Pallavolo da seduti: la rabbia di vivere e di vincere
Ha dimostrato dopo Atene 2004 la propria supremazia anche a Londra. La squadra di pallavolo maschile bosniaca ha vinto l’edizione da poco conclusasi delle paraolimpiadi. Un’intervista a Dževad Hamzić, uno dei suoi giocatori più rappresentativi
(Pubblicato originariamente il 12 settembre 2012 da Le Courrier des Balkans )
I giocatori di pallavolo bosniaci si sono aggiudicati un nuovo oro olimpico, dimostrando fin dall’inizio del torneo un gioco magnifico che lasciava sperare al meglio. Il loro livello è migliorato di partita in partita, facendo crescere nei giocatori la fiducia nelle loro possibilità.
Ottenendo l’oro, la selezione bosniaca ha rinnovato il successo ottenuto ad Atene 2004, dimostrando la sua capacità di battere anche squadre sulla carta più forti, come è avvenuto per l’Iran, che aveva dominato nella fase iniziale a gironi.
La squadra bosniaca, pur avendo perso il primo set della finale, è riuscita a rimontare e a dimostrare una forza mentale, una combattività ed una perseveranza che l’ha portata alla vittoria.
Una vittoria fortemente simbolica per un’intera generazione di sportivi eccezionali, alcuni ormai a fine carriera, come spiegava due anni fa a Le Courrier des Balkans Dževad Hamzić, ormai doppio campione olimpico a 44 anni.
Come spiegate il vostro successo?
In molti cercano di capire il segreto delle nostre vittorie. Personalmente, credo che disponiamo di un vantaggio evidente a livello psicologico rispetto alle altre squadre nazionali, che sono composte da persone invalide dalla nascita o per incidenti stradali. Per quanto ci riguarda non è così. La maggior parte di noi erano sportivi di successo prima di venir feriti durante la guerra in Bosnia Erzegovina.
Quando questa triste guerra è scoppiata abbiamo combattuto e siamo rimasti feriti. Eravamo consapevoli del fatto che quando combatti la tua vita può cambiare radicalmente nel giro di un minuto. Dentro di noi c’è ancora quella rabbia, che noi chiamiamo "inat”, che ci dà grande forza morale e voglia di riuscire. Questa rabbia, noi l’abbiamo trasposta nella pallavolo. Tutti i membri della nostra squadra hanno questa immensa forza di volontà. Non c’è niente che possa rimpiazzarla, nessuna tecnica, nessuna strategia.
Le altre squadre nazionali
sono composte da persone
invalide dalla nascita
o per incidenti stradali.
Per quanto ci riguarda non è così.
La maggior parte di noi
erano sportivi di successo
prima di venir feriti durante
la guerra in Bosnia Erzegovina.
La maggior parte dei giocatori della rappresentativa bosniaca sono quindi veterani di guerra, feriti nella guerra 1992-95?
Sì, anche se in questi ultimi anni abbiamo provato a diversificare. Vi sono comunque anche giocatori che non sono stati soldati, civili feriti durante la guerra o persone che da bambini sono saltati su una mina. Vi è comunque un rapporto diretto con il conflitto.
I successi sportivi vi permettono di vivere dell’attività agonistica?
Non ci sono molti sponsor interessati a questo sport. Nessuno investe realmente nel volley. Il Cantone di Sarajevo paga una parte delle nostre spese. A parte questo ci arrangiamo da soli, gestiamo direttamente tutte le questioni legate alla squadra, dal lavare le magliette ai contratti con gli sponsor. Ce ne occupiamo in maniera del tutto autonoma.
Siamo molto uniti, ci vediamo tutti i giorni, prendiamo un caffé insieme e discutiamo delle decisioni da prendere. Ciascuna squadra è una sorta di famiglia. Ci sosteniamo nella vita di tutti i giorni e quest’affinità influenza anche i nostri risultati. Risolviamo assieme tutti i nostri problemi. Anche dopo aver vinto molti trofei, siamo gelosi di questa autogestione. Siamo partiti dal nulla e ora siamo una delle squadre più competitive della regione.
Praticare il volley per voi può essere considerato terapeutico?
Ma certo! Io sono stato ferito a tre mesi dalla fine della guerra ed ho iniziato immediatamente a giocare a pallavolo. Sono più di quindici anni che gioco quindi e posso dire di non essere mai dovuto andare dal medico per curare problemi specifici legati alla mia disabilità. Questo dimostra che lo sport per disabili, qualsiasi sia la disciplina, è la miglior riabilitazione possibile e strumento di risocializzazione.
Molti feriti durante questa guerra si sono rinchiusi in se stessi, si sono ritirati e questo è molto nocivo per la loro sanità psichica. La vita cambia tutto d’un colpo, attività quotidiane in passato banali divengono molto complicate e il senso di isolamento e la depressione sono un rischio.
Questo isolamento porta ad un’inattività totale, si ingrassa, si resta a casa, si mangia, si dorme, si guarda la tv, si inizia a bere per dimenticare e non si sopporta più niente o nessuno. Tutto il mondo diviene responsabile per la tua disabilità, la vita diventa un inferno.
Ma se ti dedichi ad uno sport, se ti apri ad altre persone che vivono una situazione simile alla tua ma che ne vogliono uscire, segui la miglior terapia possibile. Pensando a me, al mio percorso, ho aprtecipato a 4 edizioni di Paraolimpiadi, mi sono ritrovato davanti ad un pubblico di 100.000 persone… mi sembra ancor oggi incredibile.
Ritenete che i vostri successi contribuiscano ad una miglior consapevolezza da parte della società bosniaca nei confronti delle persone disabili?
Per quanto riguarda il contesto sportivo siamo riusciti a portare questo sport allo stesso livello di sport normodotati. La gente conosce la pallavolo da seduti, che in passato non conosceva. Inoltre vi è ormai anche un corso dedicato agli sport per invalidi presso la Facoltà dello Sport di Sarajevo e questo implica vi sia una reale conoscenza delle nostre attività. Ai ragazzi dei licei vengono fatte lezioni in cui si spiega cos’è lo sport per disabili. E tutto questo avviene in gran parte grazie ai nostri successi.
Che relazioni vi sono con i giocatori della Republika Srpska?
Inizialmente avevamo costituito una squadra di pallavolo da seduti della Federazione. Quando hanno iniziato anche loro a praticare questo sport abbiamo proposto di riunire le forze. Ma non era nelle loro intenzioni. Volevano provare a fare un proprio campionato e partecipare con una propria selezione nazionale, cosa naturalmente impossibile a livello internazionale. Esiste ora un campionato della Republika Srpska ma, a livello internazionale, i giocatori migliori giocano sotto la bandiera della Serbia.
Per quanto ci riguarda, non guardiamo se un giocatore è bosgnacco, croato o serbo. Conta innanzitutto l’amore per lo sport e la volontà di andare sempre più lontani. Se non hanno voglia di riunire le forze noi non li preghiamo di certo. Ciononostante non c’è animosità tra noi. Pratichiamo uno sport e cerchiamo di condurre una vita normale. Naturalmente non dimenticheremo mai cos’è accaduto durante la guerra, ma cerchiamo di non mescolare tutto assieme e di andare avanti.