Odissea nei Balcani

Il viaggio di migranti e richiedenti asilo attraverso i Balcani rischia di trasformarsi in una crisi umanitaria. I bisogni delle categorie più vulnerabili, le denunce di violenze da parte della polizia bulgara. Reportage

26/10/2015, Andrea Oskari Rossini -

Odissea-nei-Balcani

La marcia verso il valico di Berkasovo (Foto AOR)

(Questo reportage è stato pubblicato anche da il Manifesto il 25 ottobre 2015)

Un gruppo di ragazzi afgani esce dalla foresta e si dirige verso il centro di Dimitrovgrad, nella Serbia meridionale. Sono laceri, sporchi, non portano nulla tranne un occasionale sacchetto di plastica. Le storie che raccontano sulla Bulgaria, che hanno appena attraversato, assomigliano a un film dell’orrore. “I cani delle guardie di frontiera ci inseguivano”, mi racconta Zabiullah, di Nangahar. “Sparavano, quindici di noi sono stati catturati, uno è morto. Siamo rimasti nella foresta per quattro giorni senza cibo”. Gli altri annuiscono gravemente. L’interprete dal farsi incalza: “Sei sicuro che sia proprio morto?” “Sì, sicuro. È successo domenica”.

Mancano un nome, e un luogo, per validare le testimonianze sulla nuova uccisione di un migrante in Bulgaria. Ma tutti i racconti, anche quelli forniti da altri gruppi che incontriamo, concordano nel descrivere un quadro di sistematica violenza perpetrata dalla polizia di quel paese nei confronti dei profughi, in particolare nella regione al confine con la Turchia.

Salar, 25 anni, che lavora come volontario a Dimitrovgrad, mi dice che sono giorni che ascolta storie di questo tipo. “Raccontano che quando la polizia li cattura, in Bulgaria, toglie loro tutto, soldi, telefonino, tutto. Poi lo vedi, in che condizioni arrivano.”

Alcuni mostrano i segni delle percosse, o dei morsi dei cani. Un curdo siriano, Ibrahim, di Kamishlié, uscito nel frattempo dal centro di identificazione con la moglie e i figli, si unisce per spiegare che in Bulgaria è stato detenuto per giorni “per nessun motivo”.

Dragana Golubović, del Commissariato serbo per i Rifugiati, ci spiega che a Dimitrovgrad arrivano di media tra le 1.500 e le 2.000 persone alla settimana, quasi tutti giovani, molti minorenni. Non ci permette di entrare nel centro di identificazione dove, come ci spiegano i volontari all’esterno, le condizioni sono “molto spartane”. La permanenza dura solitamente poche ore. Dopo l’identificazione, ai profughi viene fornito un permesso di 72 ore per attraversare il territorio serbo. Fuori dal centro ci sono un autobus, e alcuni taxi. Andare a Belgrado costa 25 euro con l’autobus, 200 con il taxi. Intorno ai migranti della rotta balcanica fiorisce una discreta economia, anche in questo centro sperduto del meridione serbo. Molti afgani però non hanno più nulla, tranne i vestiti sporchi di fango, e alcuni si guardano intorno smarriti. I volontari presenti cercano di aiutare, ma non sembrano bene accolti dalla gente del posto, che forse li considera come concorrenza. Arriva anche la polizia, che fa smontare una tenda “no border” preparata accanto al furgoncino con i vestiti e i generi di conforto. Nella serata, la situazione sembra risolversi.

Preševo

A Preševo, 200 chilometri da qui, al confine tra Serbia e Macedonia, la situazione è diversa. I flussi, anzitutto, sono molto più consistenti. “Lunedì scorso sono entrate 8.000 persone, ma la media è di 5/6.000 al giorno”, mi spiega Slobodan Savović, responsabile del centro di identificazione “One Stop Centre” per il Commissariato Serbo per i Rifugiati. “Dall’8 luglio, quando abbiamo aperto”, dice Savović accompagnandomi all’interno della struttura, “sono passate 200.000 persone”.

Berkasovo, i tendoni a ridosso del confine con la Croazia (Foto AOR)

Berkasovo, at the border crossing between Serbia and Croatia (Photo AOR)

I profughi si incolonnano in lunghe file fuori dalla ex manifattura di tabacchi. Dopo i controlli con il metal detector, e il sacchettino di cibo fornito dalla Croce Rossa, le persone vengono registrate e ricevono il permesso di tre giorni. “Possono anche fare domanda di asilo, spiega Savović, ma in pratica non lo fa nessuno.”

Diversamente da Dimitrovgrad, qui la stragrande maggioranza delle persone in fila viene dalla Siria. Sono famiglie, e ci sono tantissimi bambini. Per i siriani, l’incubo non è stata la Bulgaria, ma il breve tratto di mare tra Turchia e Grecia. La cifra da pagare ai trafficanti, per salire sui gommoni, varia tra i 1.000 e i 1.500 dollari a testa. I mafiosi però non salgono. Spiegano come funziona il motore, e indicano la riva da raggiungere. “Ci ha salvati la marina greca, mi spiega un uomo che aspetta con i suoi bambini. Il canotto stava affondando, ci hanno portato loro a Mitilene.”

Anche a Preševo le condizioni sono molto spartane. L’intero sistema dell’accoglienza si basa sulla previsione che i profughi resteranno solo poche ore. Fuori dal centro di identificazione, i venditori dei biglietti per il confine con la Croazia attendono impazienti. Il viaggio costa 35 euro. Gli autobus, alcune decine, partono in continuazione. Le informazioni, e il conforto, vengono forniti anche qui prevalentemente dai volontari. Tra gli altri ci sono anche Vjoleta e Goran, del gruppo delle Donne in Nero di Belgrado, (“Siamo stati solidali con i rifugiati delle guerre nei Balcani, siamo solidali con i migranti”), e Vanja, una ragazza bosniaca rifugiatasi in Svizzera durante le guerre nei Balcani, che da mesi aiuta qui i migranti insieme alla sua associazione, Borderfree.

Berkasovo

Berkasovo, il cordone dei poliziotti croati al valico di confine (Foto AOR)

Berkasovo (Photo AOR)

Preševo, una cittadina di poco più di 10.000 abitanti, a maggioranza albanese, è la principale porta di ingresso in Serbia nella rotta balcanica. I diversi flussi, quello proveniente dalla Macedonia e quello proveniente dalla Bulgaria, confluiscono poi a Berkasovo, poco a nord di Šid, da dove i profughi entrano in Croazia. Se a monte, in Austria, in Slovenia, o nella stessa Croazia, i confini vengono chiusi, anche temporaneamente, o i flussi vengono rallentati, è a Berkasovo che succede il putiferio. Qui i migranti devono percorrere alcuni chilometri a piedi per arrivare al valico di frontiera che, giovedì scorso, assomigliava a un girone dantesco. Fango, sporcizia e detriti circondano dei tendoni che portano verso i recinti e i cordoni della polizia croata che delimitano il confine. La gente si ammassa, spinge, i poliziotti urlano cercando di far passare le persone in piccoli gruppi. Inevitabilmente, le famiglie vengono separate, mentre i volontari da entrambi i lati delle barricate cercano di riunire i bambini con il proprio gruppo. Proprio i bambini, insieme alle donne e agli anziani, sono quelli che più soffrono in questa situazione. Inspiegabilmente, non c’è alcun accesso prioritario per loro, o in generale per le categorie più vulnerabili. Restano per ore sotto i tendoni, al freddo e nella sporcizia, aspettando di poter continuare il viaggio. Se dovessero attendere più di poche ore, nessuno sa esattamente cosa potrebbe succedere.

Il flusso di rifugiati e migranti che attraversa la penisola balcanica si sta lentamente trasformando in una crisi umanitaria, di grandi proporzioni. Le condizioni lungo il cammino non stanno migliorando, ma peggiorano, insieme alle condizioni del tempo. L’unica cosa che non sembra cambiare è la determinazione di questi popoli in fuga. Le donne siriane in cammino, fuori di sé dalla stanchezza, con i figli in braccio, hanno lo sguardo deciso, come fossero in una missione. È lo stesso sguardo dei ragazzi afgani. È stata data loro una speranza, non li fermano né il mare, né le botte dei poliziotti bulgari, né i muri di Orbán.

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