Osman Taka, il guerriero che incantò i nemici
Una storia dall’Epiro, al confine tra Albania e Grecia, capace di divenire leggenda: quella di Osman Taka, giovane guerriero che si salva da una condanna a morte conquistando l’animo dei suoi nemici con la bellezza della sua danza
Sembra proprio una leggenda. Come quella di Sheherazade, la fanciulla orientale che si salva dalla morte raccontando per mille e una notte, ogni sera, una storia più appassionante. O quella di Arione, il citaredo greco che con le sue melodie richiama dal mare il delfino che lo sottrarrà all’annegamento, trasportandolo fino a terra sul suo dorso. Questa volta però la storia è vera, e come tale viene riportata non solo nelle fonti consultabili, ma anche dai racconti dei figli dei figli di chi la visse. È tramandata bene per via orale, visto che non risale a tempi tanto remoti da farla trascolorare nel mito, o da distorcerla coi troppi passaggi generazionali, poiché si svolge nella seconda metà dell’Ottocento. E il protagonista non è un artista di professione, né una fanciulla dalla fertile fantasia, ma un giovane guerriero cresciuto in un piccolo centro dell’Epiro.
Il luogo, benché poco conosciuto, non potrebbe essere più incantevole: come un interminabile dragone si allunga oltremare il profilo azzurrino di Corfù, l’isola dei Feaci dove un altro naufrago, Ulisse, tenne svegli per tutta la notte i suoi salvatori con il racconto dell’Odissea. Prima del mare si apre una piana fertile, che a tratti accoglie laghetti tranquilli, e altrove s’alza in collinette occupate da villaggi, da fitti boschi, da semplici gruppi di case. Ma subito al di là di un canale che collega il maggiore di questi laghi al mare, sorge la perla archeologica di Butrinto, dal 1992 patrimonio dell’Umanità riconosciuto dall’UNESCO.
Konispol il villaggio di Osman Taka
Alle spalle di tutto ciò, svettano scabri e solenni i monti dell’Epiro. Ed è in un paese adagiato su una spianata sotto le loro cime che sono salito alcuni giorni fa speranzoso di raccattare i resti di questa storia che pare una leggenda, la più recente di quelle che hanno salvato una vita: ammesso che ve ne fossero rimasti, di resti. Konispol – così si chiama il luogo d’origine del suo protagonista – è oggi un centro di poche migliaia di abitanti, appena dentro i confini dell’Albania per chi proviene dalla Grecia.
Il posto di frontiera locale vede scarso movimento, perché quasi tutti i turisti che sbarcano più a sud, nel porto di Igoumenitsa, sono diretti a Corfù o alle spiagge della Grecia continentale, mentre gli albanesi diretti nella nazione vicina scelgono il passo meglio collegato di Kakavià, alcune decine di chilometri più all’interno. E comunque nessuno che non conosca questa storia avrebbe motivo di deviare, superata la dogana, per una stradina asfaltata che sale verso sinistra, e che porta l’indicazione di Konispol, il cui abitato è quasi invisibile dal basso.
Anche per me è stato altre volte così. Ma vagando sul web alla ricerca di alcune danze caucasiche, mi sono poi imbattuto in un filmato di una danza albanese, che mi ha attratto perché porta il nome di un individuo, che è poi quello del guerriero in questione: Osman Taka. Ora, chi ha viaggiato nei Balcani sa quanto le danze tradizionali siano radicate nella popolazione. Sa anche quanto, a cominciare dalla Grecia in su, siano belle e varie. Però, quando si capita su uno dei pochissimi filmati reperibili di quella di Osman Taka, si percepisce subito qualcosa di diverso: la melodia, il ritmo, i passi, i gesti dei danzatori (tutti uomini), la loro eleganza emozionata e contenuta, fanno capire anche a chi non si intenda di danze che qui si attinge ad una sfera che va ben oltre le tradizioni locali, i patrimoni nazionali o gli orgogli etnici.
Eppure, questi ultimi ingredienti sarebbero tutti presenti: infatti il protagonista appartiene all’etnia dei Çami, una popolazione presente nell’Epiro settentrionale, come lo chiamano i Greci e praticamente tutti gli altri, o nella Çamuria, come la chiamano i nostalgici della Grande Albania. Un’etnia fiera ma oggi dispersa, specie dopo i sanguinosi, tragici eventi che la videro coinvolta e protagonista durante la Seconda Guerra Mondiale e poi nella successiva, sanguinosa Guerra Civile Ellenica. Osman Taka inoltre era non solo un guerriero ma un ribelle, un attore non secondario delle lotta degli Epiroti albanesi – o, meglio, in questo caso, dei Çami – contro l’Impero Ottomano, che dominò su queste terre per quattro secoli. Fu dunque a tutti gli effetti personaggio storico (1848-1887), appartenente ad una delle famiglie locali più facoltose ad illustri.
Ma ciò che rende speciale la vicenda, e quindi la danza, è ben altro. Era infatti frequente, è vero, che i giovani guerrieri fossero anche valenti danzatori, non solo perché alcune danze antiche nascono come danze guerriere, ma perché la danza e il combattimento, specie quello corpo a corpo tipico dei secoli andati, richiedono doti e qualità simili: la potenza fisica e la destrezza, la prontezza di riflessi e la precisione dei movimenti, senso di misura e di equilibrio, e ritmo nell’azione. Tutte doti che coesistono in un corpo forte e snello, solido ma ben proporzionato, agile e ben fatto. Però tutte le fonti, scritte ed orali, quelle che ho letto e le persone con cui ho parlato, concordano nel dire che Osman Taka non era un danzatore-guerriero come gli altri. Bello oltre che forte, virile e insieme elegante, primeggiava tra tutti proprio per la sue capacità coreutiche oltre che per la prodezza guerriera.
Storia e leggenda
Ora, qui le fonti storiche e i racconti dei locali in parte divergono: la storia mette maggiormente in rilievo il ruolo politico, di giovane capo dei ribelli anti-ottomani, del giovane Taka, che l’avrebbe fatto cadere in mano ai dominatori e quindi condannare a morte. I locali, i discendenti dei suoi compaesani, raccontano invece che all’origine della vicenda ci fu un affronto alla pudicizia, quella che oggi definiremmo una molestia, nei confronti di una giovane e nubile sorella del giovane da parte di un gruppo di soldati ottomani. All’affronto, secondo le regole arcaiche albanesi, Osman reagì come a quel tempo e in quell’ambiente si doveva e poteva, cioè con la vendetta, che lo portò ad uccidere gli autori del misfatto.
Nella veranda fresca e ventilata anche in un mezzodì d’estate di una casa bianca e nuova di Konispol, quello che è forse l’ultimo maestro di danza del paese, Vullnet, mi racconta che dopo l’eccidio il giovane visse nascosto per sfuggire ai gendarmi ottomani, che ovviamente facevano il diavolo a quattro per acciuffarlo. Rinchiuso in un ovile tra gli animali, Taka sarebbe stato però tradito da un compaesano, e, una volta preso, condotto in carcere e quindi al cospetto del più alto rappresentante del potere ottomano nella regione, il Vali di Ioannina.
In casi come il suo, la condanna a morte per impiccagione era inevitabile, e così infatti fu decretato. E qui Vullnet, cui ho chiesto tra l’altro di spiegarmi quando possibile il senso di alcuni movimenti tipici della danza, sottolinea senza tanti fronzoli che le giravolte su un piede solo che il protagonista del ballo, inginocchiato, compie su stesso, richiamano le rotazioni dell’impiccato appeso alla fune… Che però nella realtà non si verificarono, poiché questa storia ha un’imprevedibile conclusione, e il bravo e e bell’Osman non finì appeso.
Un’usanza inderogabile anche presso la dura giustizia dell’agonizzante impero ottomano, se non una precisa disposizione del regolamento, prevedeva infatti che in caso di pena capitale al condannato venisse concessa la realizzazione di un ultimo desiderio. E indovinate un po’ che cosa chiese Osman Taka? Di danzare: per l’ultima volta in vita sua, di danzare. Con tutti i crismi, però: vennero fatti venire da Konispol i suonatori che l’accompagnavano nei balli, con i loro begli strumenti, e anche i suoi compagni abituali di danza, mentre nel cortile del palazzo di Ioannina venne allestita un’apposita pedana di legno, un sofra. Così, sotto gli occhi del Vali e della sua famiglia, di tutti i funzionari locali e degli ufficiali della guarnigione, Osman Taka prese a danzare.
Si narra che fu una danza breve (ancor oggi dura poco più di tre minuti): ma così intensa e toccante, colma com’era di fierezza e di melanconia, di potenza e di grazia, che lasciò tutti senza parole. Fu la moglie del Vali a rompere per prima il silenzio, e a protestare che no, che un danzatore così bello e bravo non si doveva impiccare. E tutti i presenti allora si accodarono alla richiesta, persino i compagni dei gendarmi uccisi; sicché infine anche il governatore, che come gli altri aveva ammirato in cuor suo quella danza mai vista prima, dichiarò pubblicamente che il giovane meritava di vivere proprio perché potesse continuare a danzare, in quel modo, con quei passi, in quella maniera inimitabile. Quindi, avvalendosi dei suoi poteri annullò la condanna, e rimandò Osman Taka vivo, coi suoi compagni, a Konispol.
Vullnet mi spiega a questo punto, come può col suo greco un po’ impreciso che è nostra lingua di comunicazione, l’episodio forse centrale della danza: quello in cui il protagonista, sorretto per una mano da uno dei compagni, si inginocchia e si ripiega lentamente all’indietro, fino a toccare con la nuca il suolo, inarcando così il torace verso l’alto. Su quel torace, allora, un altro ballerino poggia il piede, e si erge sopra di esso con tutto il suo peso. Ma ecco, proprio quando la danza sembra finita, un altro compagno o, quello medesimo, lo tocca, appena tocca gentilmente la mano di Osman, e questi, lentamente come era caduto, su quell’esile appiglio si rialza. ‘Anche se calpestato, l’uomo oppresso e abbattuto si risolleva’, mi spiega il premuroso maestro di Konispol. Ma ciascuno vede come il senso più profondo di questa leggenda vera, e di questa danza che la ricorda, non sia esattamente questo. Poiché Osman non si riscatta con la forza della ribellione, o della resistenza all’oppressore. Il giovane guerriero si salva, e ritorna alla vita che dava ormai per persa, conquistando gli animi dei suoi nemici – storici, etnici, personali – con la bellezza, la bellezza della sua danza. Con un ‘soft power’, diremmo oggi, prendendo in prestito il lessico geopolitico.
Con mia sorpresa non ho trovato a Konispol alcun monumento, neppure una targa dedicata all’illustre personaggio dai suoi concittadini, che pure ne conoscono tutti la storia. Solo in un locale dove mi sono fermato a pranzare il proprietario ha voluto recentemente raffigurare con delle vivide pitture alcuni episodi di questa storia di centocinquanta anni fa.
Invece, sono riuscito a vedere, accompagnato da un giovane danzatore del paese, quella che fu la casa dei Taka: esiste ancora, signorile, ampia, tutta in pietra; ma è in quasi completa rovina. Solo la parte centrale è riutilizzata come una assai più umile abitazione, e non ho potuto chiedere di entrarvi poiché quel giorno chi la abitava, non un discendente degli antichi proprietari, non c’era. Chi tenderà la mano, oggi, al ricordo di Osman Taka, il guerriero capace di incantare i suoi nemici?