Popolari europei: la fatica a distanziarsi da Orbán

Le traversie tra Ungheria e istituzioni europee vanno avanti da una decina d’anni fra tante parole e mai nessuno strappo vero. La deriva autoritaria di Orbán sembra però essere arrivata al culmine con il COVID-19. Cambierà qualcosa?

27/05/2020, Ornaldo Gjergji -

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Viktor Orban ad un incontro europeo (© Alexandros Michailidis/Shutterstock)

È il capo di governo più chiacchierato del Consiglio europeo, fatto assurgere dai media internazionali come il prototipo di autarca occidentale contemporaneo. Posizione fatta propria in qualche circostanza anche dai rappresentanti delle istituzioni europee: è rimasto famoso lo schiaffetto che nel 2015 l’allora Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker diede al Primo ministro ungherese Viktor Orbán accogliendolo con un diplomatico ”Il dittatore sta arrivando… Dittatore!”.

Quel teatrino che fece il giro del web incarna perfettamente quanto accaduto negli ultimi anni: al lento ma inesorabile logoramento dello stato di diritto ungherese le istituzioni europee hanno reagito con dichiarazioni, a volte anche forti, ma sempre squisitamente simboliche. Alla preoccupazione generale infatti non è mai seguita un’azione coercitiva nei confronti del premier ungherese, che ha continuato a portare avanti la sua agenda di accentramento del potere e limitazione delle libertà fondamentali, indebolendo l’indipendenza del potere giudiziario.

La domanda allora sorge spontanea: perché Orbán continua impunemente a portare avanti un’agenda politica incompatibile con i principi fondativi dell’Unione europea e con quelli del Partito popolare europeo a cui pure appartiene, contraria ai cardini dello stato di diritto?

Partito popolare est-europeo

È una questione di realpolitik, di seggi, e di voti necessari a far procedere la legislazione europea. Gli europarlamentari di Fidesz, il partito di Orbán, sono infatti necessari per portare avanti l’agenda dei popolari europei. Hanno tranquillamente votato a favore della nomina di Ursula von der Leyen – che senza i loro voti non sarebbe diventata presidente della Commissione europea –, così in molte votazioni parlamentari votano sostanzialmente in linea con  il loro gruppo. Esercitando magistralmente quel concetto che il politologo italiano Giovanni Sartori aveva definito “potere di ricatto” o, in maniera meno cattedratica, “ricatto dei nanetti ”, ovvero le pressioni che anche piccole compagini possono esercitare sulle maggioranze di governo quando i loro pochi seggi possono fare la differenza. A oggi infatti l’unica misura che il Partito popolare europeo ha preso contro Orbán è stata sospendere Fidesz dalla sua famiglia politica, un’azione squisitamente simbolica che ha poca salienza nell’esercizio – sostanziale – del potere.

Il PPE, da decenni il partito più influente al Parlamento europeo, sta perdendo la sua storica egemonia, mentre il suo baricentro si sta spostando sempre più verso est. Dall’uscita dei Conservatori britannici nel 2009, fino alla sostanziale scomparsa dei Repubblicani francesi e dei moderati italiani di Forza Italia dalle rispettive scene politiche nazionali, non è difficile vedere come siano ormai i paesi dell’est Europa quelli a portare voti sicuri al centrodestra europeo. 

Se alle elezioni europee del 2009 i membri del PPE erano riusciti ad essere la prima forza politica in quasi tutti i paesi, dieci anni dopo, con le eccezioni di Irlanda, Germania, Finlandia e Svezia, solo i paesi dell’est premiano i popolari con almeno la maggioranza relativa dei seggi. Questo ha fatto sì che i rapporti di forza all’interno del partito si modificassero.

Dal 2009 al 2019 il peso specifico della delegazione ungherese all’interno del PPE è molto aumentato. Nel 2009 i popolari erano riusciti ad occupare 264 seggi al Parlamento europeo, di cui 14 ottenuti da Fidesz. Nel 2019 invece, a fronte di una forte riduzione del numero dei parlamentari del PPE, passati da 264 a 185, i seggi del partito di Orbán sono rimasti pressoché invariati (13 in tutto), rendendolo il terzo partito nazionale più numeroso all’interno del PPE, preceduta solo dai cristiano-democratici tedeschi e dalla Coalizione Europea dei moderati polacchi.

Gli ultimi sviluppi

Nel terremoto politico che il coronavirus sta portando in molti paesi europei, costretti a limitare alcune libertà fondamentali, Orbán ha visto l’occasione per fare un ultimo passo verso la democrazia illiberale. Lo scorso 30 marzo, con 137 voti a favore e 53 contrari, il parlamento ungherese ha dato i “pieni poteri” ad Orbán , che potrà governare per decreto e addirittura abrogare leggi approvate dal parlamento. Il governo ungherese avrà anche la possibilità di incarcerare chi dissemina fake news e, ovviamente, avrà massima discrezionalità nel decidere cos’è una fake news. La legge non prevede un termine per questo periodo di poteri eccezionali, e dunque si teme che le misure possano restare in piedi anche dopo la fine dell’emergenza sanitaria.

Che sia questa la goccia che fa finalmente traboccare il vaso? Ma la debolezza dei partner europei di Orbán potrebbe far sì che anche questo strappo con la democrazia liberale si risolva con una tirata di orecchie.

Sia la Commissione che alcuni stati membri hanno preso posizione contro le misure adottate dal governo ungherese; almeno inizialmente, però, in maniera molto vaga. Al punto che Orbán ha sottoscritto – provocatoriamente – le loro dichiarazioni sullo stato di diritto.

La situazione è più concitata all’interno del Partito popolare europeo. Il suo presidente, il polacco Donald Tusk, sta cercando di rilanciare quello che potrebbe essere un suo obiettivo politico personale: espellere tout-court Fidesz dal PPE . Tredici partiti nazionali hanno effettivamente chiesto a Tusk di votare l’espulsione degli ungheresi – ma con le ingombranti assenze dei membri del PPE di Germania, Italia, Spagna e Francia, il processo si preannuncia complesso, e di certo divisivo. La Romania ad esempio non ha voluto sottoscrivere l’appello, per scongiurare tensioni ai confini dei due paesi. La Slovenia non sembra interessata a calcare la mano , dove il Premier Janša pare non avere particolari problemi con i metodi Orbán. La Croazia invece, che è di turno alla presidenza del Consiglio dell’Unione europea fino alla fine di giugno, non ha unito la sua voce a quanti chiedono di prendere provvedimenti a causa del declino dello stato di diritto Ungherese, attirando a sé diverse critiche. Al contempo Orbán ha chiesto sostegno ai suoi alleati in Europa, dichiarando sprezzantemente che ”non ha tempo per queste fantasie ”.

Prossimamente il parlamento ungherese dovrebbe approvare una legge per cui Orbán rinuncerà ai poteri straordinari assunti durante questa crisi a partire dal 20 giugno prossimo. Una mossa inaspettata, che potrebbe essere un colpo da maestro. Si andrebbe a ridurre il rumore attorno alle condizioni dello stato di diritto in Ungheria dando forza alla posizione per cui le critiche erano assolutamente strumentali vista la transitorietà del “governo per decreto”, e indirettamente fomentare la narrazione propagandistica che dipinge Orbán come ultimo bastione a difesa dell’Ungheria dal nemico esterno. Il fatto che questo avvenga in un momento cruciale per la vita politica dell’UE, che a breve dovrà negoziare e votare le misure speciali per la ripresa economica a fronte della pandemia di COVID-19 e approvare il Multiannual Financial Framework dell’Unione per il periodo 2021-2027, probabilmente non è una coincidenza.

Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network  ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0

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