Non è facile essere Sarajevo

Per tutto il Novecento Sarajevo è insieme simbolo della violenza politica e modello di pacifica convivenza. Gli anni in cui la città cadde sotto il controllo degli ustascia sono importanti per comprenderne le contraddizioni. Il libro di Emily Greble

30/04/2013, Azra Nuhefendić -

Non-e-facile-essere-Sarajevo

(Foto Riacale, Flickr )

Non è facile essere Sarajevo: adorata, odiata, lodata, trascinata nel fango, innalzata a simbolo, definita la culla del male, bruciata venti volte, rinata, dannata e desiderata, invidiata, disertata. C’è chi le resta fedele rischiando la morte, chi scappa a ogni costo, chi ci torna per vivere, chi invece solo per morire. Tutto questo in 500 anni. Se è vero che “i Balcani soffrono di troppa storia” come ha detto W. Churchill, Sarajevo ne è la prova.

Molti si concedono il diritto di giudicarla, anche senza averci mai messo piede. Di Sarajevo ci parlano con familiarità persone che ci sono state solo una volta. Per descriverla spesso usano stereotipi, cadono nei soliti pregiudizi, “la Gerusalemme europea”, “il luogo d’incontro tra Oriente e Occidente”, “il simbolo della multietnicità e multiculturalità”, “la città martire”, “la Teheran europea”. Tutte esagerazioni. La cosa certa su Sarajevo è che non ci lascia indifferenti. Basta menzionare il suo nome per suscitare emozioni. Quando mi chiedono com’è, dico che Sarajevo non è bella come Roma, Parigi, San Pietroburgo o Praga. Il fascino di Sarajevo sta nella sua essenza, che è qualcosa d’inafferrabile.

Un simbolo di pace e di violenza

Ovviamente non sempre e non tutto quello che riguarda Sarajevo è etereo. I fatti storici, ad esempio, che talvolta confermano le emozioni, e talvolta documentano in modo inesatto la gloriosa visione della città. A occuparsi di questa città che “ha avuto il paradossale destino di essere insieme un simbolo della violenza politica e un modello europeo di cosmopolitismo e pacifica convivenza”, è il libro “Sarajevo la cosmopolita. Musulmani, ebrei e cristiani nell’Europa di Hitler” (Feltrinelli editore , collana Storie, 2012).

L’autrice, la storica americana Emily Greble, ha frugato sette archivi di tre paesi, ha setacciato la corrispondenza delle massime autorità di Sarajevo, dai tribunali di Stato alla polizia segreta, dagli eserciti alla resistenza, e ha esaminato i giornali d’epoca prima di produrre un libro prezioso per gli studiosi e molto interessante per i curiosi.

Con il suo lavoro la Greble conferma certe teorie che riguardano la città, abbatte alcuni stereotipi, chiarisce fatti mal interpretati, svela episodi finora sconosciuti, smaschera alcune leggende metropolitane. In breve, nel libro ci sono pagine sia per chi ama Sarajevo, sia per chi l’ama un po’ meno. Ma non perché l’autrice faccia sconti (piaceri) ai suoi (come purtroppo gran parte degli storici e degli scrittori della BiH di oggi che parteggiano per uno dei loro gruppi nazionali o religiosi) ma proprio perché è super partes e, nello scrivere il saggio, la Greble segue il criterio supremo – la verità.

La Greble parte dall’affermazione che durante la Seconda guerra mondiale, nell’Europa di Hitler, dove il mondo multiculturale si era frantumato e ridotto in polvere, la capitale bosniaca rimase realmente cosmopolita. Cosi come negli anni novanta, mentre la Repubblica Federale di Jugoslavia si disgregava, “Sarajevo guadagnava la reputazione di unico luogo di tolleranza, molteplicità e pace… Infatti Sarajevo diviene il simbolo di tutto ciò che in Jugoslavia funzionava, un emblema del multiculturalismo, nella sua accezione più positiva”.

Cosmopolitismo e solidarietà locale

Secondo l’autrice l’idillico multiculturalismo di Sarajevo è sopravvissuto alle catastrofi che hanno sopraffatto l’Europa, aggrappandosi a due aspetti della cultura tradizionale della città: un sistema d’identità confessionale, che si preservava nella sfera privata, e una solidarietà locale radicata nel pluralismo politico e nella diversità culturale. Sarajevo aveva norme etiche, culturali e politiche distinte che inducevano le persone a un certo comportamento. Per essere sarajlija, cioè sarajevese, bisognava compiere atti concreti e osservare alcuni codici etici propri della città: la convivenza (zajednički život) e il buon vicinato (komšiluk).

Sarajevo sì, era cosmopolita, ma questo non vuol dire che fosse vaccinata contro il nazionalismo. Era possibile essere al contempo un fervente nazionalista e un fervente sostenitore dell’identità di Sarajevo.

Durante la Seconda guerra mondiale Sarajevo, come tutta la BiH, fu incorporata nello Stato Indipendente di Croazia (Nezavisna Država Hrvatska, NDH), notoriamente uno degli stati satelliti nazisti più brutali. Nel mirino del regime ustascia c’erano gli “stranieri” cioè gli ebrei, i serbi, i montenegrini, i russi e gli zingari.

A Sarajevo prima della guerra c’era una comunità ebraica di circa diecimila persone. Quasi tutte sono finite nei campi di concentramento. Talvolta il comportamento dei sarajevesi fu contraddittorio e poco comprensibile. Ad esempio nel 1941 un’organizzazione musulmana diceva che “gli ebrei andavano fermati una volta per tutte” ma, allo stesso tempo, i capi musulmani e cattolici di Sarajevo sabotavano le azioni delle autorità ustascia che internavano gli ebrei, e cercavano attivamente di proteggerli attraverso la conversione. La pratica di nascondere ebrei in casa era diventata così comune che, all’inizio del novembre 1941, le autorità ustascia accusarono l’intera cittadinanza di ostacolarne le deportazioni.

Quando il regime cercò di eliminare la popolazione serba di Sarajevo, la capitale bosniaca lo mise sotto pressione, a volte disobbedendo apertamente alle direttive statali. La città si oppose anche al decreto del regime ustascia che dichiarava che i rom “non erano ariani” e che per questo dovevano essere spazzati via dalla società. Le autorità di Sarajevo consideravano i rom una parte della società ben radicata nel tessuto cittadino e protestarono contro le loro deportazioni.

Gli intrusi

Tuttavia, per ogni cittadino che aiutava i serbi, gli ebrei, o i rom, ce n’era un altro che approfittava della situazione. Alcuni leader religiosi rimproveravano i sarajlije per quel comportamento.

Sarajevo fu meno accogliente per decine di migliaia di profughi (secondo alcune stime circa ottantamila) scappati dai pogrom che i cetnici, i nazionalisti serbi, avevano intrapreso contro i musulmani (dunque, quello che è accaduto negli anni novanta, nelle stesse zone orientali della Bosnia, lungo il fiume Drina, è soltanto un déjà-vu degli anni quaranta, cioè il genocidio di Srebrenica sarebbe il lavoro non compiuto negli anni quaranta?). I sarajlije non amavano i profughi, giunti in città 70 anni fa, li rimproveravano di sporcare la città, temevano che potessero cambiare l’anima di Sarajevo (anche adesso, dopo l’ultima guerra si fanno gli stessi dibatti, emergono gli identici timori). Le autorità cittadine vedevano i profughi come intrusi (e la stessa cosa capita oggi, ne è esempio una donna musulmana, violentata e cacciata via dalla sua casa durante l’ultima guerra, che, malgrado il suo destino, a Sarajevo è vista come una “venuta da fuori”!)

Il saggio della Greble cerca di spiegare i motivi che portarono i musulmani della BiH e di Sarajevo ad accogliere e a collaborare con il regime nazionalista ustascia e i nazisti tedeschi, e alla loro adesione alla divisione Handzar. L’autrice suggerisce un nuovo contesto per capire meglio questi fatti. Nel Regno di Jugoslavia, i musulmani bosniaci si vedevano usurpati in continuazione dell’autonomia religiosa, i proprietari terrieri venivano privati dei loro possedimenti, e la terra distribuita più spesso ai serbi venuti dalla Serbia (i veterani dal fronte di Salonicco), alcune moschee furono abbattute o trasformate in magazzini. Il peggior oltraggio fu quando il regime trasferì la sede del capo della comunità musulmana da Sarajevo a Belgrado. Per questi e simili motivi i musulmani bosniaci speravano che, con il regime ustascia e il “nuovo ordine”, la loro posizione migliorasse. Ma fu una vana speranza, e durò poco. Nel 1943 mentre i cetnici accelerarono la loro campagna di eliminazione dei musulmani, le milizie ustascia cominciarono a uccidere i musulmani con la stessa frequenza con cui uccidevano i serbi. L’unico gruppo che non uccideva i musulmani, o almeno non in modo indiscriminato, erano le forze dell’occupazione nazista.

Valter difende Sarajevo

Il libro “smonta” una popolare leggenda urbana su Sarajevo come centro eroico della resistenza contro i nazisti cui contribuì uno dei film più famosi della Jugoslavia “Valter difende Sarajevo”. In realtà pochi cittadini di Sarajevo si unirono alla resistenza. I sarajlije non vedevano grandi differenze tra i partigiani e gli ustascia. Ritenevano che entrambi fossero dei movimenti violenti, rozzi, cui aderivano soprattutto contadini.

Valter, l’inafferrabile capo della resistenza, era esistito realmente ed era il nome in codice di Vladimir Perić. Nell’ultima scena del film una spia nazista indica la città da un belvedere e, rivolgendosi a un ufficiale tedesco, pronuncia la celebre frase: “Vede questa città? Das ist Valter”. Sia Sarajevo sia Valter si erano rivelati imprendibili.

I sarajlie non si erano meritati questa fama durante la Seconda guerra mondiale, ma se la sono guadagnata con il sangue, durante i quasi quattro anni di assedio, dal 1992 a 1995.

 

Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l’Europa all’Europa

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta