Oltre la linea incerta
"Nell’epoca di Google Maps, dei viaggi organizzati, del turismo di massa e dell’usura del mondo, ritengo che il senso del viaggiare risieda quanto mai nello sguardo e diciamo pure nello spirito di chi si mette in cammino." A colloquio con Luca Medeot, autore di Oltre la linea incerta. Appunti per un poema di viaggio da Trento all’Ararat
Oltre la linea incerta ci porta da Trento ad attraversare l’attuale confine tra Italia e Slovenia, in direzione sudest. Viene da qui il titolo? E come fa una linea ad essere incerta?
Innanzitutto vorrei precisare che Oltre la linea incerta è la seconda parte di un lungo poema di viaggio, composto da testi in versi e in prosa che si aggregano e in qualche modo ruotano attorno ad un singolo viaggio da me compiuto nell’estate del 2006 verso l’Armenia (però va chiarito che i testi raccolti in questo libro sono in gran parte incentrati sulle tappe balcaniche). Un viaggio che per varie ragioni è stato molto significativo per la mia crescita personale e diciamo pure nel definire il mio modo di stare al mondo. Il libro va pertanto considerato come il seguito de L’attesa sulla soglia, uscito nel 2019.
Quando ho pensato a un titolo adeguato a questo secondo volumetto – che è incentrato sulla partenza e quindi sul superamento dell’immobilità, sul varcare quella soglia simbolica, esistenziale, che molto in sintesi costituiva il nucleo tematico del primo libro – ho cercato in primo luogo un’immagine che alludesse all’attraversamento di un confine: non solo del confine convenzionale tra due stati, ma anche di quello metaforico tra me e il mondo.
Il titolo rimanda esplicitamente a Über die Linie, un libriccino pubblicato in Italia da Adelphi e che raccoglie due testi di Ernst Jünger e Martin Heidegger. Nel mio caso, però, il risvolto filosofico – ovvero la riflessione sul nichilismo inteso come «meridiano zero», punto di non ritorno, esaurimento del senso – per quanto labilmente presente tra i temi del mio libro, vorrei rimanesse quantomeno sottotraccia. I versi e le prose di Oltre la linea incerta infatti parlano soprattutto di luoghi storicamente molto stratificati, di paesaggi naturali e culturali, di incontri con persone vive e concrete.
La linea è incerta in primo luogo perché ogni confine è sempre arbitrario, per quanto poi abbia implicazioni dannatamente reali: sappiamo fin troppo bene come nel corso dei millenni per tracciare le frontiere tra gli stati si siano compiute innumerevoli carneficine. A questo proposito, devo specificare che ho vissuto infanzia e giovinezza a pochi chilometri dall’Isonzo, dal Carso e dal confine tra l’Italia e quella che allora era la Jugoslavia, prima di trasferirmi a Trento. La frontiera è quindi qualcosa di profondamente inscritto nella mia vicenda personale, persino intima. Qualcosa di indelebile e sottilmente doloroso, che mi porto addosso come una cicatrice.
Vista la mia esperienza, ritengo in particolare che ogni linea (più o meno metaforica) andrebbe sempre considerata come incerta perché nella realtà non è mai qualcosa di definito, di invalicabile. Non è una barriera che separa, ma qualcosa di permeabile. E se si cerca di delimitare nettamente un di qua e un di là, un dentro e un fuori, si finisce col cadere in chiusure e irrigidimenti, col considerare paranoicamente l’oltreconfine come una minaccia e non come una terra incognita da esplorare e da conoscere; e l’altro come un nemico e non come una opportunità per arricchire noi stessi e la nostra esperienza del mondo. La chiusura genera insomma claustrofobia, soffocamento, afasia; e infine morte dei sensi e del senso.
Aggiungo che nella scelta del titolo del libro hanno avuto una certa importanza, come sempre nella mia scrittura, anche i valori fonetici delle parole (in questo caso l’insistenza sulle l, le r, le t) e persino la metrica: forse non è proprio immediato riconoscere che entrambi i titoli dei miei due libri sono dei settenari.
C’è infine un significato diciamo implicito. Nel titolo è celato un riferimento alla scrittura e al senso del fare poesia: la linea incerta è infatti anche il singolo verso, le cui dinamiche interne non possono più fondarsi sulla versificazione tradizionale (e quindi sulle certezze di una misura prestabilita), ma nemmeno basarsi in modo acritico sulle sperimentazioni novecentesche.
Nel libro sono presenti sia brani relativi ad un viaggio in Armenia del 2006 sia appunti di viaggi successivi. Ci puoi raccontare la sua struttura?
Come dicevo, Oltre la linea incerta è la seconda tappa di un lungo e articolato poema di viaggio, che troverà compimento in un libro successivo (o forse due: vedremo). Ho cercato comunque di conferirgli una sua compiutezza, in modo che possa avere pienamente senso e venir letto anche da solo.
L’ordine dei testi segue solo in parte la cronologia e gli spostamenti – tutti via terra, con mezzi pubblici, tra la gente – del viaggio del 2006. Questo perché alle tappe balcaniche di quell’itinerario ne ho aggiunte altre risalenti ad un lungo viaggio del 2014 – compiuto assieme ad alcuni dei miei amici più cari e, dettaglio non irrilevante, con i miei figli piccoli – oltre a incursioni mirate e realizzate più di recente, nell’estate del 2021.
Nel dettaglio, ad un testo introduttivo, intitolato Viatico – e che vorrei risultasse una sorta di dichiarazione di poetica del viaggio – segue una prima parte di raccordo con la raccolta precedente, che si incentra sul «tempo fragile del partire» e sulla prima tappa isontina, dove «ha inizio una sorta di scabro, disadorno preludio dei Balcani». Qui un breve intermezzo, intitolato Una linea di ferro, acque e sangue, è dedicato al confine orientale (nei pressi del quale vivono ancor oggi i miei genitori) e alla sua complessa collocazione sia storica che geografica, ma anche – come dicevo – alla sua dimensione quasi esistenziale, costitutiva del mio essere.
Ha quindi inizio la parte dedicata alle tappe balcaniche e al reportage vero e proprio, intitolato Dal taccuino del camminante (le tappe anatoliche e caucasiche del viaggio saranno oggetto delle mie prossime pubblicazioni), ispirato al tentativo tutt’altro che semplice di «farci pellicola lieve, sensibile / e cercare con umiltà d’interpretare / ciò che incontreremo, senza pregiudizi».
Completa il volume un poscritto ambientato tra il monastero di Studenica in Serbia, il vecchio ponte di Mostar e la biblioteca di Sarajevo, nel quale ho narrato alcune situazioni cercando di abbandonare il mio punto di vista per assumere lo sguardo dei miei compagni di viaggio. In chiusura, compare una sorta di breve e ironico paratesto intitolato Noticine inessenziali. A corredo del libriccino ci sono infine una manciata di foto legate ai testi e scattate perlopiù dal sottoscritto.
In Viatico scrivi: «Lo vedi, il mondo, una volta sola: /nell’infanzia della vita, la prima» e poi «Solo nel viaggio puoi scoprire uno sguardo / che si apre dentro allo sguardo, / e riassaporare smemorato / l’infanzia del mondo». Nel tuo viaggiare la bussola punta sempre verso est?
Nell’epoca di Google Maps, dei viaggi organizzati, del turismo di massa e dell’usura del mondo (alludo ad un recente saggio di Rodolphe Christin), ritengo che il senso del viaggiare risieda quanto mai nello sguardo e diciamo pure nello spirito di chi si mette in cammino.
Secondo me partire con un’adeguata preparazione è fondamentale. Personalmente leggo libri, guardo film e cerco di informarmi in maniera approfondita sulla cultura, le tradizioni e le specificità del luogo che sto per andare a visitare. Questo perché per accorgersi davvero di certe sfumature significative, di certi dettagli che magari rivelano finalmente qualcosa di autentico e insomma per cercare di non fermarsi solo alla superficie di quel che vedi, quei dettagli bisogna essere pronti a coglierli.
Nel contempo, però, sarebbe bene partire con mente sgombra ed essere disposti a farsi sorprendere e contaminare da quel che si vede, specie se distante dal proprio orizzonte d’attesa. Tuttavia, pensare di poter vedere le cose con gli stessi occhi ingenui e meravigliati con cui da bambini abbiamo fatto le nostre prime scoperte risulta pressoché impossibile: siamo bombardati da immagini accuratamente selezionate e spesso modificate al computer, da informazioni filtrate, da stimoli preconfezionati. È la «mesta dittatura dell’iterazione», la ripetizione seriale dell’identico, che rende tutto banale in quanto già conosciuto, già visto, conforme ad un immaginario consumistico educato, appunto, fin dall’infanzia. E così il nostro sguardo rischia di esser cieco a quel che è altro e non è in grado di riconoscere.
A proposito di Viatico, va aggiunta una postilla che complica un po’ le cose, ma c’entra col discorso che ho appena fatto. I versi che hai citato – fidati – risalgono al 2010 e devo dire che, nel mio piccolo, ne sono sempre andato piuttosto fiero, perché fotografano bene il mio modo d’intendere lo sguardo del viaggiatore. Ora. Nell’ottobre del 2020 mi è capitato di leggere – e anche qui devi fidarti – per la prima volta una poesia di Louise Glück, allora fresca vincitrice del premio Nobel, intitolata Nostos e ottimamente tradotta dal mio amico Claudio Giunta.
Quando sono arrivato agli ultimi versi, come dire, sono rimasto secco. Il testo infatti si conclude così: «We look at the world once, in childhood. / The rest is memory». Orbene: ho frequentato Lettere negli anni Novanta, quando imperversavano le letture postmoderne di Borges e dell’ultimo Calvino e il concetto di intertestualità era una sorta di passpartout per interpretare pressoché ogni fatto della letteratura mondiale. Mi pare dunque di non essere del tutto impreparato sull’argomento. Puoi però immaginare il senso di mancamento che mi ha colto quando ho letto quella poesia. Insomma, via, che un premio Nobel mi abbia soffiato una delle mie intuizioni migliori, ecco, proprio non mi va giù [sorride].
Per tornare seri e provare a rispondere alla seconda parte della tua domanda, sì, riconosco che è vero: nel mio partire la bussola punta prevalentemente verso est; anzi, a essere precisi verso sudest. Fin da ragazzino avverto un acuto richiamo verso ogni evidenza di stratificazione storico-artistica e una fascinazione verso le grandi civiltà che hanno popolato quelle terre. Per dire, anche la scorsa estate – dopo aver già percorso negli anni precedenti la via dell’Oriente, dai Balcani, alla Siria, all’Iran – sono finalmente riuscito a coronare il vecchio sogno di andare a visitare Gerusalemme e la Terra Santa.
In quell’ormai lontano 2006, il mio viaggio aveva invece come meta ultima l’Armenia: una terra povera, ancestrale, ma ricca di fascino e con una cultura millenaria, che si sublima in quei suoi antichi, cadenti, suggestivi monasteri perduti nel verde. Per coprire i 3500 chilometri che separano Trento dal monte Ararat, i paesi da attraversare sono davvero molti, se ti sposti via terra. Oltre a ciò, quel viaggio si era caricato di innumerevoli altri significati, alcuni dei quali anche molto personali, che preferirei non rivelare qui.
Una cosa però la voglio aggiungere. Negli anni del post 11 settembre 2001, del terrorismo di Al Qaeda, delle guerre di Bush e Cheney e dell’estremizzazione di quello che allora veniva propagandato come clash of civilizations, il mio impulso – per quanto assai indistinto e certo velleitario – era stato anche quello di attraversare dei paesi islamici per un’esigenza diciamo di apertura, di dialogo. Sempre cercando di tenermi il più possibile alla larga da tutte le esiziali banalizzazioni così ben descritte da Said in Orientalismo, cercavo insomma nel mio piccolo di capire meglio quel che stava accadendo attorno a me andando in medias res a incontrare e conoscere delle persone concrete. Un tentativo alquanto naif, lo riconosco. Ma ero un ragazzo di 33 anni. Forse posso perdonarmi.
Emergono forti le suggestioni legate all’area del goriziano. In questi ultimi vent’anni sono cambiate le cose rispetto alle ferite di un ‘900 che in quella zona ha colpito duramente? Quanto ha influito il progetto europeo?
Ho vissuto gran parte delle mie esperienze formative, sia umane che culturali, in quel lembo estremo di Friuli che giunge a ridosso dell’Isonzo. Quando ero bambino, a una manciata di chilometri da casa mia correva la linea di demarcazione tra mondo occidentale capitalista e mondo orientale comunista: l’intera area era fortemente militarizzata e le campagne vicino a dove abitavo erano disseminate di botole e di misteriose infrastrutture difensive ben mimetizzate tra i boschetti di acacia, mentre nei paesi vicini c’erano caserme che pullulavano di migliaia e migliaia di soldati.
Erano inoltre ancora drammaticamente vivi i ricordi degli eccidi compiuti dai fascisti italiani e delle vendette jugoslave – in sintesi: le foibe, con tutti gli annessi – che ancora in quegli anni alimentavano una mefitica broda di odi contrapposti (e purtroppo ancor oggi se ne avvertono i miasmi). Per non parlare degli sfregi della Grande Guerra visibili sul Carso e in tutto l’Isontino. Ma, risalendo più indietro, nei secoli precedenti quelle terre avevano visto le incursioni dei turchi e ancor prima le invasioni di goti, unni, longobardi; e non dimentichiamo, in direzione opposta, le conquiste romane verso l’Istria, l’Illirico e la regione danubiana, l’espansione dei veneziani e le violenze dei fascisti.
Ho quindi vissuto i decenni della mia formazione sulla Cortina di ferro. Nella narrazione che ingenuamente coglievo da bambino, di là c’erano i nemici, gli slavi barbari, crudeli, resi ancor più temibili e feroci dall’aggravante di essere comunisti. Da piccolo mi sentivo insomma come se mi trovassi in un vicolo cieco, con davanti a me una sorta di finis terrae. Vivendo in quei luoghi percepivo quel che stava al di là come un indistinto, minaccioso spazio bianco, una sorta di immenso orizzonte rimosso.
È anche per questo che poi, crescendo, ho avvertito e tuttora avverto un bisogno tanto profondo di spalancare gli orizzonti, di andar oltre la frontiera: è un qualcosa che ha il sapore di una liberazione, di un’emancipazione da qualcosa di asfittico, di troppo angusto. Forse è proprio anche per questo che, sì, per rispondere in modo compiuto alla domanda precedente, avverto così acutamente il bisogno di partire verso sudest.
Voglio però sottolineare con forza come il territorio goriziano non sia solo un concentrato di storie lacerate e uno scenario di tragici eventi bellici: è anche una terra di scambi e di tenaci e feconde convivenze. Certo il crollo del comunismo, seguito dalla secessione della Slovenia dal corpo multietnico della Federazione jugoslava, ha accelerato un processo di ricomposizione di tutte quelle ferite. L’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea nel 2004 è stato poi un’ulteriore svolta fondamentale di un iter che è culminato con la recente assegnazione a Gorizia e Nova Gorica, insieme, del titolo di Capitale europea della cultura per il 2025. Per chi, come me, ha patito nel profondo quelle lacerazioni, si tratta di un evento quasi commovente.
Questo per molti versi è un libro di viaggio. Attraversando i Balcani e dirigendoti verso l’Armenia sono molti i confini attraversati. Cosa significa per te attraversare un confine?
Quella del viaggio è una sineddoche antica quanto la letteratura: da Gilgamesh, a Odisseo, alla Commedia e oltre. In questo senso, potrei cavarmela abbastanza facilmente concludendo che attraversare un confine, andare oltre la linea che separa me e le mie fragili certezze dalla conturbante molteplicità del mondo significa andare verso quel che non conosco, verso l’altro, per comprenderne e possibilmente condividerne la complessità. Ovvero per capire qualcosa della realtà che mi circonda; in sintesi, per entrare davvero nella vita.
Come cercavo di argomentare poco fa, le dinamiche seriali del turismo di massa rischiano però di negare all’origine quel difficile percorso – anche etico – di conoscenza del diverso: il confronto con l’altro da sé costringe infatti a mettere in discussione le proprie abitudini e le proprie sicurezze. La ripetizione consumistica dell’identico finisce così con l’inibire quella che è forse la vera molla che spinge a partire: lo stupore e la gioia del conoscere.
Nel libro La mente del viaggiatore, lo studioso americano Eric J. Leed, partendo dall’assunto secondo il quale ogni partenza è sempre un distacco, sostiene che «con la separazione da un contesto di riconoscimenti, l’identità sociale del viaggiatore diventa ambigua […] la partenza produce una specie di alienazione»; e aggiunge: «ogni partenza è significativa come ricapitolazione di una storia personale e culturale, capace di dissipare il disgusto provocato da ciò che è troppo familiare».
Mi sono chiesto diverse volte se è anche questo disgusto per ciò che è troppo familiare che mi spinge ad andare oltre la linea. Almeno in parte credo sia così. E a questo proposito non mi scordo certo della celebre sentenza di Nicolas Bouvier, all’inizio di quel libro pulsante di meraviglia che s’intitola La polvere del mondo: «Pensate di andare a fare un viaggio, ma subito è il viaggio che vi fa, o vi disfa».
Quando sento di dover partire, significa quindi che si attiva in me un bisogno più o meno inconscio di disfare me stesso? Oppure addirittura di disfarmi di me stesso? Non è per niente semplice dare una risposta. Su questo non vorrei però essere frainteso: non ritengo affatto che si debba rinnegare e tanto meno estirpare le proprie radici. Questo porterebbe schizofrenicamente a un’assenza d’identità, all’indistinzione, all’insignificanza. Come sostiene Finkielkraut nel saggio L’identità infelice, bisogna andare nel mondo portando ciascuno la propria specificità; meglio però se in modo discreto, non invasivo, non chiassoso, mantenendo la capacità di restare vigili, in ascolto; e soprattutto accogliendo le specificità altrui.
In alcuni passaggi del libro affronti in modo poetico ma
non certo riduttivo tematiche complesse come quella della memoria della prima guerra mondiale, dei conflitti in ex Jugoslavia, il tema delle migrazioni. Di professione sei un insegnante e parte degli spunti per il libro sono stati dati da viaggi fatti insieme ai tuoi figli. Quanto spazio esiste per trasmettere queste conoscenze?
Ma, sai, in definitiva ciascuno parla e scrive della porzione di mondo in cui gli è toccato in sorte di nascere. E forse davvero si può raccontare la propria esperienza solo da quell’angolo visuale. Detto questo, per quel che mi riguarda l’impulso più profondo al partire è, come dicevo prima, il bisogno di conoscere. Nel senso proprio di comprendere, di fare esperienza piena e insomma di vivere a fondo quel che prima ho letto sui libri o visto online e nei film e che, in sostanza, ancora non conosco in modo diretto.
Per il resto, insegno alle medie e i ragazzini sanno essere estremamente ricettivi, soprattutto quando qualcosa li coinvolge davvero. In tutti questi anni mi sono convinto che, nonostante siano letteralmente inondati (oltre che incredibilmente distratti) dalle immagini, abbiano ancora, e ancora tanto, bisogno di sentirsi raccontare delle storie. E io è esattamente questo che cerco di fare: racconto storie, nel modo più avvincente e stimolante possibile. Certo, nelle ore di grammatica è un po’ più complicato; ma in quelle di letteratura, storia e geografia cerco di coniugare precisione, coinvolgimento ed efficacia didattica e, sì, ogni tanto faccio ricorso a qualche esperienza vissuta nei miei viaggi, a qualche dettaglio narrato in prima persona. Aiuta, eccome.
Non che il gioco riesca sempre. Capirai. Tener desta l’attenzione, ampliare gli sguardi, stimolare gli apprendimenti è una sfida quotidiana. Quando funziona e ti accorgi – dalle domande che ti fanno e dalle risposte che danno alle tue sollecitazioni – che la connessione è stabilita, be’, allora la soddisfazione è davvero grande. In questo senso, certo che è maledettamente importante quello che sai; ma, alla fine, quello che davvero rimane agli alunni è quello che sei.
Se poi di fronte non hai i tuoi alunni, ma i tuoi figli, il discorso si fa più delicato e, permettimelo, più intimo. Quello che sei si imprime nel loro percorso di crescita; quello che sai indica una possibile direzione. Non credo in definitiva che si tratti di trasmissione di qualcosa, ma piuttosto di condivisione attenta, aperta e amorevole di esperienze, di ricerca di risposte attraverso ciò che si è vissuto e anche attraverso i luoghi in cui – da soli o insieme – si è camminato e si camminerà.
Per concludere, visto che è di un libro che stiamo parlando, ovviamente è soprattutto attraverso la scrittura che cerco di comunicare quel po’ di esperienza della vita che mi è capitato di acquisire. Tuttavia, per quanto nel mio caso si tratti di versi in gran parte narrativi e vi sia compresa anche una componente diciamo pure divulgativa, quasi da reportage, il compito della poesia non è certo quello di diffondere conoscenze.
Non voglio dilungarmi troppo, ma costruire dei testi, dargli forma, con infinita pazienza e dedizione, soffermandomi magari su minuti dettagli metrici o fonici, mi consente non solo di rivivere le mie esperienze e di approfondirne il significato e la portata; ma mi permette anche di esprimere, attraverso i codici formali della letteratura, un ampio ventaglio di contenuti che spererei un lettore avveduto potesse cogliere e magari apprezzare. E poi, come no, come chiunque abbia una simile propensione, scrivo per lasciare una qualche traccia del mio passaggio sulla terra.
Diciamo che però non sono interessato alla dimensione più tradizionalmente lirica della poesia, per quanto non sia davvero del tutto assente nei miei versi. Avverto infatti il bisogno di allargare gli orizzonti e cercare una versificazione più distesa, inclusiva, attenta alla realtà circostante e, al limite, a come a questa reagisce l’interiorità, intesa come «spazio di una soggettività ferita e incerta, ma resistente» (così Gianluigi Simonetti in un bel saggio di qualche anno fa).
È per questa via, forse, che la mia scrittura si apre al mondo e si adatta al mio modo di viaggiare.