Pristina e Barcellona, strade parallele

La Spagna è uno dei cinque paesi dell’UE che ancora non riconosce il Kosovo. La questione catalana incide pesantemente sul futuro di Pristina, in particolare per quanto riguarda le relazioni con l’Unione europea

23/02/2021, Paolo Bergamaschi -

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Pristina, la capitale del Kosovo © Martyn Jandula/Shutterstock

Per una singolare coincidenza o, forse, uno scherzo della storia domenica 14 febbraio i destini di Kosovo e Catalogna si sono di nuovo incrociati. In quel giorno, infatti, in entrambi i luoghi si sono svolte le elezioni. La dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo risale al febbraio del 2008; quella della Catalogna all’ottobre del 2017. Le analogie, però, si fermano a questo atto.

Diversissima, infatti, è la genesi e il contesto storico nel quale Pristina e Barcellona hanno affermato la volontà di staccarsi rispettivamente da Belgrado e Madrid. Nel caso del Kosovo si è trattato di un lungo processo iniziato con la guerra del 1999 che provocò quasi 15.000 vittime; in quello catalano lo strappo si è consumato fra una parte della società politica e civile della comunità autonoma e il governo centrale di Madrid.

Di fatto il Kosovo dal 1999 è indipendente mentre la Catalogna continua a fare parte del Regno di Spagna. La questione catalana, però, incide pesantemente sul futuro dell’ex provincia serba, in particolare per quanto riguarda le relazioni con l’Unione europea.

La Repubblica del Kosovo, infatti, è riconosciuta solo da ventidue dei paesi membri dell’Ue. Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna non hanno rapporti ufficiali con Pristina. Ognuno di questi cinque paesi ha questioni aperte con minoranze interne che potrebbero rivendicare il diritto all’autodeterminazione come è accaduto con il Kosovo.

Le relazioni fra Bruxelles e Pristina, pertanto, sono segnate da un’ambiguità di fondo che pregiudica un’azione politica coerente. La Spagna, in particolare, si è distinta nel ruolo di guastatore per impedire che il Kosovo goda nelle istituzioni europee dello stesso trattamento concesso a uno stato sovrano.

L’Accordo di Stabilizzazione e Associazione sottoscritto da Ue e Kosovo nel 2015, ad esempio, poggia su una base giuridica diversa rispetto a quella degli accordi di stabilizzazione e associazione conclusi in precedenza con gli altri paesi dei Balcani occidentali.

Si è trattato di uno stratagemma escogitato dalla diplomazia europea per aggirare l’ostacolo rappresentato dalla ratifica dei parlamenti nazionali; quello spagnolo non avrebbe approvato il documento. In altre occasioni i diplomatici spagnoli si sono rifiutati di partecipare a riunioni promosse dall’Ue dove ai rappresentanti kosovari era assegnato lo stesso rango.

Formalmente il Kosovo è uno dei paesi potenzialmente candidati all’adesione; di fatto, fintantoché Belgrado e Pristina non raggiungono un accordo, il suo cammino di avvicinamento all’Ue è sbarrato da Madrid. E più si incancrenisce la crisi catalana, più si indurisce la posizione di Madrid nei confronti di Pristina.

Per giunta, paradossalmente, oggi ai vertici della diplomazia europea nelle vesti di Alto Rappresentante della Politica Estera e di Sicurezza Comune Europea siede lo spagnolo Josep Borrell, catalano ma nemico giurato degli indipendentisti di casa propria. Un groviglio inestricabile di pulsioni contrastanti e interessi contrapposti che si trasforma in un rompicapo indecifrabile per chi cerca di mettere insieme i pezzi del puzzle.

Su entrambi i fronti dalle urne sono usciti vincenti i partiti indipendentisti. Di un soffio a Barcellona, senza una vera competizione a Pristina perché lì, con l’eccezione della minoranza serba, tutti sostengono l’inclusione a pieno titolo del Kosovo nella comunità internazionale. Non sorprende, così, che a sbancare sia stata la formazione che più di ogni altra rivendica il diritto dell’ex provincia serba a ritagliarsi un posto sulla scena internazionale.

Da sinistra: l'ex eurodeputato Igor Soltes, Albin Kurti e Paolo Bergamaschi

Da sinistra: l’ex deurodeputato Igor Soltes, Albin Kurti e Paolo Bergamaschi

Vetevendosje, infatti, in lingua albanese significa autodeterminazione. Il suo leader, fondatore e capo indiscusso, è Albin Kurti. Lo incontrai per la prima volta, credo, nel 2002 nella hall del Grand Hotel che allora era l’unico posto dove alloggiare a Pristina. Chiesi espressamente di includere Albin nel programma della delegazione che accompagnavo anche se a quell’epoca il suo nome non faceva parte delle figure di spicco della società kosovara.

Nei mesi precedenti mi ero occupato del suo caso, quando era detenuto nelle prigioni jugoslave, e avevo steso un paio di risoluzioni per chiederne la liberazione. Mi incuriosisce sempre, quando si presenta l’occasione, incontrare, durante i miei viaggi, le persone vittime di ingiustizia per le quali mi sono battuto nelle istituzioni comunitarie. Trovai una persona un po’ spaesata, forse ancora provata dalla lunga prigionia. Fui colpito, però, dalla sua spiccata personalità marcata da affermazioni nette e, a mio avviso, un po’ ingenue, che non lasciavano spazio ad equivoci.

Parlava in modo lineare e diretto arrivando al dunque senza punti intermedi. Ho avuto poi modo di incontrarlo molte altre volte nel corso degli anni sia a Pristina che a Bruxelles. Ho sempre apprezzato la sua determinazione nella lotta alla corruzione e al clientelismo, mali cronici che affliggono la società kosovara.

Non condividevo affatto, però, la sua intransigenza nel dialogo con Belgrado, i suoi richiami alla Grande Albania e la presunzione di rendere il Kosovo autosufficiente dal punto di vista energetico sfruttando la lignite, di cui abbonda il paese, uno dei combustibili più inquinanti che si aggiunge ad una situazione ambientale già disastrata. Grazie alla sua guida, comunque, Vetevendosje mostrava di essere l’unica formazione del panorama kosovaro con una chiara visione politica e una piattaforma programmatica strutturata.

Anche se sostenuto da una solida maggioranza parlamentare non sarà facile per Kurti governare un paese impantanato in un processo di transizione che dopo un iniziale progresso si è arenato. L’Unione europea, che con la missione Eulex dal 2008 ha fatto da baby-sitter allo stato neonato, sembra avere smarrito la direzione. A cominciare dalla promessa mancata di abolizione del visto che obbliga i cittadini kosovari, unici nei Balcani, a lunghe e umilianti procedure per entrare nello spazio Schengen.

Stando alle prime dichiarazioni Albin Kurti sembra intenzionato a non dare troppo spazio nella propria agenda al proseguimento del dialogo fra Belgrado e Pristina non ritenendolo una questione prioritaria. Sarebbe un []e se lo facesse. L’elezione di Biden alla Casa Bianca ha aperto una finestra temporale che va sfruttata appieno.

È stata l’amministrazione Trump dietro le quinte a far cadere nel marzo scorso il primo governo da lui guidato castrando gli entusiasmi di chi sperava in una stagione di cambiamenti. La nuova amministrazione americana potrebbe dare impulso ad un dialogo che ha bisogno di un deciso cambio di passo.

Bruxelles, che ha il mandato delle Nazioni Unite di facilitare i negoziati, deve rendersi conto che il Kosovo rappresenta oggi un test cruciale per la credibilità della sua politica estera e la conseguente reputazione internazionale. La facilitazione passiva non basta più; il dialogo, iniziato nel 2011, non può durare all’infinito. Occorre un salto di qualità passando alla fase della mediazione attiva con proposte e suggerimenti da offrire alle parti; Washington, a questo riguardo, può fare da sponda articolando e modulando un mix di pressione diplomatica con una serie di incentivi coordinati con quelli europei.

Kurti dovrà stare molto attento, inoltre, a non intralciare i procedimenti del Tribunale Speciale che nei prossimi mesi giudicherà all’Aja l’ex presidente della repubblica Hashim Thaçi assieme ad altri leader dell’Uçk per presunti crimini di guerra. Se lo facesse si tirerebbe la zappa sui piedi aumentando ulteriormente l’isolamento internazionale di Pristina.

Infine l’Unione europea che nell’ex provincia serba ha investito in questi anni più di due miliardi di euro oltre che a ingenti risorse umane. Se in Kosovo la giustizia arranca e la pubblica amministrazione non funziona deve assumersi le proprie responsabilità e adottare i necessari rimedi. Si rischia il fallimento e non possiamo permettercelo.

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