Neretva, un fiume che muore?
I fiumi e la Bosnia. Un legame forte che in questi anni non è stato immune da luoghi comuni. Un documentario per andare oltre, per raccontare attraverso di Lei atmosfere, sentimenti e relazioni legati ad un territorio e alla sua gente. Un’intervista a Lucia Malorzo, soggettista e coordinatrice del progetto
Un documentario sulla Neretva, quali gli obiettivi e gli stimoli che vi hanno portati ad intraprendere un’iniziativa di questo tipo?
Quando un anno fa sono andata per la prima volta a Mostar per ritrovare degli amici, ho avuto anche il mio primo incontro con la Neretva scoprendo che davvero non è "solo" un fiume! Ho percepito la possibilità di raccontare attraverso di Lei atmosfere, sentimenti e relazioni legati ad un territorio e alla sua gente che mai sono veramente esplicite. Quindi, in qualche modo, il documentario è uno strumento del mio desiderio di comprendere. Vogliamo fortemente che una volta finito, possa essere utilizzato nelle scuole ed in occasioni dove possa essere stimolo di discussione, sui temi dell’ambiente e di rapporto dell’uomo con una delle risorse più importanti della nostra Terra: l’acqua. Il clima umano ci offre inoltre spunti per un’indagine più ampia, che tenga conto delle ferite della guerra e dell’influenza negativa che possono avere sull’ambiente.
Sono ancora così forti i segni della guerra?
Non è solo per i segni del conflitto, benché si percepiscano ancora con forza, ma è soprattutto per un senso di abbandono che c’è nell’aria, anche da parte di chi ha sempre lottato a favore della salvaguardia di questa risorsa incredibile di cui è ricca la Bosnia. La Neretva sembra destinata a morire! Oltre alle centrali già presenti se ne stanno costruendo altre, piccole e grandi, fonte di grande ricchezza economica per pochi e di piccola ed effimera ricchezza per altri, che pensano sia necessario svendere così il proprio territorio.
Il vostro vuole essere un lavoro di denuncia?
Il documentario non ha lo scopo di giudicare le scelte, bensì testimoniare quanto è cambiato il rapporto della gente con il proprio fiume. Non solo la costruzione delle centrali che cambieranno irreparabilmente l’aspetto, il clima, l’equilibrio biologico del fiume ma anche e soprattutto l’avvenuto allontanamento da questo, come in una spaccatura di tipo affettiva in cui ti ritrovi a rinnegare qualcuno che invece sai esserti molto caro. La poco attenzione per la natura è comune a molti popoli ma in Bosnia assume significati più profondi, forse perché lì è stato danneggiato l’equilibro dell’uomo con le cose e tornare ad attingere la vita dal fiume non sembra al momento una priorità.
Da che percorso proviene il regista?
Il regista Ermin Hadzic è un giovane bosniaco, nato a Zenica 28 anni fa ma ha studiato e vive a Mostar, la sua formazione è frutto di un percorso intenso e ricco di incontri ed esperienze di tipo diverso, così come daltronde è accaduto frequentemente ai Bosniaci. Ha studiato cinema a Berlino, mettendo a frutto la propria arte prima in Germania e poi in Bosnia, collaborando con emittenti televisive, girando 1 corto (Il Sonnambulo) ed alcuni documentari. Artista molto preparato e colto, rappresenta in pieno lo stato d’animo diffuso di molti giovani bosniaci, combattuto e controverso tra un’identità tramandata a fatica dai propri genitori ed il desiderio di riuscire a tradurre questo travaglio in fatti concreti. Le sue potenzialità infatti, non sono ancora riuscite ad emergere in pieno, per questo motivo ho scelto lui: credo moltissimo che in futuro avrà molto da dire al cinema internazionale.
Come lo ha conosciuto?
Me l’ha presentato Denis Kajić, un giovane attivista del centro culturale Abrasevic, quando gli ho chiesto di aiutarmi nel compito di sviluppare questo difficile ma entusiasmante progetto. Insieme hanno lavorato per il club film Mostar. Il rapporto con Ermin, a dire il vero, non è sempre facilissimo, ma il mio incontro con lui mette molto alla prova l’idea che avevo dei Balcani. Giorno dopo giorno la nostra attenzione è rivolta verso il superamento degli stereotipi ed il confronto spesso si è fatto serrato, ma la fiducia reciproca e l’idea comune di "fare" un ottimo documentario ci ha permesso di raccogliere del materiale molto interessante, mettendo a frutto la ricchezza data dalle nostre differenze.
Che gruppo di persone ci stanno lavorando?
La troupe è composta di giovani bosniaci e non, come i cameramen che provengono uno dalla Francia, J.B. Delorme e l’altra dall’Austria L. Kovacic, tutti legati in qualche modo ad Hadzic per esperienze collaborative precedenti, quindi un gruppo variegato ma ben collaudato. Ma le due persone più importanti del gruppo di lavoro sono due ragazzine: l’italiana Alba Galbusera e l’italo-bosniaca Nila Botić che hanno dato vita ad uno stile documentaristico nuovo e coinvolgente, soprattutto per le nuove generazioni. Anche loro hanno parlato con i personaggi incontrati e registrato con la propria camera per offrire un’ulteriore punto vista. L’esperienza per loro è molto stimolante anche se ben presto si sono accorte che stavano facendo un vero lavoro! Era molto importante per noi questo tipo di contributo: la loro amicizia è la storia portante del documentario.
Collaborate anche con ONG ambientaliste – italiane o bosniache – che seguono la questione dei fiumi in Bosnia Erzegovina?
Fin dall’inizio ho saputo di poter contare, dal punto di vista culturale e dei contenuti, sul Contratto Mondiale dell’Acqua, che già lo scorso luglio aveva dato vita ad alcune iniziative in concomitanza con l’inaugurazione del Ponte Vecchio a Mostar mettendo le radici per un Comitato Bosniaco, è naturale che tale patrocinio ha segnato significativamente questo documentario, dove la salvaguardia dell’acqua, intesa anche come "bene comune", diventa la tematica principale. Strada facendo, invece ho incontrato Ilaria Grasso, coordinatrice del settore internazionale di Lega Ambiente del Piemonte e della Valle d’Aosta, che ha aderito con entusiasmo a questo progetto e si sta pensando a come rendere attivo e partecipativo questo interesse.
Al momento in cui è la produzione del documentario, pensate di aver raggiunto gli obiettivi previsti?
Abbiamo raccolto alcune cose che ci aspettavamo di trovare ma nel contempo siamo stati costretti a verificare l’amarezza di certe altre conclusioni. Volevamo superare, insieme al regista Ermin Hadzic, le frontiere dei luoghi comuni sull’acqua e sulla Bosnia. Credo che ci siamo riusciti, ma invece di documentare solo la vita che porta un fiume, ci siamo accorti di aver rilevato anche un gran senso di morte!
Eppure per molti altri versi questo "senso di morte" non si respira affatto in Bosnia. Vi sono molti gruppi di artisti che hanno saputo rispondere alla guerra …
E’ vero, non ho mai conosciuto un luogo così ricco di artisti, intensi creativi, che sembrano sprigionare un’idea filosofica congenita, patrimonio della propria identità pacata e credibile ed i paesaggi pure fanno loro da degna cornice. Come questo fiume che ha visto innamorarsi di Lei infinite generazioni di locali ma anche di gente di passaggio che spesso ha scelto di fermarsi sulle sue sponde, per godere dei suoi colori intensi e della pace che sapeva offrire, sicuri che quello poteva essere uno dei pochi luoghi sulla terra dove anche il diverso poteva essere accolto.
Se ora permette vorrei fare io alcune domande ed aprire così una discussione con i vostri lettori:
Si può ad un certo punto non temere più i cambiamenti irreparabili? Esiste l’assuefazione alle brutture? Le difficoltà economiche possono giustificare le scelte contrarie alla qualità della vita?
Forse una di queste risposte potrebbe farci decidere per il titolo del "film"….