Olanda e Srebrenica, responsabilità limitata
Delusione e rabbia tra le associazioni delle vittime per la sentenza della Corte suprema olandese sugli eventi di Srebrenica del luglio ‘95. La corte ha infatti stabilito che lo stato ebbe “una responsabilità molto limitata” per la morte di circa 350 uomini bosniaci musulmani
Doveva essere un altro passo avanti verso la giustizia, negli anni in cui i processi – nazionali e internazionali – sui crimini di guerra in Bosnia Erzegovina vanno concludendosi. Invece la sentenza della Corte Suprema dell’Olanda, emessa lo scorso 19 luglio, ha generato delusione e rabbia tra associazioni di vittime e società civile, lasciando un senso di incompiutezza giuridica e storica sugli eventi di Srebrenica del luglio 1995.
La Corte suprema, organo di terza e ultima istanza della magistratura ordinaria olandese, ha infatti stabilito che lo stato ebbe “una responsabilità molto limitata” per la morte di circa 350 uomini bosniaci musulmani nell’area di Srebrenica. Questi uomini furono catturati – e in seguito uccisi – dalle milizie della Republika Srpska nel pomeriggio del 13 luglio, due giorni dopo l’irruzione delle stesse forze serbo-bosniache nella cittadina che assediavano da tre anni. Lo stato olandese era accusato per l’operato del Dutchbat, il contingente di circa 400 soldati in forza ai caschi blu ONU, che dal 1994 si trovava di stanza in una fabbrica abbandonata di Potočari presso Srebrenica. La base di Potočari era stata istituita per difendere quell’area, una delle sette “zone protette” (safe areas) che avrebbero dovuto difendere la popolazione civile “con tutti i mezzi necessari, incluso quello della forza”, secondo quanto affermava la risoluzione 819 del Consiglio di Sicurezza dell’aprile 1993.
Si chiude dunque con una condanna ridotta il percorso giudiziario iniziato nel giugno 2007 – e passato attraverso due gradi di giudizio, nel 2014 e nel 2017 – in seguito alla denuncia dell’associazione Madri di Srebrenica e di altri familiari e sopravvissuti al massacro. Come in passato, la Corte ha limitato la propria competenza alle fasi successive all’11 luglio 1995 – quando in seguito all’improvvisa evacuazione della base il Dutchbat tornò sotto il controllo effettivo del governo olandese – ma ha escluso l’intera fase precedente, quando il battaglione era sotto l’egida dell’ONU, che per una consolidata e discussa prassi gode dell’immunità garantita alle organizzazioni internazionali.
La sentenza
La sentenza definitiva conferma alcuni elementi dei verdetti precedenti. Tra questi, si afferma che il Dutchbat “agì irregolarmente” nell’evacuazione dei circa 350 uomini bosniaci musulmani che erano riusciti a nascondersi nella base di Potočari dopo l’11 luglio. La stessa sentenza ricorda che in totale furono circa 25.000 le persone che cercarono rifugio presso la sede del Dutchbat. Il 12 luglio il battaglione fece evacuare tutta l’area della base, pur essendo a conoscenza che le forze serbo-bosniache stavano separando gli uomini adulti dalle donne e dai bambini e potendo prevedere che avrebbero commesso dei crimini. La sentenza, come quelle precedenti, ha assolto il Dutchbat per questa condotta, affermando che “anche se avesse smesso di coordinare l’evacuazione, i serbo-bosniaci avrebbero continuato a separare gli uomini dagli altri sfollati e li avrebbero portati altrove”.
Come nelle precedenti sentenze, si attribuisce invece al Dutchbat la responsabilità di avere evacuato e di fatto consegnato agli assedianti i 350 uomini della cui presenza i serbo-bosniaci erano rimasti all’oscuro. Se i soldati olandesi avessero aiutato questi uomini, “con ogni mezzo necessario” come era loro mandato, questi avrebbero potuto fuggire e salvarsi. Ma le reali possibilità di salvezza erano molto basse, afferma la sentenza, a causa dell’accerchiamento delle milizie serbo-bosniache e delle scarse possibilità di un qualche tipo di supporto della comunità internazionale – ovvero una copertura aerea, uno dei punti rimasti oscuri della vicenda di Srebrenica -.
La sentenza quantifica, con cinica solerzia, queste possibilità di salvezza: “dieci per cento”. Questo è uno dei punti più importanti e contestati del verdetto: i due giudizi precedenti avevano infatti stabilito un trenta per cento di possibilità di salvezza. A questi numeri corrisponde dunque la responsabilità civile degli accusati, e corrisponderanno i risarcimenti alle vittime da parte del governo olandese, che dunque saranno sensibilmente ridotti.
La condanna per un dieci per cento – o, se si preferisce, l’assoluzione per un novanta per cento – sembra contraddire non solo lo spirito dei gradi di giudizio precedenti, ma anche quello degli altri casi affrontati dalla giustizia olandese su Srebrenica – quelli di Nuhanović e Mustafić, in cui si affermò una dottrina più incisiva. Questo esito contraddice inoltre numerose prove e giudizi storici che mostrano come l’inerte passività del Dutchbat – con spunti di aperta connivenza, la cui immagine simbolo resterà per sempre il brindisi tra il generale serbobosniaco Ratko Mladić e il comandante del Dutchbat, Tom Karremans, la sera dell’11 luglio – abbia contribuito in modo determinante, per quanto indesiderato, al piano di Radovan Karadžić e Ratko Mladić per eliminare la popolazione musulmana locale. “Collaboratori involontari" di crimini di guerra: così i soldati del Dutchbat venivano definiti nel noto e dettagliato rapporto dell’Istituto per la Documentazione di Guerra Olandese (NIOD) che nel 2002 portò addirittura alle dimissioni del governo del paese, ma che non ha trovato molto riscontro in ambito giudiziario.
Vie d’uscita
Tra le associazioni di familiari delle vittime e testimoni, delusione e frustrazione sono state unanimi dopo la sentenza. “Una presa in giro”, ha affermato Ćamil Duraković, sopravvissuto al massacro e già sindaco di Srebrenica tra il 2012 e il 2016. La presidente delle Madri di Srebrenica, Munira Subašić, ha denunciato che la Corte olandese non ha offerto la traduzione della lettura della sentenza ai numerosi rappresentanti delle associazioni presenti in sala e parti civili del processo. Subašić ha poi accusato i giudici del processo per non aver accolto sufficienti testimonianze degli stessi soldati olandesi, né le prove a disposizione del ministero della Difesa. Insieme a altri esponenti delle associazioni coinvolte, Subašić ha preannunciato il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, commentando che “nei casi di Nuhanović e Mustafić è stata riconosciuta una responsabilità del 100%. Dovranno riconoscerla anche per questo caso”.
Una via d’uscita, almeno giudiziaria, per quei fatti di luglio 1995 sembra di nuovo allontanarsi. Manca una riparazione definitiva, prosegue la ritraumatizzazione di coloro che sono chiamati a testimoniare e obbligati ad attivarsi per ottenere giustizia. Si vanifica la possibilità di guardare al futuro e ai problemi quotidiani senza il peso costante delle memorie, delle identità, delle competizioni tra diverse e legittime sofferenze che ancora abitano tante parti della Bosnia Erzegovina a quasi venticinque anni dalla fine del conflitto. Ma l’“assoluzione per il novanta per cento” della giustizia olandese ci ricorda che nemmeno in parti dell’Europa e della comunità internazionale si sono fatti i conti con le proprie responsabilità, con missioni di pace male organizzate e male armate, con giochi di prestigio geopolitico sulla pelle di popolazioni distanti per geografia e gerarchia.
A rileggere la sintesi ufficiale della sentenza , colpisce la ripetizione di ipotetici del terzo tipo, di senso di ineluttabilità: “anche se si fossero fermati”, “avrebbero continuato l’evacuazione”, “il destino non sarebbe cambiato”, “non avrebbero potuto nascondersi”, “li avrebbero lo stesso separati”, “li avrebbero portati via”. Vengono alla mente le parole con cui l’indimenticato Luca Rastello descrisse, in quel manuale di memorie e comprensione storica sul conflitto jugoslavo che è La Guerra in Casa, i tragici eventi della Bosnia orientale e il sangue versato a Srebrenica con la complicità della comunità internazionale: “I «piani di pace» occidentali […] prevedono un’omogeneizzazione etnica della Bosnia orientale, un processo che garantisce sì stabilità alla regione ma che non è realizzabile pacificamente. Anche solo per realismo politico, dunque, in vista della stabilizzazione di un’area di crisi, si tratta allora di «lasciar fare», di favorire in maniera invisibile «l’inevitabile corso degli eventi […] L’istituzione delle aree protette acquista il senso di un congelamento di ogni iniziativa militare in difesa della convivenza multietnica. Creare sacche omogenee e poi scambiarle è anche un modo per realizzare la «stabilità» desiderata da coloro che gestiranno in futuro i mercati dell’area balcanica”.