Presidenziali in Turchia: no a Erdoğan
Sabato scorso sono scesi in piazza per dire no all’ipotesi della candidatura di Tayip Erdoğan, attuale premier, alla presidenza della Repubblica. In Turchia, martoriata anche dai recenti drammatici episodi di violenza, si alza la tensione
70.000 secondo la questura, un milione secondo gli organizzatori, 300.000 secondo le principali agenzie di stampa internazionali. Anche sulle cifre il disaccordo è totale. Centinaia di migliaia di persone sono comunque scese in piazza sabato scorso ad Ankara su invito dell’Associazione per il pensiero ataturchista (ADD), guidata da un generale in pensione, per dire no all’ipotesi della cadidatura di Tayip Erdoğan alla presidenza della repubblica. Alla manifestazione hanno aderito anche alcuni partiti politici, CHP, MHP, DSP, per quella che secondo alcuni osservatori potrebbe essere una prova generale di coalizione in vista delle elezioni politiche del prossimo autunno. I manifestanti hanno sfilato per il centro della capitale fino al mausoleo di Atatürk accompagnati dallo slogan "La Turchia è laica e laica resterà!".
La manifestazione di sabato è stata l’ultimo di una serie di eventi che nei giorni scorsi hanno reso più infuocato un dibattito che già da mesi quasi monopolizza l’agenda politica del paese.
Tradizionalmente del resto le elezioni per la presidenza della repubblica sono sempre state caratterizzate da un alto grado di conflittualità. Benché infatti la Turchia sia una repubblica parlamentare ed il presidente della repubblica abbia funzioni limitate, il palazzo di Çankaya, residenza del presidente, nell’universo simbolico della politica turca riveste una particolare importanza. Esso rappresenta la continuità dello stato, del regime per usare un termine usato in Turchia, l’apparato burocratico e l’establishment piuttosto che il potere politico, verso il quale l’apparato statale mostra da sempre una profonda diffidenza.
E’ per questa ragione che in passato i presidenti della repubblica sono stati in genere militari, militari in pensione o rappresentanti dell’apparato burocratico, come l’attuale presidente Sezer. Uniche eccezioni "civili" Turgut Özal, il cui mandato è stato segnato da feroci polemiche, ed il sempiterno Süleyman Demirel, uomo politico per tutte le stagioni. Ed ora tocca a Tayip Erdoğan, il quale in verità non ha mai dichiarato di volersi candidare. La polemica che si trascina da mesi in realtà quindi si basa su illazioni o supposizioni fondate soprattutto sul fatto che il partito AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) può godere in parlamento di una maggioranza assoluta. Incalzato dalle polemiche Erdoğan dal canto suo ripete che si esprimerà solamente il 25 aprile, data ultima per la presentazione delle candidature.
Con l’avvicinarsi della scadenza del prossimo maggio quella che si autodefinisce la parte laica del paese e gli apparati di stato hanno intensificato il fuoco di sbarramento. Prima la conferenza stampa del capo di stato maggiore gen. Büyükanit il quale ha delineato il profilo di colui che, in qualità di presidente della repubblica sarà anche il capo delle forze armate. Dovrà essere una personalità legata al dettato costituzionale "nei fatti e non solo a parole". Venerdì è toccato poi al presidente Sezer usare toni apocalittici: "Mai come oggi il regime laico si trova in pericolo". Riferendosi al fatto che con il presidente della repubblica il partito AKP si troverebbe ad occupare tutte le maggiori cariche dello stato, Sezer ha parlato del "pericolo della dittatura della maggioranza".
Fino ad arrivare al prologo di sabato.
Un appello che circolava nei giorni scorsi nella rete è rivelatore dei sentimenti che animano il fronte dei laici " …siamo forse in Arabia Saudita, dove sono i principi di Atatürk? Se domani ci fosse un colpo di stato io festeggerei" scriveva un anonimo artista di sinistra. Nostalgie golpiste, nonostante le smentite degli organizzatori – "Noi non siamo golpisti, siamo rivoluzionari" -, aleggiavano sulla manifestazione di sabato. E del resto il tema del colpo di stato, probabile, possibile o solamente presunto è tornato da tempo ad essere serio argomento di discussione nel paese.
Al dibattito hanno contribuito le rivelazioni del settimanale Nokta che a marzo aveva pubblicato un lungo dossier nel quale, facendo riferimento ai diari personali del capo di stato maggiore della Marina, si rivelava come nel 2004 ambienti delle forze armate avesse pianificato in due occasioni un colpo di stato per sbarazzarsi del governo AKP. Progetti che sarebbero andati in fumo per l’opposizione dell’allora capo di stato maggiore generale Özkök. Successivamente la stessa rivista aveva pubblicato documenti riservati delle forze armate nei quali si pianificavano mobilitazioni di piazza coordinate con alcune associazioni della società civile. E lo scorso venerdì la polizia ha fatto irruzione nella sede del settimanale sequestrando i computer dei giornalisti. Il giorno successivo mentre la Turchia laica manifestava ad Ankara, ad Istanbul solo una cinquantina di persone protestava per l’iniziativa della polizia.
Nel mirino delle proteste non sembra solo esserci l’ipotesi di Erdoğan presidente della repubblica ed una first lady che porta il velo ma piuttosto l’intero operato del suo governo e del processo riformatore che ha intrapreso. Gli slogan di sabato contro l’imperialismo americano, quello europeo, il Fondo Monetario, gli appelli per una Turchia indipendente. Le parole di Sezer che ha parlato di non meglio precisate forze straniere -il riferimento è agli USA- che vorrebbero instaurare un regime islamico illuminato e le richieste di un adesione all’UE senza concessioni. I riferimenti del gen. Büyükanit a documenti dell’Unione Europea che proverebbero come, dietro il pretesto della difesa delle minoranze, si nasconderebbe la volontà di smembrare il paese. Temi e clichès ampiamente noti che hanno trovato una nuova occasione per tornare a mobilitare le folle.
Opposizione alle politiche dell’AKP, sospetti sul suo carattere laico ma anche il rancore prima che politico antropologico delle elites tradizionali di fronte ai parvenus dell’"altra Turchia" e nostalgia per lo status quo messo in discussione dalle riforme. C’ è tutto questo dentro il cosiddetto fronte della Turchia laica.
E sull’altro versante c’è un partito che contando sulla maggioranza parlamentare è preso dalla tentazione di fare il grande colpo, di prendersi una rivincita sulla storica emarginazione a cui è condannato la parte del paese che rappresenta, facendo cadere l’ultima roccaforte della capitale.
In quest’ansia di rivincita Erdoğan deve fare i conti però con la bruta realtà dei numeri. Il suo partito ha ottenuto la maggioranza parlamentare solo in virtù del particolare sistema elettorale turco. Con il 34% dei voti ottenuti esso è ben lontano dal rappresentare la maggioranza del paese, soprattutto considerando che furono quasi undici milioni gli astenuti alle elezioni del 2002. Decidere di candidarsi, evitando ogni soluzione di compromesso, rappresenterebbe una forzatura che potrebbe nuocere al paese ed al suo stesso partito.
Anche tra i militanti del partito sembra farsi strada il dubbio. Un sondaggio interno rivelerebbe, il condizionale è d’obbligo, che il 70% dei militanti preferirebbe vedere Erdoğan ancora sulla poltrona di primo ministro, temendo anche che una sua partenza potrebbe dare il via alla dissoluzione del partito.