Omicidio Ðinđić: iniziato il processo

Il processo ai 36 accusati della cospirazione in cui è stato ucciso il premier serbo Zoran Ðinđić è iniziato lunedì a Belgrado, dove sotto gli occhi del pubblico sarà presentata l’accusa della cui fondatezza in Serbia si dubita sempre di più

24/12/2003, Željko Cvijanović - Belgrado

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Fonet-B92 - Durante il processo. A destra Jovanovic

Il processo agli assassini del premier serbo Zoran Ðinđić, iniziato lunedì scorso a Belgrado, minaccia di trasformarsi in un lungo e mai risolto caso, per certi versi simile a quando è stato ucciso il presidente americano John Kennedy. Che i giudici del Tribunale speciale per la lotta al crimine organizzato si attendessero un caso pesante, si è visto già il primo giorno, quando il processo è stato interrotto a causa delle richieste dei difensori, ad eccezione del giudice e dell’accusa.

Il fatto che ci siano 36 accusati, dei quali 14 sono latitanti, che vengono difesi da 44 avvocati mostra che il processo per l’omicidio del premier serbo è il più grande e complicato processo giudiziario mai svolto in Serbia fino ad ora.
Gli analisti stimano che la domanda principale verte su quanto il potere giudiziario, il quale non è riuscito a riformarsi nemmeno nei tre anni dopo la caduta di Slobodan Milošević, riuscirà a venire fuori da questo caso.

Quando saranno esaudite le richieste dei difensori, ci si attende che il procuratore proceda con la lettura delle accuse, dopo di che gli accusati si dichiareranno sulla propria colpevolezza.
Tra di loro c’è anche il tenete colonnello dell’Unità per le operazione speciali Zvezdan Jovanović, accusato di aver premuto il grilletto del fucile di precisione con cui il 12 marzo scorso è stato ucciso Ðinđić.

Dopo l’arresto alla fine di marzo, Jovanović ha riconosciuto di aver ucciso Ðinđić, ma nel corso delle indagini si è difeso col silenzio, sicché è incerto come si dichiarerà sulla propria colpevolezza davanti al tribunale.
La maggior parte degli osservatori crede che il momento più interessante dell’inizio del processo sarà proprio la dichiarazione di Jovanović e la linea di difesa che adotteranno i suoi avvocati.

" Io pensavo che dicesse qualcosa, ma si difenderà tacendo come ha fatto durante le indagini, oppure negherà o affermerà ciò che ha detto? Secondo me ora è questa è la cosa più importante", afferma l’analista di crimini Jovan Dulović.

La difesa degli accusati probabilmente sarà condotta sulla base di numerose controversie, all’ombra delle quali si è svolta l’indagine di parecchi mesi riguardante l’omicidio.
Nonostante nell’accusa chiaramente ci sia scritto che Ðinđić all’ingresso del palazzo del governo è stato ucciso da uno dei due proiettili che sono stati sparati col fucile di precisione da Jovanović dalla finestra del vicino edificio, dopo si è mostrato invece che l’indagine ha subito diverse mancanze, tra le quali anche il non aver condotto la consueta ricostruzione dell’omicidio.

Oltre a ciò, la scorsa estate la guardia del corpo di Ðinđić, Milan Veruović, anch’egli gravemente ferito durante l’attentato, ha dichiarato che su loro due sono stati sparati tre proiettili, e non due come riporta l’accusa.
Egli con ciò ha sollevato la domanda se Jovanović sia stato solo uno degli attentatori e se all’omicidio abbia partecipato un altro cecchino appostato in un altro luogo.

Il governo e il procuratore pubblico Ðorđe Ostojić energicamente hanno rigettato l’esistenza di un altro cecchino.
Tuttavia il noto settimanale belgradese NIN tre settimane fa ha pubblicato le fotografie dell’indagine sulle quali si vedono le tracce dei proiettili sui gradini del corridoio del palazzo del governo.

Rispetto alla posizione in cui si trovava Jovanović nel momento dell’attentato, non è possibile che quelle tracce le abbiano procurate i suoi proiettili.
Per questo alla maggior parte del pubblico è rimasta l’impressione che l’indagine nasconda qualcosa e che tutti i dettagli non siano stati resi noti al pubblico.

Una delle possibilità che si nomina è che il potere abbia voluto indirizzare le indagini in una direzione così da coprire le relazioni di suoi alti funzionari con il clan mafioso di Zemun, i cui appartenenti in gran parte si trovano sotto accusa per l’omicidio Ðinđić.
Alla seconda domanda controversa – sui mandanti dell’omicidio Ðinđić – l’accusa non tenta nemmeno di rispondere accontentandosi di aver nominato gli esecutori.

Non è escluso, tuttavia, che le tracce di eventuali mandanti possano emergere durante il processo benché coloro i quali avrebbero potuto più di tutti parlare non si sono presentati davanti al tribunale speciale.
Si tratta di Milorad Luković Legija, un tempo comandante dell’Unità speciale della polizia, il quale è accusato di essere il principale organizzatore dell’omicidio, attualmente latitante.

Oltre a lui dei possibili mandanti dell’omicidio, mancheranno in tribunale anche Dušan Spasojević e Mile Luković, i leader del clan di Zemun rimasti uccisi la scorsa estate durante l’azione di cattura della polizia.
Le controversie circa i mandanti sono iniziate già la scorsa estate durante le indagini, quando il governo ha tentato di accusare per la partecipazione all’omicidio i maggiori oppositori politici: il presidente del partito ultranazionalista, Partito Radicale Serbo (SRS) di Voijslav Šešelj e il leader del Partito Democratico della Serbia (DSS) Vojislav Koštunica, il maggior rivale di Ðinđić.

In quell’occasione venne arrestato persino Rade Bulatović, il consigliere di Koštunica per la sicurezza, ma venne poi rilasciato dopo quattro mesi trascorsi in carcere e contro di lui l’accusa non è mai stata sollevata.
Nel frattempo, è venuto fuori che alcuni funzionari del governo avevano l’intenzione di arrestare per partecipazione all’omicidio anche il vicepresidente del governo serbo Nebojša Čović.

Tuttavia, col tempo a ciò si è rinunciato, così che tutto è rimasto nei tentativi di alcune correnti del potere serbo intenzionate a fare i conti con i propri oppositori e i rivali politici.

Sulle controversie circa il numero di proiettili sparati su Ðinđić e sul numero dei cecchini è stata gettata un’ombra anche sullo stesso governo come possibile mandante.
Slobodan Pajić, un ex poliziotto di rilievo e ora proprietario dell’agenzia investigativa DIZA, ha svolto in parallelo una ricostruzione dell’omicidio, con la quale è giunto alla conclusione che c’era un altro cecchino che ha ucciso Ðinđić, mentre Zvezdan Jovanović avrebbe ferito la sua guardia del corpo.

Per questo, afferma Pajić, "esistono le basi per sospettare che si sia trattato di una congiura più ampia".
Egli afferma che in questo complotto sono coinvolte "più persone del Ministero degli interni della Serbia, del Governo della Serbia e determinate strutture della lobby finanziaria".

Se le considerazioni di Pajić, che non sono le uniche, dovessero risultare esatte, allora si potrebbe mostrare che il processo appena iniziato viene condotto sotto il controllo dei mandanti dell’omicidio, sul quale a Belgrado per ora nessuno desidera dichiararsi pubblicamente.
Dubbi sulla riuscita del processo li ha sollevati anche il presidente del Tribunale costituzionale della Serbia, Slobodan Vučetić, il quale ha detto che il processo non è sufficientemente preparato e che non ci sono materiali certi sui fatti accaduti.

"Sembra che la polizia, e anche in parte l’accusa e il giudice per le indagini non abbiano svolto in maniera sufficiente il loro lavoro, dal momento che non hanno nemmeno garantito gli accusati e i testimoni necessari per un processo efficace e obiettivo", ha detto Vučetić.
È interessante che dubiti dell’accusa perfino la madre di Zoran Ðinđić, Mila Dušanić, la quale al primo giorno del processo si è presenta in tribunale.

La signora Dušanić ha detto che dubita che si verrà mai a sapere chi è stato il vero assassino e che "Zvezdan Jovanović è una pecora nera"
Per tutto questo, il minimo che ci si può attendere dal processo appena iniziato è che davanti agli occhi del pubblico si trovi un’accusa sulla cui fondatezza ogni giorno che passa emergono sempre più dubbi.

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