ONG, l’emicrania da cofinanziamento
Raramente i donatori sostengono un progetto se quest’ultimo non è in parte co-finanziato dal proponente. Giusto, a livello di principi, ma nei fatti questa norma spesso scatena la fantasia contabile e fiacca la capacità d’azione delle Ong
Chiedete ad una Ong che cosa la spaventa di più: probabilmente la risposta sarà il “cofinanziamento”, ovvero la regola per cui un donatore non copre l’intero costo del progetto, ma richiede all’organizzazione di garantire parte dei finanziamenti da altre fonti. Questa norma, giusta in linea di principio, non ha mai portato altro che mal di testa e aggiramento delle regole. Le Ong, in quanto destinatarie principali di fondi per progetti, sono le più colpite dal meccanismo. La regola esiste da tempo, ma è diventata più stringente con le recenti normative UE.
Che cosa significa cofinanziamento?
Molte cose diverse. Può riferirsi al concetto di ownership: chi attua il progetto deve contribuire alla causa. È associato alla sostenibilità: il progetto non deve essere totalmente a carico del donatore, ma aggregare altre fonti di finanziamento. Cofinanziamento è coordinamento, cooperazione, mobilitazione dal basso. Tutte belle parole. In pratica, però, la regola stimola una contabilità creativa.
La ragione è semplice. Le Ong, con poche eccezioni, non hanno fondi non vincolati da spendere come meglio credono. La maggior parte dei finanziamenti è destinata a scopi molto specifici elencati nei contratti. Se le Ong disponessero degli ormai rarissimi core funds, oppure di donazioni (individuali o aziendali) senza restrizioni, o di entrate proprie, il problema non esisterebbe: basterebbe pescare i cofinanziamenti da questi fondi. Di solito, tuttavia, non è così: i fondi sono vincolati e il loro utilizzo come cofinanziamento richiede quindi il consenso del donatore.
È qui che iniziano i problemi. Ogni singolo donatore si interessa del proprio progetto – ovviamente, nonostante possa avere obiettivi molto simili a quelli di altri progetti (quali, ad esempio, la stessa missione dell’ONG, la parità di genere, etc.). Quindi le possibilità di collegare i finanziamenti di più Ong per alcune voci di spesa, anche per evitare duplicazioni, dovrebbe esistere. Ma, tranne rarissime eccezioni, questo meccanismo è al momento fuori questione.
La lotta con la burocraziaal momento
Molte regole, troppe cercano di impedire spostamenti di fondi tra un porgetto e l’altro. E poi in pratica i fondi vengono spostati comunque, senza il consenso dei donatori. Ad esempio, i finanziamenti forniti da un donatore per viaggi, comunicazioni e personale vengono presentati come cofinanziamento (ricevute di spesa) per un altro progetto. C’è chi sostiene la legittimità, in qualche misura, di questa pratica. In realtà, i donatori che hanno stanziato fondi per qualcosa di specifico finiscono in questo modo per finanziare, a propria insaputa, altre voci di bilancio. Un altro escamotage consiste nel risparmiare su un progetto in modo da avere i soldi per un altro. Alcune organizzazioni pagano gli stipendi al personale come da bilancio ufficiale del progetto, per poi costringerlo ufficiosamente a donarne indietro una parte. E così via. In entrambi i casi, non si tratta di pratiche etiche, né (spesso) legali.
In breve, il principio del cofinanziamento non funziona, soprattutto per le Ong. Potrebbe funzionare per i grandi donatori pubblici o privati, che hanno la possibilità di operare con approcci come "se tu metti dieci milioni, io ne metto tre", o per organismi con finanziamenti autonomi come comuni, università o aziende private (eleggibili per alcuni programmi di finanziamento UE). Tuttavia, i primi destinatari rimangono le ONG, che così finiscono per condurre illegittimamente parte delle loro attività.
Molti donatori, consapevoli della realtà, applicano la regola con una certa indulgenza: ad esempio richiedendo il cofinanziamento, ma non le certificazioni relative, oppure consentendo contributi in natura (uffici in affitto gratuito, uso di attrezzature esistenti, volontariato). Ciò risolve il problema del cofinanziamento per molte Ong, senza costringerle ad acrobazie contabili.
A livello UE
Per i programmi comunitari di finanziamento, tuttavia, la regola deve essere applicata in modo più restrittivo: i contributi in natura non sono ammissibili come parte del bilancio stesso e il concessionario è tenuto a presentare i registri finanziari del cofinanziamento (non si può chiudere un occhio), spesso attraverso un conto separato. Tutto questo rende i tentativi di contabilità creativa molto più difficili, ma lascia irrisolto il problema.
I donatori potrebbero dire che non è un problema loro. Allora la prima domanda che dovrebbero porsi prima di concedere una sovvenzione è se il destinatario dispone di finanziamenti senza restrizioni. Questa sarebbe ovviamente una domanda retorica: basta una rapida occhiata al bilancio dell’organizzazione richiedente. In caso contrario, il donatore potrebbe decidere di destinare il finanziamento alle organizzazioni che hanno i fondi per il cofinanziamento, ma questo porterebbe all’esclusione delle candidature più adatte.
Quindi, che fare? Ci sono diverse alternative. Il cofinanziamento potrebbe essere ridotto al minimo: ad esempio, alcuni programmi UE richiedono solo una quota del 5% di cofinanziamento. Anche l’opzione in natura è una soluzione elegante, quindi i donatori dovrebbero smettere di escluderla, in particolare per i programmi europei. Servirebbero però regole precise su come calcolarla. I donatori potrebbero anche smettere di richiedere il cofinanziamento, in particolare da organizzazioni che (come essi stessi sanno) non possono garantirlo.
Infine, il settore potrebbe sicuramente beneficiare da un dibattito aperto sulle modalità di combinazione di fondi per progetti diversi. Tale dibattito esiste, ma è caotico e non ha luogo in sedi ufficiali. Un insieme di norme concordate con chiarezza da parte di tutti potrebbe aiutare le Ong a lavorare in modo più costruttivo e incrementare enormemente l’efficacia dei progetti.