Non solo solidarietà
La Caritas diocesana di Genova opera in Croazia, Serbia e Bosnia. E in Italia promuove seminari e incontri. Per rafforzare il legame con i Balcani. Un’intervista ad Anna Gaggero
Anna Gaggero lavora presso la Caritas diocesana di Genova ed è responsabile dell’Area Europa, con particolare attenzione all’area dei Balcani, all’interno del Settore Emergenze Internazionali, per conto del quale segue i progetti attivi in Croazia, Serbia e Bosnia. Ha iniziato a lavorare per la Caritas nel 2003. Ma già nel 2001, da volontaria, aveva partecipato ad attività di animazione in un campo profughi a Sisak, Croazia.
Ci racconti il tuo primo viaggio nei Balcani?
E’ stato nel 2001, in estate. Era il primo tentativo della Caritas di Genova di avviare campi di animazione a Sisak, in un centro collettivo, più comunemente detto "campo profughi" dove abitavano un centinaio di "returnees" (rientranti) tra serbi e rom. Eravamo un gruppo di volontari, una decina, e per una settimana abbiamo vissuto assieme agli abitanti del campo, in una baracca di legno come la loro.
Ricordo che ce ne fu assegnata una che era disabitata. Il primo impatto è stato abbastanza duro perché abbiamo dovuto renderla "abitabile". Era fatiscente, persino le pareti abbiamo dovuto pulire. La volontà di condividere con le persone del campo tutti i loro disagi, la loro quotidianità ci ha fatto superare l’adattamento iniziale, consapevoli che quello che noi vivevamo per una settimana, per le persone del campo era "vita di tutti i giorni". Quando siamo tornati a casa non ci siamo scordati di chi avevamo incontrato e infatti dal 2001 a oggi d’estate e a capodanno la Caritas Diocesana di Genova organizza campi di animazione che coinvolgono numerosi volontari. L’obiettivo è quello di stare vicini alle persone che ancora oggi sono costrette a vivere in una baracca di un campo profughi e non "dimenticarle", come tante volte ci siamo sentiti chiedere da loro.
Tanti sono i bambini che vivono nel campo profughi, la maggior parte sono rom. Soprattutto questi sono spesso vittima a scuola di discriminazioni a causa dalla scarsa cura che sovente hanno della loro persona. Per questa ragione da diversi anni abbiamo organizzato specifiche attività educative per i bambini incentrate sull’igiene sanitaria e della persona anche in collaborazione con la Facoltà di Scienze Infermieristiche dell’Università di Genova. La continuità al nostro intervento è reso possibile da una maestra di Sisak che si reca tre pomeriggi alla settimana nel campo per aiutare i bambini a fare i compiti, favorendo, con la sua attività, una maggior conoscenza ed integrazione degli adolescenti.
In questi anni avete avviato una sorta di doppio binario: attività di volontariato e momenti di approfondimento a Genova …
I volontari compiono esperienze forti. Si vuole cercare di non delimitarle alla settimana trascorsa in Serbia piuttosto che in Croazia o in Bosnia, ma di dare una continuità al loro percorso anche a Genova. E qui il binario, per così dire, diviene triplice. Perché oltre all’attività di sensibilizzazione che cerchiamo di fare in vari ambiti – a partire da quello diocesano, ma non solo – dal 2005 ha preso il via una buona collaborazione con l’Università di Genova, nello specifico, con il Dipartimento di Ricerche Europee (DI.R.E) della Facoltà di Scienze Politiche con il quale abbiamo organizzato approfondimenti seminariali sul tema dei Balcani.
Proprio in questi giorni si sta per concludere terzo ciclo di seminari che affronta il tema attuale delle "Minoranze nei Balcani". La settimana scorsa, per esempio, abbiamo avuto la possibilità di ascoltare Mons. Franjo Komarica, vescovo di Banja Luka, voce instancabile e autorevole che da anni lotta affinché vengano garantiti i diritti fondamentali a ogni cittadino dell’Ex Jugoslavia, nonché promotore del dialogo ecumenico e della costruzione di una società interculturale e multietnica attraverso la fondazione delle scuole d’Europa.
Ma il canale universitario non è l’unico a permetterci di tenere viva l’attenzione sulle problematiche dei Balcani. Spettacoli teatrali, serate danzanti sono solo un esempio di quello che si è riuscito a organizzare grazie al prezioso contributo di alcuni dei nostri volontari particolarmente "artistici". Ma non sono solo i nostri stretti volontari a darci un aiuto per fare parlare di Balcani. È il secondo anno che, grazie al coinvolgimento della ditta genovese "Ardes" specializzata in prodotti di erboristeria, è stato realizzato il bagnodoccia "Una Mano Lava l’Altra " la cui distribuzione serve a sostenere i nostri interventi in Croazia e in Serbia.
Come Caritas Diocesana avete un’identità abbastanza definita, come vi siete rapportati con un’area come quella dei Balcani dalle identità molteplici e complesse?
Siamo consapevoli del "marchio" che ci portiamo dietro. Anche se a volte è percepito quasi più dall’esterno che da come ci poniamo noi. Noi andiamo a incontrare persone e comunità con culture anche diverse tra di loro ma il nostro atteggiamento vuole essere di ascolto, di conoscenza, di apertura, di accettazione dell’altro relazionandoci con tutti a prescindere dall’appartenenza religiosa o culturale, individuando con un’attenta analisi dei bisogni chi è in più difficoltà.
In tutti questi anni i rapporti, i gemellaggi e i progetti che sono nati e che stiamo portando avanti nei Balcani sono sempre stati caratterizzati da questo atteggiamento di incontro e così vogliamo continuare a fare.
Per esempio, ad Aleksinac, città a maggioranza ortodossa nel sud della Serbia, dove con le offerte della Delegazione delle Caritas Liguria è stato costruito un centro sociale che aiuta tutte le fasce deboli della popolazione, si è intessuto un rapporto solido con la municipalità e la chiesa ortodossa locale. I volontari, impegnati nelle settimane di animazione, oltre a giocare con i bambini, visitare gli anziani, creare momenti di ritrovo per la comunità si relazionano con l’insieme della realtà locale e quindi incontrano sempre il pope ortodosso e il sindaco.
Che riscontro hanno avuto gli incontri seminariali che avete promosso a Genova?
Proprio in un incontro di qualche giorno fa avvenuto con la professoressa Maria Grazia Bottaro Palumbo, direttrice del DI.R.E., commentando il primo incontro sulle Minoranze in BiH avvenuto il 23 marzo scorso, abbiamo potuto avere la conferma del gradimento da parte degli studenti di approfondimenti seminariali di questo genere. Molti di loro hanno commentato anche nei giorni successivi e ad altri professori quanto avevano ascoltato durante il seminario sui Balcani.
Siamo consapevoli che in università la tematica che affrontiamo è poco conosciuta. Basti pensare che negli anni della guerra in ex Jugoslavia gli studenti ai quali sono indirizzati i cicli di seminari erano molto giovani, erano bambini. Riscontriamo sempre però molta attenzione. Nello strutturare gli interventi dei vari relatori cerchiamo di dare per scontato il contesto di cui si parla. Quindi partiamo sempre dalle basi per poi addentrarci sempre più nella specificità dell’argomento.
Che tipo di relazioni ci sono con le altre Caritas?
Si cerca di lavorare in rete, non da ultimo con Caritas Italiana e con tutto il network internazionale. Per quanto riguarda l’attività nei Balcani, sopratutto per la Serbia, subito dopo i bombardamenti del 1999, è stato creato il cosiddetto "Gruppo di Accompagnamento" composto dalle varie Caritas diocesane che operavano in questo paese. L’obiettivo era quello di condividere il tipo di attività e l’esperienza che si stava portando avanti nei Balcani. Il lavoro in rete è un obiettivo che aiuta nel definire, implementare e coordinare maggiormente il tipo di intervento.
Ci potresti fare una descrizione del volontario "tipo"?
Il volontario "tipo" a dire il vero non esiste. In questi anni molte persone si sono avvicinate alla Caritas diocesana di Genova e all’esperienza dei campi di animazione, tutti seguendo strade diverse. Nell’arruolare i volontari, se possiamo utilizzare questo termine, abbiamo un atteggiamento di apertura completa e quindi spesso i volontari non provengono ad esempio da lunghe esperienze presso la diocesi. Possono essere anche persone che pur essendo lontane da una comunità più praticante sono disposte comunque ad aprirsi ad un’esperienza di conoscenza, andando oltre idee preconcette. Forse è questa la caratteristica che li accomuna: la voglia di conoscere la realtà in cui si va ad operare. Partecipano inoltre anche ad incontri di formazione che organizziamo nei mesi che precedono la partenza. Sono solitamente sei incontri, e quindi si richiede un certo impegno ed assiduità anche prima di partire. La formazione inizia presentando il contesto più generale, storico-culturale, per poi andare ad approfondire il contesto più specifico che il volontario andrà ad incontrare.
Sono molti ormai gli anni di esperienza nei Balcani. Le realtà dove operate sono cambiate molto?
Cambiamenti ve ne sono senz’altro stati. La Serbia – e il sud della Serbia – del 1999 è diversa da quella di oggi. Se invece penso al campo profughi di Sisak ogni anno purtroppo sembra che la situazione si debba andare a risolvere e che chi vi abita ritorni a casa, ma di fatto ancora oggi ci sono 74 persone che continuano a vivere come facevano sette-otto anni fa. Il nostro atteggiamento è quello di cercare di favorire questi cambiamenti. Ad esempio cerchiamo di aiutare queste persone per i documenti. Spesso ottenerli comporta un iter lungo e frustrante, pochi di loro hanno per esempio la cittadinanza croata. Quest’ultima potrebbe invece aiutarli nel trovare una casa e nell’uscire dal campo profughi, anche se sappiamo che una volta usciti i problemi non finiscono, anzi. La nostra intenzione è comunque stare vicino, per quanto possibile, a queste persone e a tutte le altre incontrate e che incontreremo nelle altre aree dei Balcani e fare "un po’ di strada con loro".
* Foto di Carlo Kielland