Predrag Pašić, il calcio alla prova del nazionalismo
La storia di Predrag Pašić, vecchia gloria del calcio jugoslavo, è la storia di Sarajevo e di Bubamara, piccola accademia calcistica per bambini fondata durante la guerra. Ora la politica bosniaca vorrebbe cancellare questa esperienza, ma Pašić assicura: “Continueremo a combattere”
La prima volta che ho incontrato Predrag Pašić, solo un mese fa, le circostanze erano molto diverse. Allora, ci eravamo accontentati di conversare sui mondiali, sulla qualificazione della Bosnia Erzegovina, sulla storia di Bubamara, la scuola calcio da lui fondata durante la guerra per insegnare i valori della multiculturalità attraverso il pallone. Non avevamo parlato delle difficoltà che la stessa scuola stava attraversando, dei suoi problemi con la politica, del fatto che il partito SDA e l’FK Sarajevo si fossero mossi per sfrattare l’ex stella della nazionale jugoslava dal terreno dove da più di dieci anni si allena con i suoi ragazzi (“come mai non me ne ha nemmeno accennato?” “Beh, si stava parlando d’altro”, risponde lui, come a dire: era meglio concentrarci sul lato positivo, dimenticare le difficoltà).
Ora i mondiali sono finiti, l’atmosfera di euforia collettiva se n’è andata, anche piuttosto in fretta (“i nostri non erano nemmeno tanto male, abbiamo pagato l’inesperienza”, dice), e Bubamara ha chiuso le porte: “Ma solo per l’estate”, tranquillizza l’ex calciatore, “certo il fatto di non avere un campo non aiuta. Ma stiamo pensando a una soluzione e con un po’ di fortuna, troveremo un posto dove ricominciare i nostri allenamenti dal primo agosto”.
Quale genesi ha avuto ‘Bubamara’? Per quale motivo ha deciso di creare questo progetto?
Sono nato a Sarajevo, e qui ho sempre vissuto. Prima della guerra pensavo che fosse fantastico stare in questa città. L’unico posto al mondo, come spesso si dice, dove potevi camminare e vedere chiese, sinagoghe e moschee. Sentire contemporaneamente campane e muezzin. Io sono sempre stato convinto che questo fosse un valore: sono ortodosso, ma ho sposato una cattolica. Il marito di nostra figlia è musulmano e ne siamo sempre stati felicissimi.
Non ho mai desiderato andarmene. Allo scoppio della guerra ho scelto di rimanere qui, con i miei concittadini. Mano a mano che passavano i giorni, pensavo a cosa potessi fare per loro. Io ero un calciatore, la gente mi conosceva per quel motivo: ho giocato a lungo per l’FK Sarajevo, con la Jugoslavia ho partecipato ai mondiali di Spagna. Con alcuni amici ho pensato, ‘creiamo una scuola di calcio’. Per dare un segno di normalità, per fare capire che la vita andava avanti. Siamo andati a fare l’annuncio alla radio: ‘Predrag Pašić apre a Sarajevo un’accademia per futuri campioni’ – Bubamara. Pensavamo che non sarebbe venuto nessuno. Al massimo ci si aspettava sei, sette persone. Il campo di allenamento era a Skenderija, vicinissimo al fronte. Toccava attraversare un ponte che era tenuto costantemente sotto tiro dai cecchini. Dirlo adesso sembra impossibile, ma cosa vuoi, all’epoca c’era un cecchino a ogni incrocio: uno più, uno meno… si presentarono in più di duecento. Bambini musulmani, serbi, croati. Fuori ci si sparava, per queste differenze. Io insegnavo loro che erano proprio queste a renderci forti, a pensare come una squadra.
Negli anni ottanta, quando giocava nel Sarajevo, erano parole che aveva sentito pronunciare anche dal preparatore psicologico della squadra. Era uno psichiatra della capitale: Radovan Karadžić.
Non riuscirò mai a capire cosa sia successo a Karadžić. Per me esistono due persone: uno è il preparatore psicologico che ci motivava al Sarajevo. Che ci insegnava ciò che anch’io, oggi, tento di trasmettere ai miei ragazzi: che la nostra diversità è una risorsa. Che siamo tutti parte della stessa squadra e che, come squadra, si vince. L’altro Karadžić è quello che è purtroppo passato alla storia, il leader dei cetnici che adesso è sotto processo all’Aja. Sono due uomini che non hanno nulla in comune. Non saprò mai cosa ha spinto l’uno a diventare l’altro, è una domanda che mi porterò nella tomba.
Bubamara è diventata, negli anni, un piccolo simbolo di una Bosnia Erzegovina differente. Eric Cantona ne ha parlato anche in un suo recente documentario, ‘i ribelli del calcio’. Un episodio è proprio dedicato a lei…
Bubamara ha diverse scuole in tutto il paese. Da noi vengono ragazzini bosgnacchi, serbi, croati, senza differenze. Quando organizziamo dei tornei ci spostiamo spesso da una parte all’altra della Bosnia Erzegovina. E così da una regione a maggioranza musulmana si passa, ad esempio, in una a maggioranza croata o serba. I ragazzini si conoscono, imparano ad accettare le proprie diversità. E la parte migliore è che capita anche ai loro genitori. Sembra una banalità, ma è importantissimo in questo paese. Conoscere l’altro, viaggiare, non fermarsi agli stereotipi… Poi ci sono i tornei internazionali, quando dobbiamo formare una selezione nazionale. In queste occasioni, i ragazzi di diverse città, appartenenti a gruppi etnici diversi, gente che normalmente nemmeno avrebbe la possibilità di conoscersi, gioca con la stessa maglia. Tutti uguali.
In questi anni, al Bubamara, ho visto migliaia di ragazzini straordinari. Che con il tempo sono diventati medici, insegnanti, avvocati (uno di loro, Ervin Zukanović , ora gioca nella nazionale)… mi piace pensare, a volte, di averli aiutati a tirare fuori la loro parte migliore. In questo paese ci si lamenta spesso che i giovani sono svogliati, indolenti. In realtà è lo stesso paese che li disprezza, che li spinge ai margini demotivandoli.
Eppure, non tutti sono convinti che questa scuola sia una risorsa.
Nel corso degli anni abbiamo costantemente dovuto fare fronte a moltissimi problemi, la politica ha sempre esercitato delle pressioni consistenti per farci chiudere. Mai, comunque, si era arrivati al punto in cui siamo ora.
Cos’è successo, esattamente?
Dal 2001, ci siamo sempre allenati in un campo vicino all’aeroporto, nella municipalità di Ilidža. Era un campo di proprietà di una vecchia impresa pubblica jugoslava, fallita negli anni ottanta. C’è sempre stata molta confusione, dopo la guerra, riguardo al catasto e alle proprietà immobiliari. Per anni abbiamo sfruttato la possibilità di allenarci lì. Abbiamo investito dei soldi, circa 500 mila marchi (250.000 euro), per realizzare gli impianti, gli spogliatoi… poi all’ufficio comunale ci hanno garantito la possibilità di metterci in regola pagando un condono di 30.000 marchi, che io ho regolarmente sborsato. Eppure, alla fine di aprile, l’attuale sindaco di Ilidža, Senaid Memić (SDA) ci ha sfrattato. Il cancello è chiuso, ora, e l’entrata è sorvegliata da delle guardie private.
In un’intervista recente, rilasciata a ‘Dnevni Avaz ’, lei ha dichiarato, testualmente, che “l’hanno sfrattata perché il suo nome è Predrag”, cioè perché è un serbo. Lei è veramente convinto che dietro a tutto ciò ci siano delle motivazioni politiche?
Assolutamente. Non è la prima volta che si cerca di mettere ai margini la mia scuola con delle scuse. L’SDA (partito tradizionale bosgnacco, NDA) è maggioranza nella municipalità e lo stesso partito ha delle fortissime connessioni con l’FK Sarajevo. Qui è tutta politica, anche nel calcio purtroppo.
Da quando ce ne siamo andati noi, i nostri impianti sono utilizzati regolarmente dalle giovanili dell’FK Sarajevo. È piuttosto ironico, considerando che si sta parlando della mia vecchia squadra, della quale sono stato la bandiera. Ma questi sono i tempi: la direzione ha tagliato tutti i contatti con i vecchi giocatori. Ho provato a parlare con loro, a ottenere delle risposte, ma niente: fingono di non conoscermi. Per anni, la stessa squadra ha attinto a mani basse dalla mia scuola calcio. Mi hanno letteralmente rubato cinque allenatori, che ora lavorano con loro. Tutti i miei giocatori, regolarmente, mi venivano tolti perché attratti con delle lusinghe verso questa squadra, che comunque è una delle principali della prva liga bosniaca.
La politica è contro di voi, e i bosniaci? C’è qualcuno che vi sostiene? Avete avuto manifestazioni di solidarietà, di vicinanza?
Vede, i miei problemi sono quelli di tutti in questo paese. La gente ha altro a cui pensare e, onestamente, non riesco a fargliene una colpa. La Bosnia Erzegovina è stata rovinata da questi politici. Hanno usato la guerra per arricchirsi alle spalle della gente e ora, con le alluvioni, sarà la stessa cosa: per loro quello che è successo a maggio è un dono della provvidenza, potranno di nuovo fare i soldi e costruire duecento metri di tubature nuove in cambio dei voti dei cittadini. E per il futuro non sono molto speranzoso, se devo essere onesto. Ognuno ha i politici che si merita.
Non so come finirà la nostra lotta, ma non ho intenzione di mollare. C’è un processo in corso, per quel campo. Speriamo di vincere. Ma se non ci riuscissimo, sarò comunque felice. Felice di avere lavorato portando avanti i miei ideali. Se non altro, potrò continuare a camminare per strada a testa alta, senza alcuna vergogna. Quella la proveranno i nemici di ‘Bubamara’, quando mi incontreranno in futuro.