Obiettivo raggiunto
Il presidente russo Medvedev dichiara la fine delle operazioni militari. Mosca ottiene molto più dello status quo, mentre Tbilisi vede sfumare il sogno occidentale. L’Unione Europea e i conflitti congelati del Caucaso, nostro commento
Questo articolo viene pubblicato oggi contemporaneamente da Osservatorio Balcani Caucaso e da l’Adige
Mikhail Saakashvili ha fatto male i suoi conti. La crisi aperta con l’attacco alle forze separatiste in Ossezia del Sud non si è sviluppata come il presidente georgiano aveva previsto. L’Occidente è rimasto a guardare, la Russia no. La reazione di Mosca è stata furibonda, estendendosi in poche ore all’intero territorio georgiano. Poi finalmente, nella giornata di ieri, il mondo ha tirato un sospiro di sollievo. Con un breve comunicato di fronte alle telecamere, il presidente russo Medvedev ha dichiarato la fine delle operazioni militari: "L’obiettivo è stato raggiunto, l’aggressore in Ossezia del Sud è stato punito. Ora possiamo tornare a garantire la sicurezza delle forze di pace russe e dei nostri connazionali". La Georgia si sveglia bruscamente dal sogno occidentale, mentre appare già chiaro che la Russia ha ottenuto molto di più della semplice restaurazione dello status quo.
La guerra di questi giorni rappresenta l’esito prevedibile di un conflitto a bassa intensità che da quasi 20 anni vede confrontarsi Mosca e Tbilisi nella regione. Nel 1991, al momento della proclamazione dell’indipendenza georgiana, i separatisti in Ossezia del Sud, sostenuti da Mosca, hanno reclamato il diritto all’indipendenza dalla Georgia. Fino ad oggi la regione ha mantenuto uno status di indipendenza de facto, non riconosciuta da alcun membro della comunità internazionale.
La tensione è cresciuta dopo l’elezione in Georgia di Mikhail Saakashvili, nel 2004. Il nuovo presidente ha immediatamente auspicato il ritorno dell’Ossezia del Sud, come anche dell’Abkhazia (altra regione separatista nel nord-ovest del paese), sotto controllo georgiano. Il diritto internazionale dà ragione a Tbilisi, entrambe le regioni facevano infatti parte dei confini amministrativi georgiani così come definiti ai tempi dell’Unione Sovietica. Mosca, però, insiste sul fatto che la questione dell’Ossezia del Sud dovrebbe essere considerata alla stessa stregua di quella del Kosovo. Oppure, meglio ancora, che non venga affatto affrontata. Per la Russia è infatti preferibile una situazione di stabile instabilità, che rappresenta il freno migliore di fronte alle ambizioni filo-atlantiche e filo-occidentali dei propri vicini.
Negli anni scorsi la Georgia ha intrapreso un vasto programma di ammodernamento militare, sostenuto dagli Stati Uniti anche in vista della partecipazione del Paese alla "coalizione dei volenterosi" in Iraq. La settimana scorsa il presidente Saakashvili deve aver pensato che l’alleanza con gli USA fosse ormai abbastanza forte da poter sostenere una propria iniziativa militare in Ossezia. La speranza è svanita in poche ore. La posizione georgiana è apparsa subito come velleitaria di fronte ad un rapporto di forze sul terreno chiaramente a favore di Mosca. Il risultato è sotto i nostri occhi. Ma avrebbe potuto essere anche peggiore. Mentre si contano i morti, i feriti, le migliaia di profughi provocate da questa ennesima guerra sul suolo europeo, molti si chiedono cosa sarebbe successo se a Bucarest la Nato avesse accolto la domanda di adesione di Tbilisi. L’Alleanza si basa sulla solidarietà di tutti i membri nel caso di un attacco ad uno di essi. Se la Georgia fosse stata ammessa nel club, sarebbe stato difficile cavarsela con qualche dichiarazione.
Nella speranza che sia finita, questa guerra non ha risolto nulla. Il problema di fondo rimane. E’ quello dei numerosi conflitti rimasti congelati nello spazio post-sovietico. Non si tratta solo della questione osseta. Ci sono anche l’Abkhazia, la Transnistria e il Nagorno Karabakh. Questa guerra ha permesso ai russi di dare una dimostrazione di forza, ribadire che sono la grande potenza senza il cui accordo non possono essere alterati i confini o gli equilibri attuali. Se le soluzioni militari non sono certo accettabili, non è neppure concepibile continuare ad ignorare questi conflitti. Quest’area, a ridosso dell’Unione Europea, è di fondamentale importanza non solo per questioni energetiche, ma per la stabilità stessa dell’Unione. Se Bruxelles non affronta con una politica complessiva i rapporti con la Russia e la situazione nel Caucaso, rischia di ripetere gli stessi []i commessi nei Balcani negli anni ’90. E di pagarne gli stessi prezzi. E’ necessaria una forte iniziativa diplomatica che permetta di affrontare e definire queste crisi con tutti gli attori coinvolti. Con la forza delle parole, non delle armi. Anche se adesso sarà più difficile.