Perdonatemi la Jugosfera
Alcune parole hanno la capacità di risvegliare antichi fantasmi. Il concetto di "Jugosfera" ne è un chiaro esempio. Apparso più di un anno fa in un articolo di Tim Judah sull’Economist, il termine continua a restare al centro dell’attenzione. Il suo ideatore spiega più nel dettaglio l’origine di questo dibattuto concetto. Nostra traduzione
Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul settimanale croato Globus il 26 agosto 2010, col seguente titolo Oprostite za Jugosferu
Un anno fa ho scritto un articolo per l’Economist in cui ho utilizzato l’espressione “Jugosfera ”. All’epoca, ricercai il termine con Google e trovai nove risultati, nessuno dei quali corrispondeva a ciò che io intendevo esprimere con quel termine.
Se oggi cercate con Google la parola “Jugosfera” o “Yugosphere”, vi compaiono 32.500 risultati. Esistono pagine su Facebook e su Wikipedia: il termine è entrato in uso e la gente lo adopera come se fosse sempre esistito. Tutti capiscono istintivamente cosa significa. Tutto ciò è strano, oppure…?
Ecco quindi la storia della Jugosfera…
L’idea è semplice. Ma per prima cosa diamo un’occhiata a quel commento all’inizio del testo. Alle 5:36 di mattina del 26 luglio, qualcuno che si firma Met Dumnica si è preso la briga di scriverlo sotto la versione elettronica dell’articolo che quel giorno avevo pubblicato sull’Economist. C’era una volta un re inglese, un Vichingo di nome Canuto, che voleva dimostrare ai suoi cortigiani come il suo potere fosse limitato e come, checché lui potesse dire, ci sono cose che non si possono ottenere né cambiare. Il re andò quindi a sedersi sul trono sulla riva del mare e ordinò alla marea di non salire. Naturalmente, molto presto l’acqua iniziò a bagnargli i piedi. Suggerisco di sostituire l’acqua con i fatti oggettivi della Jugosfera, e capirete cosa intendo dire.
Dietro il termine Jugosfera non si nasconde nessuna idea complessa. Semplicemente, mi serviva una parola con cui poter descrivere le relazioni tra i popoli e tra i paesi dell’ex Jugoslavia. Il termine è stato creato per descrivere ciò che la gente ha in comune, quello che le persone, e i loro paesi, hanno in passato usato assieme e, assieme, hanno fatto. Parte di questo è una cultura condivisa, per lo più è una lingua comune (sì, sapete come la penso), in buona parte si tratta di affari e gran parte sono poi cose noiose.
Prendiamo solo gli ultimi due mesi. Ecco qualche esempio che io definirei “jugosferico”: l’annuncio che si sta costituendo una nuova compagnia ferroviaria comune tra serbi, croati e sloveni; il meeting a Sarajevo dei gestori delle lotterie nazionali di Montenegro, Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia, Kosovo e Macedonia per studiare il lancio di un’unica lotteria il cui montepremi ammonterebbe a 20 milioni di euro; l’accordo di cooperazione militare tra Serbia e Croazia; il dibattito sul ricostituire una squadra di calcio jugoslava, sotto un altro nome, naturalmente; l’idea di una candidatura collettiva di Serbia, Croazia e Bosnia per ospitare gli europei di calcio nel 2020; la firma dell’accordo di estradizione tra Serbia a Croazia, e a seguire gli accordi con la Bosnia e Montenegro; l’annuncio della creazione di un centro regionale per la lotta al crimine organizzato, sulla base dell’accordo di collaborazione di polizia siglato prima da serbi e croati, ma aperto a includere anche gli altri paesi della regione.
Continuo? Prendiamo i processi per l’omicidio del giornalista Ivo Pukanić, che si svolgono contemporaneamente a Belgrado e a Zagabria, mentre gli indizi portano, sembra, in Bosnia e in Montenegro. E dove vivevano Sretko Kalinić e Miloš Simović, indagati per l’omicidio di Zoran Đinđić? A Londra? A Budapest?A Vienna? Hem no, a Zagabria invece. E perché non in questi altri paesi? Perché probabilmente, come milioni di altre persone, sono contemporaneamente cittadini di più d’una delle ex repubbliche jugoslave.
Prendiamo l’accordo di cooperazione militare. Che cosa ha detto il ministro della Difesa croato Branko Vukelić? “L’accordo è importante per una possibile cooperazione delle nostre produzioni militari, che sono complementari e che potrebbero presentarsi assieme sul mercato mondiale degli armamenti”. Quindi, il collega serbo Dragan Šutanovac ha aggiunto che si augura che vengano siglati accordi che “richiedono una collaborazione a livello regionale per quanto riguarda determinati prodotti che si fabbricavano in ex Jugoslavia. A quel punto proporremo di cooperare non solo alla Croazia ma anche alla Bosnia Erzegovina e alla Slovenia”.
Siamo al punto di svolta. Per quel che mi riguarda, i fatti sono evidenti. Qualche settimana fa viaggiavo in autobus dalla Serbia verso il Kosovo. Quando sono arrivato al confine, ho ricevuto un sms sul numero inglese. C’era forse scritto “Benvenuti in Kosovo?” Ma no, no. C’era scritto “Benvenuti in Slovenia”. Perché? Perché il secondo maggiore operatore di telefonia mobile del Kosovo è di proprietà slovena e, visto che il Kosovo non ha un suo prefisso, la rete telefonica prende in prestito quello sloveno.
Per ovvie ragioni il Kosovo è solo per metà nella Jugosfera, ma vi basterà dare un’occhiata ai prodotti in vendita nei negozi e nei supermercati per convincervi che la Jugosfera è viva anche qui. I biscotti “Domaćica” che i kosovari mangiano sono forse albanesi? No, sono croati. Qual è il loro latte preferito? Quello della “Alpsko”. E magari non amano i serbi alla follia, ma è chiaro come il sole che i kosovari amano gli “Smoki” e le “Krem banane”, così come sono soliti usare materiali edili (tegole e mattoni) di provenienza serba.
Oltre all’articolo per l’Economist, ho scritto un testo più lungo sullo stesso tema per la London School of Economics (LSE). Quando l’ho presentato molti erano scettici. Alcuni mi hanno chiesto: “E dove sta la novità?”. “Probabilmente è normale e succede ormai da anni”, hanno commentato. Sì, ho risposto, ma credo che la novità stia nel fatto che siamo giunti a un punto di svolta che denota un fenomeno ben più importante del semplice dato di fatto che i supermercati “Konzum”, “Mercator” e “Delta” considerino l’intera ex Jugoslavia come terreno proprio e non solo come la loro vecchia base.
Quando è uscito il mio articolo, è stato commentato e citato dappertutto. Mi ero però preoccupato di come lo potessero prendere alla LSE, perché alcune delle reazioni erano molto negative. Ma non mi sono dovuto preoccupare a lungo.
Qualche settimana dopo ho parlato con i rappresentanti di vertice di vari settori economici di Serbia, Croazia, Montenegro e Bosnia riunitisi per un meeting a Belgrado. La Jugosfera, o comunque la vogliate chiamare, è qualcosa di assolutamente naturale, hanno dichiarato. In fin dei conti, la situazione economica è problematica e i mercati dei vari paesi della ex Jugoslavia sono, come han detto loro, “microscopici”. Se si contano tutti i cittadini assieme, si arriva appena a ventidue milioni, cifra che, onestamente, è sì un numero un po’ più rilevante ma comunque sempre appena paragonabile alla popolazione di Pechino o a quella Shanghai e dintorni. Secondo questi calcoli, la Croazia ha la stessa popolazione di alcuni comuni della Cina. Quindi, se avete un vantaggio comparativo in affari grazie alla lingua o grazie al fatto che i consumatori sono cresciuti con il vostro prodotto, non vi resta molto altro da fare che sfruttare quest’opportunità.
Al convegno era presente anche Emil Tedeschi, proprietario di “Atlantic Group”. Come la maggior parte dei croati, anche lui odia il termine Jugosfera (a proposito di questo dirò qualcosa in seguito). Ma vediamo un po’ di che cosa si occupa lui, o più precisamente la sua compagnia. Ha, infatti, comprato la fabbrica slovena “Droga Kolinska” che detiene alcuni grossi marchi serbi, ed ha distribuzione e movimenti di prodotti per tutta la ex Jugoslavia. Scorrete la relazione di “Atlantic Group”. Come al solito, si utilizza il termine “Europa sud-orientale” per indicare la ex Jugoslavia. Vi si legge, ad esempio, che ci sono sedici centri di distribuzione, che sono elencati. A parte quelli che si trovano in Croazia, gli altri sono: Široki Brijeg, Sarajevo, Tuzla, Laktaši, Bihać, Lubiana, Belgrado, Novi Sad, Niš, Čačak, Podgorica e Skopje. Tutti queste città sono senza dubbio in Europa sud-orientale, ma guarda caso ricalcano precisamente lo spazio della ex Jugoslavia, non è cosi?
E ora veniamo a quello che dà fastidio della Jugosfera, specialmente in Croazia. Alcuni sono semplicemente infastiditi dall’idea. Non possono mettersi il cuore in pace rispetto al fatto che le cose, in generale, tornano alla normalità e che tutto più o meno procede come prima, con la solita compagnia. Ma in realtà, ciò che disturba è in genere il nome. Capiamoci: io non mi sento in nessun modo coinvolto emotivamente. Non si parla qui di alcun progetto strano, né di una bizzarra idea di creare una nuova Jugoslavia, né di una cospirazione britannica. Chiamatela come volete, o fate finta che questo fenomeno non stia accadendo, se preferite. Per me è lo stesso. Non è che io non dormo la notte perché la squadra di basket della Jugosfera si chiama “Lega Adriatica”, anche se né la Macedonia né la Serbia sono vicine al mare Adriatico. E’ così importante che le compagnie locali e internazionali parlino di regione adriatica? Neanche per sogno.
E cosa dire a proposito dell’abominevole crimine di jugonostalgia di cui mi accusano? Allora: io non sono mai stato in Jugoslavia prima della guerra, e quindi non posso struggermi di nostalgia per essa. Ma penso che le accuse di jugonostalgia spesso arrivino da coloro che per motivi ideologici si oppongono anche solo all’idea che la gente in quest’area condivida un passato comune, dei problemi comuni e, per molti aspetti, un futuro comune. La compagnia croata che compra una compagnia slovena che a sua volta aveva acquisito una compagnia serba che vende i suoi prodotti in Macedonia e in Bosnia non è jugonostalgia: è business. E’ forse la jugonostalgia il motivo per cui una catena croata che vende accessori assume elettricisti serbi per installare i quadri elettrici nei suoi negozi? No, i motivi sono la lingua, la facilità di comunicazione e i prezzi. Perché la “Gorenje” vende le schede elettroniche di alcuni apparecchi domestici a Stara Pazova? Per via della jugonostalgia? Se la pensate così, allora non fate neanche lo sforzo di continuare a leggere, perché siete un caso disperato!
Severina è famosa in Serbia, e Toše Projetski è una star in Croazia grazie alla jugonostalgia? La jugonostalgia preme sulle grosse case editrici perché vendano libri da un angolo all’altro dell’ex federazione, o le ragioni stanno invece nell’economia e nel buon senso? E’ la jugostalgia il motivo per cui i giornali vengono distribuiti in un numero indefinito di diverse edizioni in Serbia e Bosnia, o in Croazia e Bosnia? Ma per favore! La Jugoslavia è morta vent’anni fa!
Ora che abbiamo chiarito questo punto, c’è da dire che tutte le ex repubbliche jugoslave devono spesso fare i conti con problemi identici che spesso richiedono anche soluzioni identiche. Per esempio, tutte (eccetto il Kosovo) hanno una popolazione modesta che tende a invecchiare, un basso tasso di natalità, la mancanza di immigrazione che lo controbilancerebbe e problemi sempre più seri con le pensioni. Lo stato dell’economia è diverso da un paese all’altro, ma tutti si danno da fare per uscire dalla recessione. Corruzione, nepotismo e intrallazzi politici sono, seppure in maniera diversa, diffusi e onnipresenti. Il crimine organizzato considera da sempre l’ex federazione come un unico territorio. Questo, quindi, fa sì che le persone siano in contatto e si occupino dei soliti problemi? In effetti, decisamente sì.
Ciò che viene mostrato al pubblico è la solita manfrina politica. Controversie sul summit in Slovenia un giorno, clamore sull’importanza dell’operazione Oluja dall’altro. E un minuto dopo, Ivo Josipović e Boris Tadić si tengono per mano a Bruxelles o si ricoprono reciprocamente di parole cortesi a Belgrado. E poi ecco Ivo da Milo Đukanović, quindi arriva anche Boris, e poi Haris Silajdžić, Filip Vujanović, Ivo e Boris s’incontrano a Sarajevo. E intanto la moglie e i figli di Boris passano l’estate a Brioni, naturalmente, dove c’è già un posto prenotato anche per Borut Pahor. Perché, dove altro dovrebbero andare? La Turchia non è più di moda da un pezzo.
Ciò che non si vede in pubblico è però la parte più interessante, ma anche, paradossalmente, la più noiosa. Quando i premier si incontrano, chi si incontra poi? Veterani, soldati, banchieri, ingegneri? Nessuno. Immaginate di aver bisogno di un forum che vi aiuti e coordinare queste questioni tecniche e noiose. Che nome gli dareste? Non potete seguire il modello scandinavo e dargli un nome regionale, come il “Consiglio nordico” che hanno inventato loro, né potete creare da zero un nome tipo Benelux, come han fatto belgi, olandesi e lussemburghesi. Potete chiamarlo solo, diciamo, consiglio per la cooperazione regionale, solo che tutti sappiamo a quale regione si fa riferimento, ma non abbiamo il coraggio di pronunciarne il nome. Ah sì, e poi, stabiliamo la sede del consiglio a Sarajevo e ci mettiamo un Croato alla dirigenza.
Una copertura insomma. D’accordo, voi potreste dire che nell’RCC (Consiglio di Cooperazione Regionale) ci sono anche paesi che non fanno parte della Jugosfera. Certo, ce ne sono. Ma è importante per Grecia e Turchia farne parte? Penso di no. E la Moldavia? Giusto, anche lei è un membro del Consiglio, così come è anche firmataria dell’Accordo centroeuropeo di libero scambio (CEFTA), ma solo come orfana o come figlia non riconosciuta a cui nessuno sa che cosa far fare. Come dire “Sei da sola? Ma allora perché non vai a giocare con le bambine e i bambini dei Balcani, eh?”. E ancora una cosa: è strano che neanche uno degli stati firmatari della CEFTA si trovi in Europa centrale.
Ma torniamo all’RCC. Di cosa si occupa questo consiglio negli ultimi tempi? Incontri sul tema dell’ambiente, riforma dell’istruzione, prevenzione delle catastrofi naturali, patrimonio culturale prevenzione degli incendi e aviazione nella regione. Interessante? No. Importante? Sì. In questo contesto è importante capire che lo scheletro di RCC e CEFTA sono le ex repubbliche jugoslave, con qualcuno di nuovo che si aggiunge, come l’Albania, e qualcuno che se ne va, tipo la Slovenia. Similmente, tutto ciò che è chiamato Balcani occidentali o Europa sud-orientale è in realtà la Jugosfera camuffata.
Quali sono le implicazioni politiche di tutto ciò? Potenzialmente significa che le ex repubbliche jugoslave si armonizzano tra loro il più possibile in modo da poterne trarre il massimo beneficio, e ciò in realtà comincia a succedere. Una sorta di “Eurosong” politico a cui partecipano tutti gli ex jugoslavi, anche se in questo caso tutti fanno finta di non parteciparvi, o lo nascondono, per non ferire i sentimenti di nessuno. Ho menzionato il Consiglio nordico e il Benelux, che in passato hanno avuto un’importanza maggiore mentre ora sono stati in generale superati dall’Unione Europea. Si tratta di esempi interessanti per il RCC. Nel caso del consiglio del Nord, infatti, su cinque paesi membri, l’Islanda e la Norvegia non sono membri dell’UE. Fanno, però tutti parte di Schengen.
Anche tre regioni autonome sono membri del Consiglio nordico: la Groenlandia, le isole Åland e le Faroe. Quando c’è di mezzo il Kosovo, si ripete continuamente che in Europa ci sono molti casi anomali e molte soluzioni fantasiose e che tutto si può risolvere se si vuole e se c’è la buona volontà. Ma lo ripeto ancora una volta, in modo che poi non si distorca il significato delle mie parole: cooperazione non è la cifra per la nuova Jugoslavia.
Va bene, direte voi, tutto ciò è molto bello ma è evidente che lei chiude gli occhi di fronte a problemi reali, per esempio quelli tra il Kosovo e la Serbia, quelli in Macedonia e soprattutto in Bosnia. Non chiudo gli occhi, dico semplicemente che qui succedono molte cose buone di cui non si scrive o che non vengono comprese correttamente. Ma credo anche che la Jugosfera sia una sorta di cupola sotto cui si collocano le sfere nazionali: la serbosfera, che si estende da Drvar nella Federazione croato-musulmana fino all’enclave di Štrpce nel sud del Kosovo, la sfera croata che comprende anche una buona parte della Bosnia Erzegovina, e la sfera albanese che è solo parzialmente all’interno della Jugosfera.
Credo che la Jugosfera sia una creazione benigna, ed è un peccato, anche se è comprensibile, che molti, specialmente in Croazia, sollevino obiezioni sul nome. Ma non c’è niente di inevitabile in tutto ciò. Abbiamo visto come i singoli abbiano il potere di distruggere le vite di milioni e di segnare lo spirito dei tempi nel modo più distruttivo possibile. Non credo che la Bosnia si dividerà e che ridefinirà le sue frontiere, ma non ho la sfera di cristallo. Alla fin fine, io sono uno di quegli stupidi che avevano detto che in Bosnia non ci sarebbe stata la guerra perché tutti sapevano che altrimenti il sangue sarebbe arrivato fino alle ginocchia e che quindi non si sarebbe permesso che ciò accadesse. La lezione, almeno per me, è che le cose positive che stanno accadendo ora, non continueranno ad esistere e a svilupparsi se non vi prestiamo attenzione, se non le incoraggiamo e non le curiamo.
Ho capito che molti croati non riescono a digerire la parola Jugosfera. Però chiediamoci perché. Non è solo per via del prefisso “jugo”, ma anche per i profondi problemi emotivi che crea. Dovete riconoscere che la gente di qui non percepisce i macedoni o gli sloveni o i bosniaci come veri e propri stranieri, come sono invece gli australiani o i greci, ma se andate appena un poco oltre, è come toccare un nervo scoperto. Si tratta di ciò che l’analista politico francese Dominique Moisi chiama “geopolitica delle emozioni”. In questo caso “jugo” può stare a significare allo stesso tempo paura e amore, rabbia e necessità, passato e futuro. Sì, senza dubbio è cosi. Se un anno fa avessi scritto un articolo descrivendo quello che stava accadendo ma non gli avessi dato un nome controverso, indovinate un po’ cosa sarebbe successo: niente. Tutto sarebbe passato inosservato. Poiché ho scelto quel nome, invece, ho toccato senza volerlo un nervo scoperto o ho descritto qualcosa che milioni di persone già sanno e stanno attraversando. Improvvisamente è comparsa una parola che lo descrive e lo riassume, tutto qua. Ma se il termine non vi piace, non preoccupatevi: non morde!