Oluja, la storia di Nikola
Nikola aveva pochi mesi quando nell’agosto del 1995 la sua famiglia, insieme con le altre 200mila persone di nazionalità serba, lasciò in fretta e furia la Croazia. Dopo aver vissuto in Serbia per quindici anni è tornato in Croazia dove ha fatto gli studi superiori e dove tutt’ora vive e lavora. Lo abbiamo incontrato
Ho incontrato per la prima volta Nikola Kožul al corso di Studi sulla pace organizzato dal Centar za Mirovne Studije (CMS) di Zagabria. Un giorno, durante il modulo sulle guerre degli anni Novanta, questo 28enne alto e magro ha preso la parola e ha raccontato la sua storia – quella di uno dei circa 200mila serbi di Croazia che nell’agosto del 1995 lasciarono in fretta e furia le proprie case, mentre l’esercito croato avanzava riconquistando la Krajina durante l’operazione Tempesta (Oluja). Tra il 1995 e il 2010, Nikola ha vissuto in Serbia, prima di tornare in Croazia, dove ha frequentato il liceo e si è laureato in legge. Il suo discorso mi aveva colpito non solo per la drammaticità degli eventi che raccontava, ma anche per la tenacia, l’impegno e persino l’ottimismo che trapelava dalle sue parole. Oggi Nikola lavora come giurista al Consiglio nazionale serbo (SNV, l’organo che rappresenta la minoranza serba in Croazia) e offre assistenza legale gratuita a chi ne ha bisogno. In occasione del 28° anniversario di Oluja, l’ho incontrato in un caffè della capitale croata per farmi raccontare nel dettaglio la sua storia.
Nikola, tu sei nato a Benkovac, nell’entroterra di Zara, quattro mesi prima dell’operazione Tempesta. Cosa ti hanno detto i tuoi famigliari di quell’agosto 1995?
La grande domanda, all’interno della comunità serba, è: “siamo partiti da soli o ci hanno cacciato?” La versione ufficiale croata sostiene che i serbi hanno deciso spontaneamente di partire. I miei dicono che avevano paura, che non si fidavano delle nuove autorità croate e che vedevano tutti fuggire. Hanno deciso all’ultimo momento. La mattina del 4 agosto 1995, quando mia mamma ha chiamato il nonno per dire “dobbiamo andare, stanno scappando tutti”, lui era tra i campi e stava costruendo una recinzione per le galline. Più tardi ho sentito altre storie, di persone che erano state avvicinate da agenti di sicurezza serbi che avevano consigliato loro di partire… È una vicenda di cui non saremo mai sicuri al 100%. Io penso che ci sia stato un accordo tra Croazia e Serbia, perché poi, durante il nostro viaggio, le autorità serbe ci dirottavano continuamente verso il Kosovo, per popolarlo di serbi. Ad ogni modo, per quanto riguarda i miei, l’effetto psicologico è stato sufficiente: tutti scappavano e quindi sono fuggiti anche loro. Siamo così partiti con due auto e a Knin ci siamo uniti alla grande colonna di auto e trattori che lasciava la Croazia.
L’immagine di quella colonna di migliaia di persone, perlopiù povere e provenienti dalla Croazia rurale, è diventata uno dei simboli più noti dell’operazione Oluja. La tua famiglia cosa faceva a Benkovac prima della guerra?
Mio nonno era figlio di partigiani e durante la Seconda guerra mondiale era finito, assieme a tutta la famiglia, in un campo di prigionia italiano sull’isola di Meleda (Molat) e poi a Napoli. Al suo ritorno, aveva iniziato la scuola e si era laureato in Economia a Belgrado, prima di tornare a Benkovac per lavorare come direttore della cooperativa agricola locale. La nonna – più giovane di 14 anni – aveva studiato anche lei all’università, laureandosi alla facoltà di Turismo a Zara. Entrambi, insomma, erano un esempio di successo della Jugoslavia socialista, provenienti da famiglie contadine e diventati parte della nuova élite. Mio nonno credeva molto nei valori della Jugoslavia ed era contrario al nazionalismo, così quando le nuove autorità serbe hanno preso il controllo della Krajina nel 1991, lui ha perso il lavoro ed è finito per un breve periodo in prigione, prima di ritrovare un impiego come direttore di banca fino al 1995.
Torniamo alla vostra fuga nel 1995. Dove siete andati una volta raggiunta la colonna a Knin?
Ci siamo fermati prima a Prijedor e poi a Banja Luka. Io avevo pochi mesi e faceva molto caldo, per cui le persone ci aiutavano molto ad ogni tappa. Arrivati in Serbia (dove non conoscevamo nessuno), la colonna di auto veniva indirizzata verso il Kosovo e tante strade erano chiuse. Ma i miei nonni sono riusciti ad ottenere un’autorizzazione per raggiungere la Vojvodina e io sono stato battezzato a Pančevo. Qualche mese dopo, nel 1996, i nonni hanno comprato casa a Temerin, un paesino poco a nord di Novi Sad, mentre io, mia sorella maggiore e i miei genitori siamo andati in Kosovo. Mio papà era giornalista e l’unico lavoro che gli hanno proposto era lì. Anche mia zia, che all’epoca studiava all’università, ci ha seguiti: tutta la facoltà di Knin era infatti stata spostata in Kosovo. L’esperienza però non è piaciuta ai miei (lì si preparava un’altra guerra…) e nel 1997 siamo tornati a Temerin, proprio quando i miei nonni hanno provato a rientrare a Benkovac.
I tuoi nonni sono rientrati in Croazia due anni dopo la fine della guerra… com’è andata?
Col senno di poi, sono tornati troppo presto, era ancora pericoloso all’epoca. Ma loro non potevano più aspettare. A Benkovac abbiamo della campagna: 150 olivi, due grandi vigneti, alberi da frutto… volevano occuparsene. Così sono entrati illegalmente in Croazia e hanno cominciato a prendersi cura dei terreni, ma un giorno, dopo che erano andati a trovare alcuni famigliari a Spalato, hanno trovato al ritorno la casa distrutta. Era stata fatta saltare in aria. Fu uno shock enorme per loro, ma anche il momento in cui decisero che non sarebbero mai più ripartiti. Hanno vissuto nella stalla, poi hanno preso in affitto un appartamento a Benkovac e ogni mattina lavoravano nei campi. Ancora oggi nella tenuta, si vede il buco di dove una volta c’era la casa di famiglia.
Nel frattempo voi eravate in Serbia…
Sì. Nel 1998 è nata mia sorella minore e nel 1999 ci siamo trasferiti a Nova Pazova, a metà strada tra Novi Sad e Belgrado, dove io ho frequentato la scuola elementare. Più che una città vera e propria, è un centro abitato che gravita attorno a Belgrado. Ho brutti ricordi di quel periodo, ma mi chiedo spesso se è perché ricordo solo il peggio o perché era davvero così difficile. Avevo degli amici, ma non sono mancati gli incidenti. Per insultarmi, i bambini mi chiamavano “rifugiato" o “croato". Ripensandoci ora, capisco che chi abitava lì aveva trascorso gli anni Novanta tra mille difficoltà e senza mai essere aiutato. Noi invece avevamo ricevuto un appartamento e dei mobili dal governo serbo. C’era molta invidia e rabbia. Ad ogni modo, non mi sono mai sentito a casa in Serbia. Anche se parlavamo la stessa lingua, il mio accento croato non passava inosservato. “Casa” è dove puoi parlare la lingua che parli in famiglia anche fuori dalle mura domestiche.
Nel 2000 sei tornato a Benkovac per la prima volta. Com’è andata?
Era inverno, durante le vacanze scolastiche. Mi ricordo l’arrivo di notte, la nonna che mi dice “qui è casa tua” e poi la vista dell’abitazione che era stata fatta saltare in aria, con ancora le pietre sparse nel prato. Quell’anno per la prima volta ho visto il mare, Zara con le mura, il centro storico… ne sono rimasto incantato. In confronto al fango di Nova Pazova, era un altro mondo. L’anno dopo siamo tornati per le vacanze estive e io ho incontrato i bambini croati. Giocavo con loro, ma ricordo che un giorno, quando sono arrivato, erano tutti in silenzio e non mi guardavano. Uno di loro mi ha detto “sappiamo cosa sei tu”. “Cosa?”, ho chiesto. “Un serbo”, mi ha risposto. Ho imparato a relazionarmi presto con quella domanda: “Chi sei e da dove vieni?”, sempre così importante. A Benkovac, tutti uscivano dal trauma della guerra. Con quei bambini ho finito comunque per fare amicizia, ci ritrovavamo ogni estate.
Quando hai finito la scuola elementare, hai deciso di fare il liceo a Zagabria, mentre i tuoi sono rimasti in Serbia. Com’è stato?
Ho seguito le orme di mia sorella, che già aveva preso quella strada. I miei genitori non vedevano un futuro per noi a Nova Pazova. L’educazione era molto importante per loro, uno strumento per migliorare la propria condizione. L’offerta formativa del liceo serbo ortodosso di Zagabria non era comparabile a quella degli istituti locali. È una sorta di scuola d’élite, ma aperta a tutti. Completamente finanziato dalla Chiesa ortodossa serba in Croazia, il liceo è laico e segue il programma nazionale croato, permettendo ai bambini provenienti da aree rurali e periferiche di studiare in centro a Zagabria, ricevendo una borsa di studio e vivendo alla casa dello studente. Quando ho annunciato ai miei compagni di classe che sarei andato in Croazia a fare il liceo, una ragazza mi ha detto che ero un “traditore”. Non è stato facile, tanto meno per i miei genitori che mandavano il loro secondo figlio a studiare in un paese che li considerava tutto sommato “nemici”. Ma avevano pochi soldi e non avrebbero mai potuto offrirci un’educazione come quella che abbiamo ricevuto a Zagabria. Quel liceo è davvero una buona cosa che la Chiesa ortodossa serba ha fatto.
Com’è stato studiare a Zagabria? Hai avuto nuovi problemi con i coetanei croati?
Finché eravamo in centro, no. Ma quando è stato costruito il nuovo liceo nel quartiere di Svedi Duh, ci siamo ritrovati a prendere ogni giorno l’autobus con gli alunni di una delle peggiori scuole tecniche della città. Ogni mattina ci insultavano, ci gettavano oggetti, a volte ci attaccavano. La polizia spesso ci scortava fino a scuola. Era un vero problema per il liceo. Se si fosse sparsa la voce nella comunità serba, i genitori avrebbero esitato a iscrivere i loro figli e sarebbe stato un vero peccato, perché la scuola era ottima.
Dopo il diploma, hai scelto di studiare Giurisprudenza a Fiume. Come mai?
In famiglia si parlava sempre di politica, di giustizia, di società… Erano temi che mi interessavano e Fiume è forse la città più liberale della Croazia. Quando ho saputo che mi avevano ammesso lì a Giurisprudenza, non ci ho pensato due volte. Sono rimasto quasi otto anni nel capoluogo quarnerino, anche se tornavo spesso a Zagabria. Avevo infatti iniziato con l’attivismo, con il partito politico “Za Grad” [poi confluito in Možemo, nda.] e co-fondando poi il Forum per lo sviluppo sostenibile “Zeleni Prozor”. In quegli anni ho partecipato a diversi incontri a Bruxelles, in Kosovo, ho fatto un Erasmus a Lubiana… ho potuto rileggere la mia esperienza attraverso lo studio e il confronto con giovani di altre nazionalità. Mi sono laureato a fine 2021 e nel 2022 ho iniziato a lavorare al Consiglio nazionale serbo (SNV) a Zagabria, non prima di aver fatto un lungo viaggio in bici attraverso l’Italia, che sognavo da tempo.
Questo fine settimana si è celebrato il 28° anniversario dell’operazione Tempesta, sempre con la solita retorica divisiva . Come leggi tu i fatti dell’agosto 1995?
Io penso che ci siano elementi di verità da entrambe le parti. A Benkovac c’è sempre stato un forte nazionalismo croato, fino a qualche anno fa si festeggiava Oluja in pompa magna e solo dagli ultimi anni la situazione si sta calmando un po’. Per i nazionalisti croati, Oluja rimane una vittoria senza errori e senza macchia. In Serbia, invece, si opta per il vittimismo, di cui si nutre il nazionalismo serbo. Noi rifugiati veniamo usati e Oluja diventa come il bombardamento Nato. Tra queste due versioni estreme, ci siamo noi, la minoranza, la chiave per la pace. La guerra è sempre una guerra contro le minoranze. Io penso che la Krajina era una legittima parte della Croazia e che le autorità serbe hanno sbagliato nel 1991 a cacciare i croati, a distruggere le loro case e chiese. Nel 1995 è stato invece il nazionalismo croato a sbagliare. Avrei voluto che la Croazia di allora fosse più matura e che le autorità di Zagabria avessero davvero detto chiaramente “non dovete partire”, “nessun civile sarà maltrattato”. Ma non è andata così. La verità è che – e qui la si nega – 200mila serbi sono partiti, tra i 600 e i 1200 civili sono stati uccisi, 20mila case sono state distrutte… E per chi è tornato, come per i miei nonni, non è stato facile.
Cosa vedi nel futuro della minoranza serba in Croazia?
Purtroppo, non si può ricreare la situazione antecedente alla guerra. Quei territori non saranno mai così popolati come lo erano prima. Tuttavia, possiamo migliorare la situazione e negli ultimi anni si lavora in questa direzione. Nel 2020 il governo Plenković per la prima volta ha invitato i rappresentanti della minoranza serba alla commemorazione di Oluja a Knin. Per la prima volta ha menzionato le vittime, ha parlato di giustizia, si è detto dispiaciuto… La narrativa in Serbia, invece, non cambia, anzi si allontana.
Il bicchiere è mezzo pieno dunque?
Per me sì, i miei genitori direbbero di no. Ma forse la differenza sta nel punto di vista. Loro hanno visto il bicchiere completamente pieno prima del 1991, io sono partito con un bicchiere vuoto. Dall’altro lato, sono consapevole di essere un esempio positivo di integrazione dei serbi in Croazia, forse un’eccezione. Non tutti hanno fatto il liceo serbo a Zagabria. Tanti sono rimasti nelle aree rurali, magari si sono radicalizzati col nazionalismo. Altri sono partiti in Germania. Ma se è vero che i nostri villaggi sono sempre più vecchi e più vuoti dal punto di vista demografico, è vero anche che c’è chi torna dall’estero. Si farà una nuova società. Insomma, sono ottimista anche se con cautela.
Che progetti hai per la proprietà di famiglia di Benkovac?
Senza aiuti da parte dello stato sono passati più di trent’anni senza poter ricostruire quella casa. Ma sono certo che ricostruiremo la casa dei nonni e rilanceremo la produzione agricola con l’aiuto dei fondi europei. Ho già detto ai miei che mi occuperò ben volentieri di tutte le questioni amministrative.