Processo Cumhuriyet, gli imputati restano in carcere

Riprende a Istanbul il processo ai lavoratori del quotidiano Cumhuriyet, accusati di t[]ismo. Gli imputati in carcere restano dietro le sbarre, su richiesta dell’accusa. La cronaca del nostro corrispondente

13/09/2017, Dimitri Bettoni - Istanbul

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Manifestazione di sostegno a Cumhuriyet di fronte al tribunale

Restano dietro le sbarre tutti e dieci gli imputati del processo al quotidiano turco Cumhuriyet attualmente in carcere, accusati di sostegno ad organizzazioni t[]istiche armate senza esserne membri effettivi e associazione e gestione di organizzazione t[]istica. Altre sette persone coinvolte nel processo sono invece libere in attesa di giudizio. La procura ha chiesto pene fino a 43 anni di reclusione, in attesa della prossima udienza, già fissata per il 25 settembre prossimo, e di confermare la permanenza in carcere per dieci imputati, adducendo il rischio di inquinamento delle prove.

I giudici, al termine dell’udienza di lunedì 11 settembre e dopo una lunga camera di consiglio, hanno deciso di assecondare le richieste dell’accusa.

Il dibattito in aula

Gli interrogatori condotti dai giudici e proseguiti per tutta la giornata si sono concentrati sui tre teoremi su cui si fonda l’accusa. Ipotesi di reato, secondo la procura, tutte volte a sostenere gli obiettivi delle organizzazioni Fetö (la rete a capo di Fetullah Gülen), PYD (le forze curde nel nord della Siria) e PKK (l’organizzazione armata del movimento curdo autonomista), ritenute da Ankara di natura sovversiva e t[]istica.

Secondo i procuratori la fondazione a capo di Cumhuriyet avrebbe strumentalizzato la linea editoriale e manipolato le elezioni nel consiglio editoriale; gli imputati avrebbero utilizzato l’applicazione per smartphone “Bylock” per le comunicazioni con i presunti membri di queste organizzazioni; titoli e articoli pubblicati sulle pagine del quotidiano avrebbero avuto lo scopo di assecondare il messaggio t[]ista, manipolare la percezione pubblica e ostacolare alcune indagini in corso.

“Chiedo soltanto un giusto processo” ha detto Kadri Gürsel, consulente del giornale accusato di aver manipolato il board editoriale. Il suo avvocato difensore insiste nel sottolineare come Gürsel, che a Cumhuriyet ha rivestito per pochi mesi un ruolo di consulenza esterna, non avesse alcun potere decisionale. “Le accuse secondo cui questo giornale abbia sostenuto Fetö sono inquietanti. Specialmente quando sono espresse da un governo che per anni ha offerto all’organizzazione un porto sicuro”, ha continuato l’avvocato, che ha ricordato come le decisioni prese dalla fondazione del giornale siano tutt’ora oggetto di un procedimento amministrativo.

La difesa sostiene dunque che un tribunale penale non abbia competenza in materia e che in ogni caso un fatto non ancora appurato dalla giustizia amministrativa non possa essere preso come elemento d’accusa da parte della procura.

“Sostenere un’organizzazione t[]istica è un’accusa interpretabile: un conto è fornire rifugio, armi o cibo, un altro è esprimere un sostegno astratto che possa sostenerne la causa”. Una differenza che la difesa vede come sostanziale, mentre l’accusa interpreta come reato di pari gravità.

L’avvocato Bahri Belen ha poi rilevato come accusando tutti per l’attività di un giornale la procura stia violando il principio di responsabilità individuale e questo “nonostante tutti coloro che hanno una storia importante a Cumhuriyet abbiano ricordato che il consiglio della fondazione non ha alcuna voce in capitolo sul contenuto editoriale del giornale”.

La questione “Bylock”

Attorno all’applicazione per smartphone “Bylock” la procura ha costruito buona parte dell’impianto accusatorio e, più in generale nell’intero paese, la presenza di tracce di questa applicazione è considerata dalle autorità di polizia e giudiziarie prova sufficiente per incarcerare i sospetti. Questo nonostante la Corte costituzionale si sia pronunciata in modo contrario, ritenendo la presenza di “Bylock” su un telefono insufficiente come prova determinante per stabilire la colpevolezza di un imputato, mentre andrebbero esaminati i contenuti.

L’avvocato di Gürsel ha sostenuto che “…delle 112 comunicazioni incriminate, non risulta il mio cliente abbia mai risposto a 102 di queste. Le altre 10 sono avvenute con altri giornalisti, fa parte della professione, e quando Gürsel non era neppure impiegato a Cumhuriyet”. E ancora “Per poter essere accusati di una corrispondenza attraverso ‘Bylock’, deve essere determinato che quella persona sia stata in possesso del codice univoco per la comunicazione segreta. Inoltre i contenuti devono essere esaminati”.

In sostanza la difesa ritiene che l’aver ricevuto messaggi o telefonate, a cui magari neppure si è risposto, da parte di utilizzatori di “Bylock” non può essere interpretato come una prova di affiliazione ad organizzazione alcuna. “È possibile sapere se la chiamata o il messaggio ricevuto sono partiti dall’applicazione? Gli esperti dicono di no”.

Ahmet Şık ha invece rigettato in toto le accuse di aver utilizzato l’applicazione: “I procuratori mi misero di fronte una lista di presunti contatti ‘Bylock’, sostenendo che avessi avuto contatti con essi. Non è così. Minacciarono l’arresto, e io risposi di fare pure”.

La difesa ha inoltre lamentato la mossa scorretta dell’accusa, che ha presentato nuova documentazione tecnica soltanto venerdì, a pochi giorni dall’udienza, rendendo impossibile il lavoro preparatorio degli avvocati.

La presunta presenza dell’applicazione sui telefoni degli imputati è stato oggetto di ampio dibattito tecnico e costituisce il principale motivo per cui i giudici hanno aggiornato il processo al 25 settembre accettando le richieste dell’accusa e quindi senza rilasciare gli imputati. I giudici hanno richiesto, nel frattempo, nuove perizie tecniche.

Giornalismo alla sbarra

Dove più risalta la natura politica del processo è nell’uso delle fonti giornalistiche. Da un lato articoli e titoli del quotidiano sono indicati come elementi di prova dell’affiliazione t[]istica.
Aykut Küçükkaya, giornalista chiamato a testimoniare, ha ribadito come “i criteri di pubblicazione sono tali per cui se finché una storia è vera, merita di trovare spazio sul giornale; e se qualcuno dei colleghi non ne è soddisfatto è libero di esprimere la propria critica. Ma i titoli sono realizzati da una diversa unità, che al giornalista piaccia o meno. Un reporter accusato attraverso il titolo di un articolo costituisce perciò qualcosa di oscuro”.

Ahmet Şık ha dovuto inoltre difendersi da nuove accuse, inserite venerdì scorso, relative ad un suo articolo dove, secondo la procura, avrebbe favorito il depistaggio delle indagini circa l’omicidio dell’ambasciatore russo Andrey Karlov, avvenuto ad Ankara. Nel suo pezzo il giornalista ha sostenuto che l’infiltrazione jihadista nella polizia sia una pista ipotizzabile, mentre le indagini ufficiali puntano con decisione verso una responsabilità Fetö/PYD.

Dall’altro lato, articoli di giornali vicini al governo sono citati come elementi di prova nell’atto di accusa. Secondo la difesa, lunghe parti di questo processo sono già state anticipate da giornali come Sabah e, se queste storie vengono utilizzate come prova, sono quindi reperibili sia nei documenti dei tribunali che sulle pagine dei quotidiani. Dunque, come è possibile che gli imputati possano inquinare le prove se rilasciati?

“Ma la vera domanda”, prosegue l’avvocato Fikret Ilkiz nelle sue conclusioni, “è come sia possibile per un giornale sostenere il t[]ismo attraverso le sue storie; come è possibile essere membro di un’organizzazione t[]istica attraverso una pubblicazione?

“La procura sta portando alla sbarra un caso giornalistico, costringendoci a dibattere se attività giornalistiche possano essere considerate o meno propaganda t[]istica”, ha poi concluso Ilkiz. “Potrete anche non vedere di buon occhio le decisioni della Corte europea dei diritti umani sul caso Şık, potrebbe persino non piacervi in quanto uomo, ma non potete ignorare le decisioni della Corte sulla libertà di stampa. La Commissione di Venezia si è espressa con chiarezza: un dibattito frutto delle leggi antit[]ismo che conduca a inquadrare l’attività dei media come sostegno al t[]ismo deve essere considerato profondamente sbagliato”.

DOSSIER

Lunedì 24 luglio è iniziato in Turchia il processo a 17 giornalisti di Cumhuriyet (“Repubblica”), storico giornale d’opposizione accusato dalle autorità giudiziarie turche di sostegno ad attività t[]istiche. Dopo il tentato golpe dell’estate 2016, i media del paese vivono sotto una pressione crescente. I giornalisti di Cumhuriyet non sono né i primi né gli unici ad aver conosciuto il carcere, ma il processo che ha colpito questa testata assume un valore simbolico, perché racconta alla comunità internazionale l’involuzione di un paese formalmente candidato ad entrare nell’Unione europea, nel quale oggi sono a rischio le fondamenta stesse della libertà di espressione. In questo dossier i materiali per approfondire l’intera vicenda.

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Questa pubblicazione è stata prodotta nell’ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto

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