Nuove scosse nei Balcani

Paolo Bergamaschi è consulente di politica estera presso il gruppo dei Verdi presso il Parlamento Europeo. E’ reduce da un viaggio attraverso i Balcani durante il quale è stato anche ospite dell’iniziativa "Danubio: l’Europa si incontra"

08/10/2003, Redazione -

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I Balcani

I Balcani

Di Paolo Bergamaschi
C’è una linea di faglia ancora attiva che attraversa i Balcani. Parte da Banja Luka, in Bosnia-Erzegovina, passa per Podgorica, capitale del Montenegro, e arriva a Pristina, in Kosovo. Quando questa faglia tornerà a muoversi, un nuovo terremoto scuoterà l’area della ex-Jugoslavia risucchiando le diplomazie internazionali in un vortice la cui forza è ancora tutta da decifrare.
Arrivo in Montenegro accompagnando Joost Lagendijk, eurodeputato olandese incaricato dal Parlamento Europeo di stendere la relazione annuale sul Processo di Associazione e Stabilizzazione per i paesi dell’Europa Sud Orientale. All’indomani del conflitto del Kosovo, nel 1999, l’Unione Europea per evitare di ripetere gli []i degli anni precedenti decide di dar vita ad una politica coerente ed efficace per l’intera regione cercando di proiettare sviluppo, democrazia e stabilità nelle nuove repubbliche nate dal disfacimento della Jugoslavia. Lo fa offrendo accordi bilaterali di associazione a ciascuno dei paesi dei Balcani occidentali (Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia-Montenegro, Macedonia più Albania) e mettendo a disposizione un cospicuo pacchetto di fondi di assistenza, cooperazione e ricostruzione per sostenere la transizione economica e politica e facilitare nel lungo termine l’integrazione nelle strutture europee. A Pogorica, chiamata Titograd all’epoca della Jugoslavia, mi attende Rada Gavrilovic vecchia amica che con Alexander Langer nei primi anni novanta aveva cercato di ristabilire e rinsaldare i legami della società civile jugoslava per controbilanciare la follia bellica delle elite nazionaliste che ha poi portato il paese al massacro. Lavora, oggi, per la Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) curando progetti sui diritti dell’uomo. Il Montenegro è l’unica delle sei repubbliche che componevano la Jugoslavia ad essere rimasta con la Serbia. Nel 1997 per arginare ed indebolire Milosevic l’UE e gli USA cominciarono ad alimentare le spinte indipendentiste dei leader politici locali salvo poi fare precipitosamente retromarcia una volta caduto e rimosso il dittatore serbo. Con la mediazione europea lo scorso anno le autorità di Belgrado e Podgorica hanno siglato un accordo che ha dato vita alla nuova Federazione di Serbia e Montenegro. Si tratta, però, di un matrimonio a tempo poiché dopo tre anni le due repubbliche hanno la facoltà rescindere tale accordo e dichiarare l’indipendenza. In un affollato ristorante del centro Rada ci racconta di un paese povero di soli 600.000 abitanti in grave difficoltà economica dove la criminalità organizzata penetra le strutture dello stato. "E’ ormai troppo tardi per fermare la spinta indipendentista", dice, "anche se i problemi in realtà sono altri". In Serbia la moneta è il dinaro, in Montenegro l’Euro. Pagando il conto all’uscita posso facilmente costatare come a fronte di una stipendio mensile medio di 250 Euro il costo della vita non è molto lontano da quello italiano. Gli incontri del giorno seguente con i vari ministri del governo montenegrino mi confermano la situazione di "separati in casa" che vivono con le autorità serbe. Nel febbraio di quest’anno è stata adottata sotto pressione internazionale e senza alcuno entusiasmo la Carta Costituzionale che ha dato vita alla nuova federazione con Belgrado ma nella pratica corrente il governo di Podgoriza si attiene al minimo indispensabile, quasi boicottando dietro le quinte, per rallentare la creazione delle nuove strutture statali in attesa del referendum sull’auto-determinazione che comunque verrà convocato al termine dei tre anni previsti.

Un fuoristrada dell’Unione Europea ci accompagna verso il confine con il Kosovo. La strada impervia tra gole e canyon mozzafiato ci mostra la bellezza della montagna montenegrina in tutto il suo splendore. Risaliamo dall’Adriatico il corso della Moracia, il fiume che attraversa Podgorica, superando poi lo spartiacque che porta nel bacino idrografico del Danubio che sbocca più avanti, a migliaia di chilometri di distanza, nel Mar Nero. Dopo pochi minuti di viaggio fraternizziamo con gli autisti che una volta rotto il ghiaccio ci confidano di appartenere alla minoranza serba, in aperto contrasto con l’attuale leadership montenegrina. "I Serbi di Montenegro" sostengono "non accetteranno mai l’indipendenza di Podgorica da Belgrado". I sondaggi dicono che il margine tra i pro-indipendenza e gli anti è risicato. Una dichiarazione unilaterale potrebbe avere conseguenze imprevedibili. Imponendo l’accordo triennale fra le due parti l’Unione Europea ha voluto impedire una rottura traumatica ma non è detto che in questo breve lasso di tempo si sanino le ferite e l’opinione pubblica sia più disponibile al divorzio finale.
Arriviamo al confine che è già buio. Là ci attende un auto delle Nazioni Unite. In base alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 1244 che nel 1999 ha posto fine alla guerra il Kosovo è ancora una provincia della Serbia che dovrebbe godere del più ampio regime di autonomia. Le guardie albanesi che controllano i documenti ci riportano alla realtà: il confine amministrativo si è trasformato in una vera e propria frontiera che separa quasi ermeticamente il Kosovo dalla Serbia e dal Montenegro. Prima di ripartire per Pristina, seconda tappa del nostro viaggio, il conducente albanese della nuova vettura conversa in serbo amichevolmente per qualche minuto con gli autisti dell’altra auto. Transitiamo per Pec dove si trova il contingente di pace italiano. La presenza militare passa quasi inosservata. Arriviamo a Pristina che è notte fonda accolti da un immenso poster con il volto dell’ex presidente americano Bill Clinton appeso su uno degli edifici del boulevard a lui dedicato. Qui tutti lo acclamano ancora come il liberatore degli Albanesi del Kosovo dal giogo di Belgrado.
La luce del mattino successivo mette a nudo di nuovo spietata la città in tutta la sua bruttezza. Non riesco a trovare in Europa una capitale più insignificante di Pristina con i suoi edifici anni sessanta di cemento armato in stile sovietico. Incontriamo i vari rappresentanti delle agenzie delle Nazioni Unite che da quattro anni governano questa entità ancora indefinita dal punto di vista diplomatico. Il processo di ricostruzione è ormai terminato e il potere civile sta gradualmente passando alle neonate istituzioni di autogoverno sotto la supervisione internazionale, in attesa di conoscere lo status finale. Il primo ministro albanese Rexhepi si mostra nervoso. Vorrebbe ritardare l’inizio dei colloqui con Belgrado previsti per novembre. "Il Kosovo è di fatto indipendente" ci conferma "non abbiamo alcuna intenzione di ritornare sotto alla Serbia". "Vorremmo che il potere ci venisse trasferito più velocemente", continua, "perché la situazione economica si sta facendo insostenibile". Si calcola che in Kosovo il tasso di disoccupazione raggiunga il 50%. Su due milioni di abitanti il 54% ha meno di 23 anni. Se dovesse oggi cessare l’aiuto internazionale un’ondata migratoria di proporzioni colossali fatta di gente obbligata a cercare un futuro migliore si riverserebbe nel resto d’Europa. Il presidente del Kosovo Ibrahim Rugova, storico leader della comunità albanese ci accoglie nella sua residenza privata. Anche lui sostiene che prima di negoziare con Belgrado occorrerebbe riconoscere l’indipendenza del suo popolo per potere discutere da "uguali". Al momento del congedo, come da copione con tutti gli ospiti, ci fa dono di alcune pietre come souvenir della sua terra.
Difficile pensare che il Kosovo possa tornare ad essere una provincia autonoma della Serbia anche se così dice il diritto internazionale. Tutte le opzioni, in realtà, sono possibili: dall’indipendenza alla costituzione di una terza repubblica nell’ambito della Federazione di Serbia e Montenegro, dalla sua spartizione e ricongiungimento con l’Albania alla cantonizzazione sul modello della Bosnia per rendere autonoma la parte nord della regione dove la minoranza serba vive di fatto separata dalla maggioranza albanese. Qualunque sia la decisione finale è comunque probabile si riaprano le ferite mai del tutto cicatrizzate travolgendo la fragile stabilità dei Balcani occidentali. Un Kosovo indipendente, infatti, spingerebbe ancora di più il Montenegro verso l’indipendenza, riaccenderebbe le ambizioni dei Serbi di Bosnia di ricongiungersi a Belgrado, solleciterebbe la minoranza albanese in Macedonia a separarsi da Skopje per dar vita alla Grande Albania. La politica della comunità internazionale è riassunta nello slogan "standards prima dello status" ritenendo che la costruzione di istituzioni democratiche accompagnate da un livello occidentale di sviluppo economico possano svuotare di contenuti la questione dell’indipendenza. In realtà è forte la sensazione che temporeggiare non fa che aggravare la situazione perché i problemi rischiano di incancrenirsi ancora di più.
Di Albin Kurti mi ero occupato a più riprese in Parlamento Europeo. Leader del movimento studentesco all’università di Pristina era stato arrestato nell’aprile del 1999 dalla polizia di Milosevic e poi trasferito in prigione a Belgrado con altri duemila Kosovari dove è restato fino al dicembre del 2001. Non so quanti emendamenti o risoluzioni ho scritto in quel periodo per chiedere che l’Unione Europea si adoperasse per la sua liberazione. Fa un certo effetto incontrarlo per la prima volta. Dopo avermi ringraziato per quanto fatto per lui esterna tutta la sua insoddisfazione nei confronti di una comunità internazionale che dopo avere liberato il suo paese non ha ancora concesso al Kosovo la sacrosanta indipendenza. Attira l’attenzione sul destino di 4000 persone che risultano ancora scomparse dai tempi del conflitto. Ogni tanto qualcuno parla e si individua una fossa comune che restituisce i resti delle vittime delle squadre paramilitari serbe. Non sembra preoccuparsi più di tanto di essere ancora disoccupato senza alcuna prospettiva di impiego.
Sulla via di Belgrado facciamo tappa a Mitrovica per incontrare nella parte settentrionale della città il leader degli oltranzisti serbi. Il fiume Ibar separa la parte serba da quella albanese. Sul ponte i soldati delle Nazioni Unite spostano i cavalli di Frisia per farci passare. Milan Ivanovic ribalta sugli Albanesi le accuse di pulizia etnica sottolineando come in Serbia e Montenegro ci siano ancora più di 150.000 profughi di etnia serba fuggiti dal Kosovo cui non è concesso di ritornare in sicurezza nelle proprie abitazioni. Sostiene che nessuna forma di collaborazione è possibile con gli Albanesi in queste condizioni, le due comunità non potranno mai convivere. Al confine i militari serbi controllano scrupolosamente i nostri documenti.
Sei ore di viaggio per percorrere poco più di trecento chilometri sono davvero troppi ma vecchie e nuove barriere rendono difficile il tragitto. A Belgrado assisto ad un seminario fra alcuni euro-parlamentari con deputati dei parlamenti nazionali dei Balcani. L’incontro è dedicato al rapporto fra media e democrazia. Ascolto l’intervento dell’ex-direttore del TG1 Demetrio Volcic. E’ sempre imbarazzante per un italiano dovere affrontare questo argomento: impossibile trovare situazioni peggiori di quella del nostro paese. La sera Volcic mi fa da cicerone lungo il Danubio e per le vie della città ricordando i tempi di quando faceva l’inviato per la RAI. Vedo Belgrado con una luce diversa e apprezzo particolari che mi sarebbero altrimenti sfuggiti.
Il giorno prima del rientro in Italia partecipo all’iniziativa "L’Europa del basso" organizzata dall’Osservatorio sui Balcani e dal Consorzio Italiano di Solidarietà, due organizzazioni non governative del nostro paese che si adoperano per accelerare il passo dell’integrazione europea dei paesi della regione. Ci sono circa duecento persone provenienti da tutto il vecchio continente. Sessanta di queste sono partite in battello da Vienna navigando lungo il Danubio fino a Belgrado facendo tappa in alcune delle città rivierasche per discutere con le comunità locali del futuro dell’Europa. Si respira un’aria positiva di gente convinta di potere impedire ancora l’atto supplementare della tragedia jugoslava. Mi torna in mente la frase che circolava a metà degli anni novanta: la guerra cesserà solo quando il processo di smantellamento della Jugoslavia sarà completato. Ci attendono ancora giorni amari. La faglia si sta movendo, si avvertono già le prime scosse. Nei Balcani ogni certezza vacilla. Anche qui è Europa.
Vedi anche:
Danubio, una agenda di lavoro

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