese, nuove correnti rock, e diverse correnti alternative. Dove sono finiti quei gruppi?
La maggior parte si sono sciolti perché l’Albania non dava più stimoli. Ci sono artisti di qualità, ma lottano, raggiungono qualcosa e poi cadono in letargo, perché mancano gli stimoli, il confronto con nuovi impulsi, tra festival e concerti.
Ciononostante in quel periodo si è verificato un enorme fermento nella musica albanese, si formano i primi gruppi, Akullthyesit, Djemtë e detit, Ritfolk, Thunderway ecc. mentre dalla Macedonia e dal Kosovo arrivavano gli Elita 5, Agron Berisha e molti altri. Che ricordi ha di quel periodo?
E’ stato un periodo bellissimo. C’era tantissima voglia di fare musica, tutti volevano fare qualcosa di nuovo. Tutti avevano sete di rock. Erano i tempi di Agron Berisha, Elton Deda, Aleksandër Gjoka…

E’ stato un periodo estremamente creativo che mi ha dato molto professionalmente perché mi ha dato la possibilità scoprire nuovi gusti musicali. Tutto questo oggi non c’è più. In quei tempi, il desiderio di fare qualcosa era più grande di quello del guadagno.

Negli ultimi anni nella musica albanese sta trovando sempre più spazio un nazionalismo kitsch, sia nella musica leggera che in quella folk. Addirittura nel festival di dicembre (la principale manifestazione musicale albanese che ha luogo ogni dicembre a Tirana), tra le canzoni premiate ce n’era anche una rap fortemente nazionalista. Il fenomeno non è nuovo per gli altri vicini balcanici dell’Albania…

La nuova generazione non è abbastanza istruita. Il rap nasce presso i giovani di colore, emarginati. E’ più facile da assimilare e da interpretare. Io non la chiamerei musica ma solo testo. Non c’è una forte ragione sociale che leghi il rap al nazionalismo. E’ semplicemente un modo più facile di altri per affermarsi. Chi fa testi del genere riesce a farsi strada più facilmente. Ma non penso che queste canzoni abbiano qualche importante significato politico.
Ma come mai si lascia che questo tipo di musica entri nel festival di dicembre?
Quando io lavoravo alla tv pubblica, cercavamo di scegliere le canzoni più lontane possibile dagli estremismi. Per un semplice motivo: il festival non è politica. Se qualcuno vuole fare politica attraverso la sua musica, basta che pubblichi un disco. Perciò io sono contrario a questa scelta.
Comunque in Albania negli ultimi anni si è riscontrato qualche fenomeno interessante come il Jazzfestival di Scutari, o quello di Tirana… Come valuta la nascita di alcuni eventi come questi?
Sono estremamente sporadici. E’ un bene che ci siano, ma si tratta di eventi isolati senza una grande eco. Bisogna sostenere questi eventi per ottenere più partecipazione. Bisogna arrivare all’importanza dei festival di un tempo come quello di Gjirokastra, o come il festival della Primavera che girava per le principali città albanesi. Questo ravviverebbe la vita artistica di molte città. E’ interessante vedere che in Albania non esistono feste delle comunità. Non esistono feste della birra, del vino, e di commemorazione di eventi locali. L’unico momento in cui gli albanesi si riuniscono a festeggiare è per i matrimoni. Questo fa pensare che noi albanesi non siamo molto benevoli tra di noi, non abbiamo spazi comuni, dove poter socializzare e festeggiare insieme. Penso sia un fatto dovuto al regime, e allo sradicamento delle tradizioni. Sicuramente prima saranno esistite.

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