Processo Hartmann

Florence Hartmann, giornalista francese già portavoce della Procura del Tribunale Penale per la ex Jugoslavia, è stata incriminata dai giudici dell’Aja. Accuse, reazioni, libertà di espressione e giustizia internazionale. Nostra intervista

11/12/2008, Andrea Oskari Rossini - Sarajevo

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Florence Hartmann in una prima comparizione di fronte ai giudici, 27 ottobre 2007

Il 5 febbraio 2009 inizierà all’Aja, presso il Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia (TPI), il processo a Florence Hartmann, portavoce della Procura di quella stessa Corte dal 2000 al 2006 e una delle sue figure pubbliche più rappresentative nei Balcani.

La giornalista francese è accusata di oltraggio per aver parlato, nel suo recente libro " " (Flammarion, 2007) e in un articolo comparso sul Bosnian Institute il 21 gennaio di quest’anno (Vital genocide documents concealed) di due decisioni confidenziali prese dai giudici nel quadro del processo Milošević (20 settembre 2005 e 6 aprile 2006).

Quelle decisioni sarebbero relative ad alcuni documenti del Consiglio Supremo di Difesa della Serbia, consegnati al TPI da Goran Svilanović, allora ministro degli Esteri del governo guidato da Zoran Đinđić. La Procura li aveva presentati nel caso Milošević per sostenere il collegamento tra l’ex presidente e Srebrenica, e provare così l’accusa di genocidio. I giudici li avevano accolti, ma il processo non arrivò mai a conclusione per la morte di Milošević in carcere, l’11 marzo del 2006.

Secondo diversi osservatori, in quei verbali potrebbero esserci le prove del coinvolgimento della Serbia nella guerra in Bosnia. La Corte Internazionale di Giustizia (CIG), tuttavia, ritenne di non averne bisogno per pronunciarsi sull’accusa di genocidio sollevata contro Belgrado dalla Bosnia Erzegovina. I giudici del TPI, dal canto loro, avrebbero deciso di mantenere il segreto su quei documenti nei provvedimenti descritti dalla Hartmann. La sentenza della CIG del 27 febbraio 2007 scagionò infine la Serbia. Una condanna avrebbe potuto aprire la strada ad una serie onerosa di richieste di risarcimento nei confronti di Belgrado.

Per aver parlato di quelle decisioni, Florence Hartmann rischia ora 7 anni di carcere e 100.000 euro di ammenda.

Questo processo rischia di segnare un pericoloso passo indietro per un Tribunale che aveva fatto della trasparenza la cifra del proprio operato. Riporta inoltre alla ribalta la questione dell’accesso ai materiali raccolti dall’Aja in questi anni, una delle più importanti eredità del Tribunale. Il pieno accesso a quegli archivi rappresenta un elemento fondamentale per l’elaborazione del passato recente della regione, strumento indispensabile per una riconciliazione basata sul riconoscimento delle responsabilità. Processare chi rende pubblico il lavoro del Tribunale, sotto questo profilo, non rappresenta certo un segnale positivo.

Al TPI dell’Aja, inoltre, non resta molto tempo. Secondo quanto stabilito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il Tribunale dovrà portare a termine il proprio mandato entro la fine del 2010. Due ricercati sono ancora latitanti, Ratko Mladić e Goran Hadžić. Alcuni importanti processi sono appena iniziati, tra cui quello all’ex leader dei serbo bosniaci, Radovan Karadžić. Molti cosiddetti "pesci piccoli", una definizione che include personaggi responsabili della morte di centinaia di persone, probabilmente non finiranno mai a giudizio. L’ultimo procedimento avviato dai giudici, tuttavia, è a carico di una giornalista.

Decine di organizzazioni di difesa dei diritti umani della ex Jugoslavia, tra cui Documenta di Zagabria, la Fondazione per il Diritto Umanitario di Belgrado, varie sezioni dei Comitati Helsinki per i Diritti dell’Uomo e le Donne in Nero di Belgrado, hanno firmato una petizione in sostegno di Florence Hartmann, chiedendo al tempo stesso al TPI di "rimuovere qualsiasi dubbio che quelle decisioni siano secretate solamente per nascondere al pubblico il fatto che hanno protetto la Serbia dalla responsabilità per il genocidio commesso a Srebrenica. In relazione a questo, il processo a Florence Hartmann dovrebbe essere pubblico e accessibile per un monitoraggio da parte delle organizzazioni per i diritti umani."

Abbiamo incontrato la giornalista francese a Sarajevo, presente alla presentazione del documentario "Srebrenica, plus jamais ça!".

Perché i giudici del TPI hanno deciso di tenere segreti quei documenti?

Non posso dire più di quanto ho scritto nel mio libro.

Motivi politici?

Io ho solamente reso note le loro argomentazioni giuridiche.

Va bene, ma…

Mettiamola così, dovrebbero spiegare la loro decisione perché nessuno riesce a trovare altre spiegazioni che non siano di carattere politico, se ce ne sono altre le dovrebbero spiegare, è quello che il pubblico richiede.

Quei documenti avrebbero potuto portare ad una decisione diversa da parte della Corte Internazionale di Giustizia?

Non voglio fare nessun commento su quella che avrebbe potuto essere la sentenza. Non sappiamo se la Serbia sarebbe stata condannata per genocidio, non abbiamo visto i documenti completi, non si può fare nessuna previsione, ma sicuramente sarebbe stato diverso. La cosa strana è che la maggioranza dei giudici della CIG decise che quei documenti non servivano, che avevano documentazione a sufficienza per decidere.

La Bosnia Erzegovina non poteva richiederli al TPI e presentarli autonomamente?

No, il TPI aveva deciso che non potevano essere usati da nessun altra parte che nel processo Milošević. La Bosnia Erzegovina poteva avere accesso solo alle parti pubbliche di quei documenti, che erano stati censurati nei passaggi più sensibili. Alcuni funzionari del governo di Belgrado peraltro hanno riconosciuto pubblicamente che non volevano che la Bosnia entrasse in possesso di quei documenti, perché in caso contrario sarebbero stati condannati per genocidio. Sono documenti molto importanti, questo è stato detto e provato all’interno del processo Milošević. Come si può decidere del reale coinvolgimento di uno Stato in crimini commessi in un altro Paese se non puoi avere accesso ai documenti di quella istanza, in questo caso il Consiglio Supremo di Difesa, dove il capo dello Stato fissa le direttive e gli obiettivi strategici dello Stato inclusi quelli militari?

Era consapevole dei rischi che stava affrontando parlando pubblicamente delle decisioni prese su quei documenti?

Ho fatto il lavoro che ho sempre fatto, sono una giornalista, c’era una questione controversa, una polemica pubblica dopo la decisione della CIG. Se non abbiamo tutti gli elementi come facciamo a capire?

Nel suo libro ha mostrato come la giustizia internazionale è stata ostacolata, o almeno non è stata sostenuta, da alcuni Stati, in particolare Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, nella ricerca e cattura dei latitanti…

Il Tribunale è stato creato senza una polizia, l’arresto dei ricercati dipendeva dalla buona volontà degli Stati…

Crede che la sua incriminazione sia una conseguenza dell’aver parlato così apertamente di queste questioni?

La mia sensazione è che ci sia una volontà di vendetta per questioni che sono collegate al mio libro. Mi hanno incriminato su un fatto molto specifico, non mi hanno incriminato per diffamazione. In un caso di diffamazione vieni scagionato se hai detto la verità. Questo caso invece è costruito in modo diverso, sono incriminata perché ho detto la verità.

Quale sarà la sua strategia di difesa?

Non vengo certo a parlarne con i media. Posso dire che mi mancano ancora dei documenti che ho richiesto e che sto aspettando da settimane. Ci sono stati diversi ritardi. Devo dire però che hanno trovato tutto il tempo per mettere la mia foto e il mio nome insieme a tutti i criminali di guerra sul portale del Tribunale, quello l’hanno fatto senza alcun problema…

Lei è stata una delle principali figure pubbliche del Tribunale in questi anni. Adesso deve sedere dalla parte degli imputati, dove prendono posto persone accusate di crimini di guerra e contro l’umanità. Che effetto le fa?

Ho lottato per la giustizia internazionale e continuerò a farlo, scrivevo dei crimini di guerra ben prima di iniziare a lavorare per il Tribunale.

Da un punto di vista personale prova una sensazione di sconfitta?

E’ qualcosa che faccio fatica ad accettare. Se non mi presentassi verrei arrestata, dato che è stato spiccato un mandato di cattura contro di me, e il mio Paese rispetta la giustizia internazionale. E poi tutta quella gente mi sta aspettando in carcere, sanno che per anni ho lavorato su di loro…

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