Prima delle bombe

La presenza civile internazionale nel Kosovo degli anni Novanta. Lungimirante ma troppo debole per incidere. Il caso a parte della Comunità di Sant’Egidio. Racconto di un’occasione mancata

25/03/2009, Mauro Cereghini -

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Alexander Langer

La crisi apertasi in Kosovo nel 1988-89 è il primo segnale di disgregazione dell’allora Jugoslavia federale. A quel tempo era considerata una questione interna ad uno stato sovrano del blocco socialista, per quanto atipico, e il muro di Berlino era ancora in piedi. Comprensibile quindi che abbia smosso ben poco interesse internazionale anche nei movimenti civili per la pace. L’unica attenzione veniva, all’interno della Federazione stessa, dalle nascenti organizzazioni libere in particolare slovene, che subito solidarizzarono con la causa albanese in chiave autonomista e anti-centralista. Ma appena l’Europa occidentale iniziò ad interrogarsi su cosa avveniva da Lubiana in giù, fu presto chiara la centralità del nodo kosovaro e iniziarono visite e missioni alla volta di Pristina.

Nella primavera 1991 una delegazione di associazioni e persone, chiamate a raccolta dai verdi belgradesi, era già a Pristina. Con loro anche Alexander Langer, che già coglieva il clima esistente: "Tutti rispettano molto l’iniziativa dei Verdi di Belgrado, molti però credono che essi arrivino troppo tardi: il Rubicone della totale incompatibilità sarebbe già stato attraversato, si sarebbe presto arrivati a una contrapposizione violenta".
 

Langer insieme ad altri quattrocento attivisti partecipò anche alla successiva Carovana della pace nel settembre ’91, organizzata dalla Helsinki Citizens’ Assembly. Non andarono in Kosovo perché si votava il referendum clandestino per la proclamazione della Repubblica, ma di nuovo quella questione fu considerata centrale.

In seguito invece le violenze e il sangue che iniziarono a vedersi, in Croazia e poi in Bosnia Erzegovina, sviarono l’attenzione dei più. Associazionismo, movimenti per la pace ed il nascente sistema umanitario si impegnarono a fondo nell’emergenza bellica, trascurando un po’ per necessità e un po’ per miopia le aree circostanti.

Così il Kosovo attraversò alcuni anni di sostanziale abbandono internazionale. A livello istituzionale, cacciata nel 1993 la delegazione di monitor CSCE, il regime di Belgrado operò per mantenere il tema fuori da qualsiasi negoziato, riuscendoci in pieno a Dayton e mandando così in frantumi gli sforzi del moderato Rugova. Sul piano non governativo fu impedito l’accesso alle organizzazioni più note come Amnesty International, e solo piccoli gruppi minoritari mostrarono interesse per una questione scarsamente mediatica. Si possono citare Pax Christi belga, il Mouvement pour une Alternative Nonviolente francese, la coalizione internazionale del Balkan Peace Team e l’italiana Campagna per una soluzione nonviolenta in Kossovo. Ad attrarli il carattere nonviolento della resistenza albanese, sebbene a volte idealizzato e sopravvalutato nella sua portata etica, tanto da far prendere in alcuni delle posizioni di parte.

L’attività principale di questi gruppi era monitorare la situazione, attraverso visite più o meno periodiche, redigere rapporti e cercare di smuovere l’opinione pubblica europea. La Campagna Kossovo in particolare svolse alcune visite tra il 1993 e il 1995 per colloqui con politici, intellettuali e giornalisti, coinvolgendo in Italia il mondo cattolico e quello nonviolento. Nel 1995 avviò una presenza stabile di volontari a Pristina, che prese il nome di Ambasciata di pace. A condurla per la maggior parte del tempo fu Alberto L’Abate, professore universitario di Firenze e figura storica del movimento nonviolento italiano. La sua presenza fino al 1997 permise di studiare da vicino il conflitto in atto e le proposte di soluzione avanzate da vari organismi internazionali. Fece inoltre da base per alcune micro-azioni di solidarietà dall’Italia. Simile ma un po’ diverso l’approccio del Balkan Peace Team, che si proponeva di facilitare le relazioni tra gruppi di opposizione serbi a Belgrado e gruppi albanesi di Pristina, con un lavoro quasi interpersonale.

Caso a parte quello della Comunità di Sant’Egidio, organizzazione di volontariato impegnata nell’ecumenismo e supportata con discrezione dal Vaticano, già attiva in mediazioni internazionali. Il suo profilo si può definire solo in parte non governativo, agendo sul piano della diplomazia parallela. La Comunità di Sant’Egidio negoziò direttamente tra Rugova e Milosevic un accordo parziale sulla riapertura agli albanesi degli edifici scolastici. L’accordo, firmato nel settembre 1996, fu implementato parzialmente e con estrema difficoltà solo due anni dopo, ma non impedì lo scivolare del conflitto in guerra aperta.

Altro caso ancora di associazionismo italiano che si impegnò in Kosovo a partire da una forte motivazione etica, seppure in una fase ormai più avanzata del conflitto com’era quella dell’estate 1998, fu l’Operazione Colomba promossa dall’Associazione Papa Giovanni XXIII. Con uno spirito di condivisione e lavoro micro-sociale, alcuni volontari a turno andarono ad abitare in un villaggio a composizione mista nell’area di Suva Reka. L’obiettivo, forse eccessivo e tardivo, era fare da osservatori disarmati e prevenire la conflittualità in loco. La presenza si interruppe, come per tutti gli stranieri in Kosovo, con la fine di marzo 1999 e l’inizio dei bombardamenti.

Sempre a partire dal 1998, con gli scontri ormai diffusi tra esercito serbo ed UCK che avevano creato i primi sfollati interni e fatto accendere i riflettori internazionali sull’area, cominciarono ad operare le più tradizionali Ong di aiuto ed emergenza. Per alcuni era una forma di continuazione dopo l’impegno in Bosnia Erzegovina, per altri una sorta di pre-posizionamento in attesa della crisi vera. E del business che ne seguì, quando per alcuni anni il minuscolo Kosovo ricevette più fondi internazionali dell’intera Africa.

Amaramente, si può dire che quando sarebbe stata più utile – nella prima metà degli anni novanta – la presenza civile internazionale è stata affidata a pochi. Lungimiranti, ma troppo deboli. Un fragile ombrello, per la pioggia di bombe che si preparava…

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