Di Predrag Matvejevic, Danas, 14 marzo 2006 (tit. orig. Bio je opijen vlascu i moci)
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Luka Zanoni
Della morte non ci si deve rallegrare. Essa "trasforma la vita in destino". Rporta la biografia degli statisti a un fatto storico. Relativizza la responsabilità degli atti e dei crimini, delle azioni e dei delitti. La morte di Milosevic nel carcere del Tribunale dell’Aia non suscita compassione. Suscita un fermo dispiacere: dispiace a quelli che credono di aver perso il proprio idolo, duce, parente, e in qualche modo anche quelli che sono insoddisfatti del fatto che il processo al criminale non è terminato. Sarebbe stato di gran lunga meglio se il tribunale fosse giunto ad esprimere la sentenza. Essa forse avrebbe contribuito al ravvedimento a lungo atteso. L’indagine, nonostante tutto, ha segnato una difficile testimonianza contro l’imputato. Il pubblico ha visto l’abile difesa dell’accusato. La storia farà la valutazione – ma le sue interpretazioni sono naturalmente differenti, solitamente contraddittorie.
Il lutto per il defunto probabilmente non durerà. Forse favorirà il mito più che la realtà. Non sappiamo se eviterà quella mistica espiazione con le lacrime, così nota nelle tradizioni balcaniche. Il congetturare se la morte di Milosevic sia stata causata dalla malattia o da qualcos’altro è già iniziato. Si è parlato anche di suicidio, come hanno fatto i suoi defunti genitori. Forse in questa occasione è la cosa meno importante.
I suoi familiari e i suoi accoliti hanno accusato il Tribunale dell’Aia di omicidio. Bisgnerà almeno dimostrarlo. Nella nuova storia serba nessuno è mai stato così appoggiato e celebrato come lo fu Milosevic nell’ultimo decennio del secolo scorso. A quel tempo furono commessi enormi crimini, con la divisione della Jugoslavia che stava crollando. I crimini serbi sono stati più numerosi di quelli commessi contro i serbi. Milosevic non ha ordinato ai suoi subordinati di fare tutto ciò che hanno fatto – hanno fatto molte cose sporche di propria iniziativa, in un’anarchia generalizzata. Ma lui al tempo, ci ricordiamo bene, aveva così tanto potere e così tanta influenza che avrebbe potuto impedire tutto quello che voleva – se solo lo avesse voluto veramente. E persino il peggio, ciò che hanno commesso e ordinato il cocciuto Mladic o l’egoista Karadzic o altri, a loro simili. L’influenza che il "duce" aveva sull’esercito e sui generali – preparata già prima della guerra – avrebbe potuto fermare l’Esercito popolare jugoslavo, per far sì che non sparasse sulla popolazione della Jugoslavia. Ma questo non è accaduto. La maggior parte dei quadri dell’esercito apparteneva, per proporzione e composizione, al maggioritario popolo serbo. Le decisioni principali però giungevano da Belgrado – e a Belgrado Milosevic poteva tenere tutto sotto il suo controllo. Molti degli ufficiali della JNA, a prescindere dalla nazionalità, credevano che nonostante tutto difendesse veramente la Jugoslavia. Erano educati ad un tale spirito, con la frase "fratellanza e unità" che una volta, durante Seconda guerra mondiale nei nostri sanguinosi scontri internazionali e interreligiosi, era salvifica e nobile. Nel frattempo le cose sono cambiate. Giunse al potere Slobodan Milosevic.
Lui non era un nazionalista al modo in cui è consueto da queste parti. Era per la Jugoslavia, ma purtroppo coi suoi comportamenti ha fatto molto di più di chiunque altro affinché si disintegrasse. Non aveva fede benché fosse figlio di un teologo. L’ortodossia gli era estranea, nonostante il patriarcato gli fosse incline. Era un uomo di potere e di governo al massimo grado – proprio il governo di cui si era impadronito e il potere che aveva a disposizione lo inebriavano e lo esaltavano. Gli tolsero l’assennatezza del pensiero della quale d’altra parte non era privo. Mediocre oratore, sapeva conquistare le folle alle quali parlava con la retorica semplice del socialismo jugoslavo. Demagogo sapeva comportarsi come un uomo del popolo. Il popolo serbo lo acclamava come nessun altro fino ad allora: "Slobo, Slobodo". Così lo chiamavano persino gli scrittori, e pure quelli più famosi. La prima poetessa nazionale, a me cara, a quel tempo già anziana, ed ora defunta, le fu consigliato di scrivere l’introduzione al suo libro.
Sapeva manipolare sia con le parole che con le sue apparizioni. Esclamerà "abbiamo battuto la NATO" per poi aggiungere che la Serbia deve lasciare che la NATO assuma il controllo del Kosovo e lo occupi.
Non è colpevole di tutto il male che è accaduto, ma poteva, molto più di chiunque altro, impedire che accadesse in quel modo e in quelle proporzioni. Ha lasciato spesso una buona impressione nei suoi interlocutori, sia stranieri che locali. Fino ai colloqui di Dayton 1995 molti lo consideravano il più capace e il più fidato con cui trattare. Una parte della sinistra europea, poco informata delle nostre circostanze, lo considerava un uomo di sinistra. Sapeva scherzare, a differenza dei classici tiranni che non tollerano lo scherzo, o a differenza del suo interlocutore Franjo Tudjman che rideva con mezza o un quarto di bocca. Di cosa loro due abbiamo parlato in oltre quaranta incontri durante la guerra e perché si siano incontrati così tante volte, rimarrà a lungo un segreto. La divisione criminale della Bosnia ed Erzegovina entrambi l’avevano presa in considerazione sin dall’inizio. Se non fossero stati tali forse avremmo potuto dividerci in modo diverso, senza tutti quei cadaveri e quelle sfortune.
Coloro i quali in queste circostanze esprimono tristezza, difficilmente riconosceranno la disfatta. Coloro i quali lo hanno appoggiato a parole e con la stima per poter essere con lui al potere, affermando che "la Serbia perde in pace ciò che guadagna in guerra", dovranno riconoscere pubblicamente di aver preso in giro la gente. In questa guerra la Serbia ha perso praticamente tutto ciò che aveva in pace: il Kosovo, l’unione con il Montenegro, la stima del mondo, la posizione di popolo costituente in Croazia, centinaia di migliaia di profughi che tirano a campare nelle città serbe, esiliati da quasi tutte le parti della ex Jugoslavia.
La morte di Milosevic avrà delle evidenti conseguenze almeno nel breve periodo che segue. Dopo il suicidio nel carcere Scheveningen dell’ex leader dei serbi di Krajina Milan Babic, il quale con le sue testimonianze ha più di tutti incolpato Milosevic, dopo la morte dello stesso "Slobo" il tribunale all’Aia forse non sarà più quello che poteva essere né i suoi giudizi varranno quanto avrebbero dovuto valere. Si può immaginare che l’Unione europea e gli USA, per un certo periodo, affronteranno in modo più trattenuto le questioni che riguardano la sola Serbia: l’indipendenza del Kosovo, la separazione del Montenegro, l’eliminazione della Republika Srpska che frena la creazione di un vero stato della Bosnia Erzegovina, ecc.
Il defunto di oggi farà più che il detenuto dell’Aia di ieri. Anche la Russia potrà essere orgogliosa di avergli offerto una qualche sorta di salvezza, mentre gli altri lo hanno esaurito e alla fine ucciso. Tutto ciò non sarà di grande vantaggio. Ciò che alcuni chiamano rispetto nazionale o, per meglio dire, orgoglio umano è finito da tempo.
Nel settembre 1990 scrissi, ingenuamente, una lettera aperta a Slobodan Milosevic e riuscii, non so come, a farla pubblicare sull’allora "Borba" che si stava aprendo di colpo nel momento in cui aveva perso il supporto ufficiale del potere di Milosevic. Era prima di Vukovar e Dubrovnik, Sarajevo e Srebrenica. "Ora solo le dimissioni le potranno salvare la faccia. Domani servirà molto di più: il suicidio".
La morte alla fine ha dato la sentenza. La tragedia che si è verificata nel frattempo ha avuto degli atti shakespeariani.