Porte chiuse sul Vardar
Viaggio in Macedonia, nell’attesa di un segnale positivo da parte di Bruxelles per l’entrata nell’Unione. Il ruolo di Atene e la disputa sul nome del Paese. La stanchezza dell’Europa, la stanchezza di Skopje. Reportage
Schengen è un villaggio lussemburghese di poco più di 400 abitanti. Non avrei mai pensato che un giorno in questo piccolo e sperduto posto si sarebbero incrociati i sogni di gioventù con le mie esigenze di lavoratore itinerante. Conservo ancora in qualche cassetto i libretti "interrail" che mi consentivano di viaggiare in treno, nei mesi estivi, in tutta l’Europa occidentale. E conservo indelebili nella memoria le immagini delle ore d’attesa passate alle frontiere per i lunghi e noiosi controlli dei vari corpi di polizia doganale. Adesso che per lavoro mi muovo in tutti gli angoli del continente, mi sembra di vivere in un altro mondo. Confesso di non essermi ancora completamente abituato all’idea di potermi spostare da uno stato all’altro senza l’obbligo di fermarmi ad un posto di controllo. Ivan e Milan, gli autisti dell’autobus che da Belgrado mi porta a Skopje, non si sarebbero, però, certo aspettati, qualche anno fa, di dover sostare un’ora sulla linea che divideva solo virtualmente, fino agli inizi degli anni novanta, la Macedonia dalla Serbia.
Alle guardie che presidiano l’odierno confine offrono tutte le sere tè e caffé caldo mentre compilano pazienti la lista dei passeggeri e assistono alla rituale e minuziosa ispezione del mezzo. Una volta la strada correva libera in aperta campagna; oggi si ferma davanti ad una barriera a cui lo sguardo non si è ancora abituato. Nell’Europa degli anni ottanta i cittadini jugoslavi erano dei privilegiati perché potevano circolare senza grossi intoppi da una parte all’altra della cortina di ferro; oggi si muovono con difficoltà persino nello spazio post-jugoslavo. Quello che per me è un sogno per loro è un incubo. Gli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone hanno ridotto l’Europa sud-orientale ad un ghetto. Basta prendere una cartina dell’Unione Europea per accorgersene, con i 27 paesi in chiaro che circondano una macchia grigia che va dalla Croazia all’Albania. Un visto "Schengen" equivale, ormai, ad un portentoso lasciapassare che schiude le porte del paradiso. L’Unione Europea mi ha semplificato la vita, ma l’ha dannatamente complicata a chi non ne fa parte.
Skopje
Il primo impatto con la città non è dei migliori con gruppi organizzati di piccoli rom che, nonostante l’ora tarda, circondano sul lungofiume i passanti in cerca di qualche spicciolo aggrappandosi ai vestiti e ficcando le mani in tutte le tasche. Skopje, ad ogni modo, è una città tranquilla che, senza grosse pretese, è in grado di offrire al visitatore scorci di un certo interesse nonostante sia rimasto poco del centro storico dopo il terremoto del 1963. E’ la notte di un freddo mercoledì, mentre mi incammino verso l’hotel con lo zainetto in spalla, ancora scosso dalle otto ore e mezza passate in autobus. Traspaiono qua e là, nell’illuminazione approssimativa, chiazze di neve a lato dei marciapiedi sconnessi. I pochi veicoli in circolazione non guastano certo il sonno a chi si è già messo a letto. L’oscurità avvolge tutta la Macedonia, mentre cerca faticosamente di ritrovare la strada che porta in Europa. E’ dal 2005 che il cammino si è interrotto, da quando, cioè, Bruxelles accordò al paese lo statuto di paese candidato senza, poi, più dar seguito a quella concessione. Skopje da allora insiste invano per aprire i negoziati di adesione, ma dall’Unione arrivano segnali contraddittori, come se qualcuno volesse nascondere la mano dopo avere lanciato il sasso.
"L’Europa è affetta dalla sindrome di stanchezza da allargamento, ma dopo quattro anni di estenuante attesa la Macedonia sembra a sua volta afflitta da una sindrome simmetrica, un vero e proprio sovra-affaticamento dovuto agli sforzi fatti per compiacere le diplomazie europee", dice il vice-primo ministro Ivica Boceski. La frustrazione del rappresentante del governo macedone è, per certi versi, comprensibile. La sala d’aspetto in cui è stato confinato il paese ha il sapore di un castigo immeritato. Da Bruxelles arrivano sempre nuove richieste che le autorità di Skopje provano a soddisfare con certosina pazienza. I negoziati di adesione sono lunghi e complicati: i nodi da sciogliere dovrebbero essere affrontati in quella cornice. La realtà, però, è un’altra perché il vero nodo da sciogliere si trova ad Atene.
Atene
Gli echi dell’ultimo vertice della NATO tenutosi a Bucarest nell’aprile scorso non si sono ancora spenti. In quella occasione il governo greco ha posto il veto all’ingresso della Macedonia nell’Alleanza. Senza un accordo preventivo sul nome della ex repubblica jugoslava Atene non ha alcuna intenzione di mollare: è dal giorno in cui Skopje ha dichiarato l’indipendenza che in tutte le sedi si oppone al riconoscimento internazionale. Questioni storiche, potenziali rivendicazioni territoriali, appropriazione indebita di simboli ed usurpazione di immagine sono le accuse rivolte dalla parte greca in una accesa controversia nazionalista che avvelena ed incendia con cicli irregolari le rispettive opinioni pubbliche. "I macedoni non possono e non devono chiamarsi macedoni" secondo Atene; "abbiamo il diritto di chiamarci come vogliamo" secondo Skopje. Muro contro muro in una regione segnata da barriere artificiose di carattere etnico, religioso e culturale costruite in fretta e furia.
Da anni, ormai, le Nazioni Unite cercano di sbrogliare la matassa e trovare una soluzione definitiva che consenta di superare l’attuale compromesso che condanna il piccolo stato balcanico nel limbo di un acronimo (FYROM, Former Yugoslav Republic of Macedonia).
L’ultima proposta di mediazione formulata dal rappresentante di Ban Ki-Moon, l’austriaco Mathew Nimetz, sembrava aver aperto una piccola breccia nella muraglia di incomunicabilità fra le parti ma la speranza si è presto dissolta. "Repubblica della Macedonia Settentrionale" andava incontro alle richieste greche di distinguere in modo netto la Macedonia storica, in parte in territorio ellenico, da quella moderna facente capo a Skopje. La stessa proposta, però, si arenava sulle questioni della lingua e della nazionalità avanzando una doppia soluzione che avrebbe umiliato ulteriormente un paese in perenne crisi di identità. Il trasferimento della querelle nelle aule giudiziarie, rappresenta, quindi, per certi versi il seguito logico di questa disputa infinita. La decisione presa a novembre dal governo macedone di portare le carte alla Corte di Giustizia Internazionale per ottenere ragione in merito al comportamento delle autorità di Atene, però, rischia di intorbidare ancora di più le relazioni fra i contendenti restringendo i margini di manovra per un eventuale nuovo compromesso.
Sono più di 100.000 i macedoni che ogni anno si recano in Grecia per turismo ed affari. Nonostante i rapporti politici non siano dei migliori, la cooperazione economica e gli scambi commerciali tra i due paesi sono in crescita costante. Non riconoscendone il nome Atene non accetta nemmeno i passaporti emessi da Skopje e si limita, pertanto, a concedere il visto su un foglio separato non valido per l’accesso agli altri paesi dell’Unione. Va considerato, inoltre, che nel nord della Grecia esiste tuttora una minoranza slava che il governo greco rifiuta di accettare come tale negando ad essa i diritti più elementari. Molti sono i macedoni di Grecia che per evitare grane hanno preferito l’assimilazione modificando, persino, il nome di famiglia. Sono storie e situazioni già viste e vissute in altri angoli del vecchio continente che non sembrano, purtroppo, aver insegnato nulla. Come spesso avviene, una volta entrati nel club se ne godono i privilegi dimenticandosi o trascurandone i doveri. E’ Atene che tiene il coltello per il manico e per ottenere quello che vuole ed indurre Skopje alla resa sembra disposta a sfruttare fino in fondo la propria posizione minacciando di porre il veto anche all’apertura dei negoziati di adesione all’Unione Europea.
Piazza Macedonia
Le riunioni nella capitale macedone hanno luogo con buona puntualità. Gli spostamenti sono brevi e non necessitano di mezzi di trasporto vista la vicinanza delle sedi in cui sono previsti gli incontri. Il parlamento macedone si trova a pochi passi dal centro. E’ il classico edificio governativo squadrato in pomposo stile socialista il cui interno, però, è stato rinnovato con discreta eleganza per adeguarlo al rango di assemblea di un paese sovrano. Fa un certo effetto ascoltare un eurodeputato italiano spiegare ai colleghi macedoni la gestione integrata dei rifiuti con i vantaggi della raccolta differenziata. Le immagini di Napoli sommersa dall’immondizia nella scorsa primavera hanno occupato per giorni gli schermi del continente provocando commenti non proprio entusiasti sulle capacità di governo del nostro paese. A volte sarebbe meglio tacere per evitare situazioni imbarazzanti. Sono i paradossi della politica. Non so come uscirebbe l’Italia se la Commissione Europea facesse ai paesi membri lo stesso screening che applica ai paesi candidati ma come spesso avviene quello che vale per gli altri non necessariamente vale per se stessi. La grande piazza a ridosso del fiume Vardar una volta dedicata al maresciallo Tito è stata ribattezzata "Piazza Macedonia" in linea con il repentino e vorticoso cambio di toponimi avvenuto nei paesi dell’Europa dell’est dopo la caduta dei regimi comunisti.
Dal ponte di pietra, simbolo della città, si accede al bazar turco, cuore commerciale della vecchia Skopje abitato in gran parte da famiglie albanesi. Il fattore religioso non aveva mai giocato un ruolo di rilievo nei rapporti fra la comunità slava e quella albanese. La polarizzazione etnica che ha spazzato il paese dalla guerra civile del 2001, però, ha avuto l’effetto di marcare le diversità esaltando pratiche ed abitudini differenti. L’Islam, quindi, è diventato un forte elemento di caratterizzazione per gli albanesi. Me ne accorgo passeggiando a mezzogiorno per le strade collaterali alla moschea interamente occupate da centinaia fedeli, in maggioranza giovani, inginocchiati all’aperto in direzione della Mecca per l’abituale momento di preghiera. Fino a pochi anni fa i luoghi di culto erano semivuoti e guardati con indifferenza; oggi non sono più in grado di contenere l’afflusso di una popolazione che ha riscoperto la fede e la ostenta con orgoglio.
I visti
Dal gennaio del 2008 è entrato in vigore fra l’Unione Europea e la Macedonia il nuovo regime che facilita l’ottenimento del visto per alcune categorie di cittadini. Studenti, accademici, uomini d’affari e giornalisti possono, adesso, usufruire di condizioni più vantaggiose per entrare in Europa, mentre per i cittadini europei che arrivano nella ex repubblica jugoslava basta la semplice carta di identità… Va sottolineato che la stragrande maggioranza dei giovani macedoni non hanno mai avuto la possibilità di uscire dai Balcani. Oltre al costo non indifferente (prima 60 euro, oggi 35 per un salario medio che non supera i 300 euro), i richiedenti sono costretti a produrre a pagamento un’interminabile e complessa sfilza di documenti di certificazione, compreso l’estratto del conto in banca, ricevendo, spesso, permessi di soggiorno la cui durata non corrisponde al periodo voluto.
"La questione dei visti" afferma la deputata Grkovska Loskova, "è l’ostacolo più arduo che impedisce ai macedoni di far parte della famiglia europea; siamo solo due milioni, le reti criminali ed i trafficanti non hanno bisogno di un visto per spostarsi". Più si chiudono le frontiere e si isola il paese e più forte è il richiamo per populismo e nazionalismo. Per venire incontro alle richieste di Bruxelles le autorità di Skopje hanno distribuito, in pochi mesi, quasi 400.000 nuovi passaporti provvisti di dati biometrici la cui contraffazione risulta estremamente difficile. L’obiettivo è quello di arrivare a breve alla completa abolizione del visto di ingresso ma mentre i ministri degli Esteri europei hanno dato luce verde quelli degli Interni, timorosi di accrescere la pressione migratoria, resistono ad oltranza. E’ uno stucchevole gioco delle parti che non giova all’immagine di una comunità sempre più arroccata nella sua fortezza dai ponti levatoio rialzati.
Zucca al forno e baklava per dessert. Non sapevo che l’ingrediente principe della cucina mantovana si sposasse così bene con il pezzo forte della pasticceria ottomana. L’ultima cena a Skopje si conclude nel migliore dei modi in un grande ristorante ricavato in un antico monastero ortodosso dedicato a San Panteleimon sulle pendici del monte Vodno che sovrasta la città. Animi rilassati ed atmosfera distesa nonostante le relazioni increspate che intercorrono tra l’Unione Europea e la Macedonia. Quello dei Balcani è un mosaico le cui tessere faticano ad incastrarsi di nuovo. Se la Grecia si oppone all’ingresso della Macedonia, la Slovenia, per questioni territoriali, fa altrettanto con la Croazia la cui adesione era prevista per la fine dell’anno. Facile prevedere che, una volta dentro, sarà Zagabria a resistere a sua volta all’arrivo della Serbia e così via in un inarrestabile vortice di rivendicazioni a freddo sul terreno sdrucciolevole ed insidioso della storia. Sepp Kusstatscher, l’eurodeputato sudtirolese che accompagno, incarna e testimonia un’Europa diversa che ha saputo voltare pagina facendo di necessità virtù. Le sue parole sono oro colato per i colleghi macedoni alla ricerca di conforto, ma contribuiscono appena ad alleviare il disappunto e l’insoddisfazione per una situazione che non sembra avere vie d’uscita. Prendere tempo sembra essere l’unica tattica a disposizione di Bruxelles incapace di una visione di lungo periodo della regione. Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori.
*Consigliere per gli Affari Esteri del Parlamento europeo