Ong nei Balcani: dalle sfide di carta a quelle reali

I finanziamenti dell’UE alla società civile balcanica sembrano essere sempre più rivolti alle grosse ONG. Vengono invece marginalizzate le piccole organizzazioni locali.  L’opinione di Risto Karajkov, corrispondente di OBC e consulente indipendente per la società civile

30/05/2012, Risto Karajkov - Skopje

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Burocrazia europea

Vi sono tante piccole associazioni nei Balcani – solitamente chiamate Ong – che fanno cose meravigliose, ogni giorno, nelle piccole comunità dove operano. Alcune forniscono servizi vitali a persone non autosufficienti, altre lavorano con i poveri tra i poveri, come ad esempio i bambini dei ghetti rom oppure i bambini di strada. Altre si battono invece per l’equità sociale, l’inclusione e contro le discriminazioni. Hanno tutte in comune una cosa: non possono ottenere finanziamenti dell’Unione europea. Il motivo? Sono troppo piccole.

In un passato recente le si considerava la “coscienza dell’umanità”, mentre negli anni più recenti il sistema delle Ong è finito spesso sotto il fuoco della critica: è stato messo in dubbio come vengono spesi i finanziamenti ottenuti e quanto si operi ed agisca in modo trasparente e democratico. Molte delle critiche mosse sono meritate e puntuali. Sopratutto per una parte della società civile dei Balcani: quella delle grandi organizzazioni internazionali (e nazionali), dai budget consistenti, degli hotel di lusso, delle conferenze “tutto incluso" e voli in business class. Tutto naturalmente in nome di bambini poveri che si intende aiutare.

Dall’altra parte abbiamo invece le piccole associazioni, rigorosamente locali, fatte da volontari, senza auto e senza computer portatili costosi. E nonostante questo, ad uno sguardo più ravvicinato, uno può scorgere nelle loro attività piccoli miracoli quotidiani.

Ma se per i primi accedere ai fondi dell’Unione europea non è un problema, per queste associazioni di base lo è eccome. Dipende tutto dal sistema: che è divenuto troppo complicato. Innanzitutto dal punto di vista amministrativo. Tutto, nel sistema di finanziamento UE, porta alla complessità amministrativa. E vi è una parte del mondo associativo che “lo sa fare” e vive di questo (è stato calcolato che circa il 70% del lavoro di queste grosse organizzazioni è destinato alla scrittura di progetti e al relativo lavoro amministrativo) e tutti gli altri che si devono accontentare di entusiasmo civico, lavoro volontario, piccole donazioni da parte della comunità in cui operano. Qualcuno potrebbe pensare: è proprio questo che ci vuole! Ma a me suona un po’ cinico.

La soglia dei 200.000 euro e co-finanziamenti

Un recente bando UE rivolto alle Ong dei Balcani aveva, tra i prerequisiti, che gli applicanti avessero un budget annuale di 200.000 euro. A chi lavora nelle Ong della regione una richiesta di questo tipo lascia perplessi. Chi ha posto quella condizione – si è portati a pensare – non ha mai avuto a che fare con una Ong nei Balcani. Oppure, voleva che ad accedere ai fondi fossero solo una manciata di organizzazioni. In Macedonia ad esempio, non vi sarebbero più di 7-8 Ong in grado di rispettare questo vincolo. Ed è un po’ forzato definirle come “rappresentanti della società civile”…

Un’altra questione cruciale è quella del cosiddetto co-finanziamento. Che non riguarda esclusivamente l’Unione europea: molti altri donatori lo richiedono, ma i programmi di finanziamento UE hanno alzato l’asticella a nuovi livelli di difficoltà (per chi si occupa di progettazione europea: in particolare non considerando i contributi in natura). Questa richiesta a mio avviso non ha mai avuto gran senso, ma più della regola di per se stessa, è la sua indefinitezza il problema. Chiedi a tre differenti donatori, e addirittura ai responsabili di tre diversi programmi di finanziamento in seno all’UE, e daranno tutti interpretazioni differenti.

"Ci spingono a barare"

Ciò che è più problematico è che di solito le Ong non hanno disponibilità finanziarie illimitate da utilizzare come co-finanziamento. I fondi di cui sono in possesso sono solitamente vincolati ad altri scopi, vincolati ad altri progetti. Chiunque abbia lavorato con un’Ong lo sa perfettamente: le Ong sono spesso costrette ad acrobazie finanziarie per rispondere ai requisiti di co-finanziamento. Secondo le parole di un attivista: “Sono loro che ci spingono a barare”.

Infine, ciò che risulta essere di fatto il maggior ostacolo per l’accesso ai fondi europei da parte delle piccole associazioni dei Balcani, è la burocrazia. La gente rimane regolarmente impietrita davanti al cosiddetto IPA application form, da compilare per ottenere dei finanziamenti. Anche attivisti di Ong di lunga data, che hanno scritto per anni progetti, ne sono intimiditi.

Come se non fosse già abbastanza, ogni tanto, qualche ufficio amministrativo UE nei Balcani (ad esempio i segretariati regionali UE per programmi transfrontalieri) si sforzano di complicare ulteriormente il formulario, ad esempio trasformando il testo in un “pacchetto” zeppo di macro (che solitamente con i programmi LINUX non si aprono) e di inutilità tecniche (si dice che consulenti ben pagati abbiano lavorato a lungo per riuscirci). Il risultato finale è che il tutto risulta molto più complesso di quanto non lo fosse già prima.

Oltre alle inutili difficoltà tecnologiche, i formulari sono pieni di richieste e domande che semplicemente non hanno alcun senso. A dire il vero, è un caso raro che questo avvenga per i documenti che arrivano direttamente dagli uffici di Bruxelles. Ma quando queste linee guida e formulari vengono realizzati da alcuni uffici locali, allora a volte il risultato rasenta il disastro. In un recente bando per progetti nei Balcani una delle priorità da raggiungere veniva descritta con un’unica parola: “salute”. Un altro era scritto in un inglese praticamente illeggibile, ma questo non ha impedito all’ufficio di richiedere decine di documenti tutti ovviamente da far tradurre a interpreti autorizzati e certificati.

Dalle sfide di carta alle sfide reali

Oltre alla metafisica amministrativa, le procedure richiedono in ogni caso una conoscenza approfondita di gestione di progetti. Non è affatto facile per una piccola associazione locale redarre due pagine di “analisi dei rischi”. Non ne hanno probabilmente mai sentito parlare (anche se ovviamente, intuitivamente capiscono di cosa si tratti). Il loro lavoro è quello di occuparsi di bambini con bisogni speciali, organizzare gli agricoltori, aiutare i rom ad accedere al sistema sanitario. E’ questo in cui eccellono. Perché dovrebbero invece occuparsi del concetto “trendy” di “gestione del rischio”?

Davanti a tutte queste argomentazioni i funzionari UE probabilmente risponderebbero che lavorare con Ong più strutturate sia una scelta voluta. Una spiegazione che si basa sul concetto di economie di scala. Ma anche fosse così, i requisiti posti sono congegnati in tal modo da restringere l’accesso ai fondi a pochi eletti. E poi, non c’è nessuna evidenza che porti a credere che l’attività di poche e grandi Ong sia migliore come impatto a quella di centinaia più piccole. Al contrario.

Oltre a questo non si può sottovalutare “l’effetto burocrazia”: perché pensare a finanziamenti più piccoli, se il lavoro che poi deve fare l’amministrazione europea è lo stesso? Come non è da sottovalutare il peso in tutto questo delle varie lobbies e interessi di parte.

Piccolo è utile

L’Unione europea ha avviato relativamente tardi una politica a sostegno della società civile nei Balcani. Il suo Fondo a sostegno della società civile è stato creato solo nel 2008. Oltre allo "Strumento Europeo per la Democrazia e i Diritti umani" (EIDHR), a beneficio in particolare delle Ong, e ad altre sporadiche linee di finanziamento non vi è stato molto altro. Molti dei finanziamenti vengono distribuiti attraverso appalti, ancora una volta limitando il campo dei potenziali beneficiari solo a grandi organizzazioni di livello europeo.

Ma quello su cui dovrebbero concentrarsi i funzionari UE per sostenere effettivamente la società civile dei Balcani sono programmi di piccoli finanziamenti (diciamo tra i 5.000 e i 20.000 euro), asciugati il più possibile da adempimenti burocratici, con formulari per la richiesta semplici e nelle lingue locali e risposte rapide (attualmente le risposte di alcuni di questi centri interregionali possono impiegare fino a due anni).

Invece di regole rigide che definiscono l’uso dei decimali nel prospetto finanziario dei progetti o in merito al formato del logo, definiti da uffici lontani, servirebbe dedicarsi a veri monitoraggi sul campo. Questo aiuterebbe i funzionari a comprendere le sfide sostanziali che occorre affrontare, piuttosto che continuare a concentrarsi nel crearne di carta. Questo è come l’Unione europea dovrebbe sostenere la società civile nei Balcani.

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