Oliver Frljić, acutamente provocatorio

Un regista teatrale, direttore artistico del Teatro nazionale croato di Fiume, radicale e provocatorio, senza peli sulla lingua e decisamente antifascista. Nostra intervista con Oliver Frljić

22/11/2017, Francesca Rolandi - Fiume

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Oliver Frljić (foto Radio Študent )

Il regista teatrale croato, già direttore artistico del Teatro nazionale croato di Fiume (2014-2016), Oliver Frljić ha presentato per la prima volta in Italia, nell’ambito della rassegna Europa! Europa! di Zona K, il suo spettacolo “La nostra violenza e la vostra violenza”, che, attraverso un linguaggio teatrale radicale e provocatorio, affronta i temi della crisi dei profughi, dell’eredità post-coloniale e dell’incapacità dell’Europa di riconoscere le radici di lungo periodo di un rapporto di subalternità. Nei suoi lavori teatrali Frljić ha affrontato temi scomodi e controversi, quali il rapporto con la memoria delle guerre degli anni ‘90 e le narrazioni nazionaliste negli stati della ex Jugoslavia, attirando su di sé violente critiche e attacchi personali.

Lo abbiamo incontrato per discutere del suo ultimo spettacolo, ma anche della scena culturale croata e, in senso lato, europea.

Il titolo del suo spettacolo, “La nostra violenza e la vostra violenza” tematizza l’esistenza di due poli, il “noi” e il “voi”. Come li definirebbe?

Noi apparteniamo ad una comunità economica in cui il profitto viene massimalizzato. Brecht nel suo testo “Cinque difficoltà nella scrittura della verità” scrive che criticare il fascismo ma non il capitalismo non ha molto senso perché il capitalismo è l’ultima fase del fascismo. Noi siamo coscienti che per mantenere uno sviluppo del nostro sistema dobbiamo condurre in continuazione guerre. Diventa un nostro problema solo quando coloro che sono sull’orlo dell’esistenza vengono in Europa e in questo caso reagiamo ancora con la logica del campo di concentramento, tramite accordi con determinati paesi.

Come si posiziona il suo spettacolo rispetto alle numerose opere che si sono ispirate alla crisi dei profughi? Come è possibile provocare il pubblico trattando di un tema rispetto al quale l’opinione pubblica sembra essersi anestetizzata?

Il mio spettacolo “La nostra violenza e la vostra violenza” ruota intorno al rapporto dell’Europa con il suo passato coloniale e le sue logiche predatorie grazie alle quali le nostre società si sono industrializzate. Oggi facciamo accordi con Erdoğan ma non ci poniamo le domande sulle radici della crisi. Per non parlare dei milioni di persone uccise dall’inizio della Guerra del Golfo, che non sono mediaticamente attraenti. Mi sembra che la crisi dei profughi sia diventata una merce sul mercato teatrale. Io ho cercato di non partire da una posizione eurocentrica e di mostrare che sotto la superficie determinati processi economici producono la crisi. Sono voluto anche uscire dal discorso politically correct che a mio parere è indice di una falsa empatia, perché realmente la vita di coloro che vengono dall’Africa o Medio Oriente non vale quanto quella degli europei.

Come è stato recepito “La nostra violenza e la vostra violenza” nei diversi paesi in cui è andato in scena?

Le reazioni sono state differenti da paese a paese. La prima di questo spettacolo è andata in scena a Vienna, dove la critica teatrale ci ha attaccati anche con posizioni razziste, in particolare è stato sottolineato il fatto che questa critica venisse da noi, dai Balcani. Dopodiché siamo andati in scena in Polonia, dove le critiche teatrali sono state all’unisono positive, ma dove poi abbiamo ricevuto una denuncia per vilipendio dei simboli nazionali e del sentimento religioso. In Germania, dove il teatro è molto logocentrico, un grosso problema è stata la non comprensione del nostro linguaggio teatrale. In Slovenia abbiamo avuto critiche molto buone. A Fiume è andata bene, ma a Spalato abbiamo assistito a forti critiche e al tentativo di impedire la messa in scena. A Sarajevo la direzione del festival Mess, all’interno del quale lo spettacolo era organizzato, ha deciso di chiudere lo spettacolo al pubblico per ragioni di sicurezza, date le minacce ricevuto dai gruppi islamisti. Tuttavia, 100-200 persone si sono date appuntamento davanti al teatro e hanno insistito per entrare, il che rappresenta una vittoria per la società civile bosniaca.

Lei è stato uno degli artisti che si è schierato più attivamente contro l’ascesa del neo-conservativismo e del revisionismo storico in Croazia, in particolare durante il governo di Tihomir Orešković, in carica da gennaio a settembre 2016, durante il quale sono stati vicepremier Tomislav Karamarko, dell’HDZ, e Božo Petrov, di Most. Quali tracce ha lasciato oggi quella che è stata definita una “controrivoluzione”, guidata dall’HDZ di Karamarko?

Sin dal 1991 la Croazia ha aperto le porte al revisionismo storico, si pensi alla formazione paramilitare HOS [che si richiamava apertamente alla simbologia dello Stato indipendente croato (NDH)] e alla sua successiva integrazione nell’esercito croato oppure alla distruzione dei simboli antifascisti. La fase finale di questo processo si è avuto con l’arrivo al governo di Tomislav Karamarko e la nomina di Zlatko Hasanbegović a ministro della Cultura. Io, che poco prima sono diventato direttore del Teatro nazionale di Fiume, ho pensato che dovessimo esprimerci chiaramente e che il nostro compito come istituzione statale fosse di fermare questa fascistizzazione della Croazia, per quanto un teatro possa fare. E quindi tutto il programma ha ruotato intorno a un conflitto ideologico aperto con tutto ciò che il governo rappresentava e contro i suoi tentativi di riabilitazione dell’NDH.

In quale fase si trova oggi la Croazia?

Hasanbegović ha provocato dei danni che non si potranno così facilmente sanare, in particolare introducendo determinate personalità nei vari organismi culturali che ora si trovano in posizioni decisionali. Andrej Plenković sicuramente non ha né il coraggio né la capacità di intraprendere un processo di smantellamento di tutto il sistema creato dal suo predecessore. Durante questo breve governo la destra ha avuto un semaforo verde, il messaggio che è stato lasciato passare era che tutto fosse lecito. D’altro canto questa nuova eruzione del nazionalismo è una maschera dietro la quale si nascondono determinati processi economici.

Quello che sta succedendo con la Agrokor mostra che la Croazia è stata fondata per saccheggiare la proprietà sociale attraverso una nuova élite, che non ha mai avuto nessun interesse per idee di uguaglianza e ridistribuzione del bene pubblico. Questa élite ha distrutto la classe lavoratrice facendole perdere la sua coscienza di classe e sostituendola con una coscienza nazionale. Così oggi i lavoratori croati non comprendono che le oligarchie sono i loro nemici e che loro hanno molto più in comune con i lavoratori in Serbia o Bosnia Erzegovina.

Mi affascina il masochismo di questo popolo, quanto sia in grado di sopportare e quanto questi valori nazionali siano stati interiorizzati. La nostra società ha la guerra come valore costitutivo ed è ancora importante il nome che uno porta e dove è nato. La comunità teatrale croata non ha mai articolato un discorso contro la guerra, è sempre stato sottinteso che si dovesse sostenere quella guerra e la conseguente politica bellicista. Io credo che ogni guerra sia una sconfitta di per sé e che ogni pace sia migliore.

Nella distruzione e nazionalizzazione della classe operaia la Croazia ha anticipato un trend europeo che ora vediamo in atto?

Decisamente. Potrei dire con ironia che la Croazia almeno in qualcosa abbia primeggiato se non fosse che questi processi sono iniziati prima e sono stati più intensi in Ungheria e Polonia. Noi ci comportiamo come se il fascismo fosse stato vinto, mentre, in realtà con il fascismo abbiamo vinto solo una battaglia ma non la guerra. Il fascismo odierno europeo vuole prendere le distanze dai fascismi storici, ma in realtà ciò che lo accomuna a questi ultimi è il fatto che i diritti di alcuni vengano limitati, attraverso quello che io chiamerei una “presunzione di colpevolezza”.

Oggi in Europa orientale i paesi che primeggiano in questo trend, Polonia e Ungheria, sono stati, a fase alterne, anche i paesi più liberali dell’orbita sovietica…

Sì e sono stati paesi dove esisteva un’opposizione molto forte al sistema del partito unico. Io credo che in tutti i paesi dell’ex blocco sovietico un tipo di non libertà sia stato sostituito da un altro. Qui vediamo che la democrazia è stata usata come uno strumento per mantenere lo stesso modus di pensiero, anche se oggi anziché il Partito comunista c’è Diritto e giustizia, come in Polonia. Ma mi spaventano anche i paesi dove un determinato politico ha un sostegno così ampio come Vučić in Serbia.

Lei è stato attivo in diversi paesi dell’area post-jugoslava. Come vede il peggioramento delle relazioni che caratterizza gli ultimi anni, in particolare dalla prospettiva croata?

In Serbia e Croazia ci sono state precedentemente fasi di liberalizzazione. Per esempio, per me è stato molto importante quando l’ex presidente Stjepan Mesić ha mandato in pensione alcuni generali, mostrando che l’esercito non può partecipare alla vita politica, come è normale in ogni paese democratico. E sempre Mesić ha per esempio costretto alcune istituzioni statali a togliere i crocifissi. Ma nessuno ha osato smantellare i servizi segreti in Croazia e fare i conti con la popolazione dei veterani e l’esercito. Noi siamo ancora ostaggio di coloro che sono stati in guerra e che si trovano al di sopra della legge, come si è visto durante la protesta dei veterani in Savska ulica. In Croazia nessuno osa parlare criticamente della guerra e l’HDZ sfrutta questa mancanza di discorso critico. Inoltre i veterani servono come un’ala paramilitare che l’HDZ utilizza per la destabilizzazione di governi nei quali è all’opposizione.

In Croazia il partito che ha saccheggiato il paese, lo ha portato in guerra e ha creato non so quante migliaia di invalidi di guerra è ancora al potere. In generale, in tutta l’area della ex Jugoslavia la macchina mediatica è stata responsabile di crimini mediatici, ma nessuno ha pagato né in maniera formale, né informale. In questo contesto, dall’ambito educativo a quello mediatico, è molto difficile creare un sistema valoriale diverso, dal momento che gli apparati ideologici riproducono la stessa matrice nazionalista.

Come valuta la sua esperienza alla direzione del Teatro nazionale croato (HNK) di Fiume?

Per quanto riguarda la mia esperienza come direttore dell’HNK, per me è stato sconfortante il fatto che nessuno degli altri cinque teatri nazionali abbia cercato di fare qualcosa di simile. Io credo che il teatro come medium sia più forte quando utilizza una contro-memoria e che debba ricordare quello che viene dimenticato negli altri segmenti della società, come fu per le tragedie antiche. Per questo ho fatto uno spettacolo sulla vicenda di Aleksandra Zec, la ragazzina serba uccisa da riservisti del ministero dell’Interno croato, perché questo non fa parte della storiografia ufficiale in Croazia. Noi conosciamo le vicende di coloro che sono morti per mano serba nella guerra degli anni ‘90 ma non abbiamo un parco intitolato ad Aleksandra Zec, né conosciamo i nomi di coloro che sono stati espulsi dalla Krajina quando l’Operazione Tempesta è iniziata. Di tutto questo i ragazzi non leggono nei manuali scolastici. Io credo che il teatro sia il posto per questi diversi ricordi e per la pietà.

La città di Fiume ha negli ultimi anni costruito una propria immagine di città aperta alle diversità, che sarà centrale anche nel programma di Rijeka 2020, quando sarà Capitale europea della cultura. Lei si è sentito sostenuto durante gli anni alla direzione del Teatro nazionale cittadino?

La mia esperienza è stata ambivalente. Io sono arrivato a Fiume credendo in quell’immagine di diversità rispetto al resto della Croazia. In città ho vissuto aggressioni fisiche, mi è capitato che qualcuno mi sputasse addosso per strada, ma ho sperimentato anche un grande sostegno, succedeva che la gente mi fermasse per dirmi di continuare così, tutto nell’arco di 200 metri. Reputo positivo che sia emersa l’esistenza, anche in quella società, di forze ultraconservatrici e che gli abitanti sappiano chi sono i loro vicini. Ora sta a loro decidere se schierarsi per una pacifica convivenza oppure confrontarsi a livello politico con queste forze che vogliono una omogeneizzazione nazionale della città, che non c’è mai stata. Fiume è sempre una città multietnica, l’industria è fallita, molte cose non funzionano, ma quella convivenza di diverse componenti, arrivate in periodi diversi, da quello austro-ungarico a quello jugoslavo, funziona.

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