Nell’est del Kosovo, dove la coesistenza è possibile

Sono 30.000 i serbi che vivono nell’est del Kosovo, in mezzo ad una popolazione in maggioranza albanese. A Kamenica, i bambini delle due comunità vanno insieme a scuola

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Monastero di Draganac, Kosovo -Wikimedia/Milivoje Aleksic

 

(Pubblicato originariamente da Courrier des Balkans, il 9 ottobre 2018)

Bojan Stamenković è fiero di mostrarci la scuola elementare di Kamenica, la sola nel paese dove scolari serbi e albanesi condividono lo stesso cortile a ricreazione e presto non seguiranno solo lezioni comuni di informatica ed educazione fisica ma inizieranno ad imparare anche le rispettive lingue.

Bojan è l’unico vice-sindaco serbo a far parte di una giunta di una comunità al 90% albanese. Vive nell’est del Kosovo, in una regione che gli albanesi chiamano Lugina e Anamoraves e i serbi Pomoravlje. Aperto al dialogo, rimane comunque contrario all’indipendenza del Kosovo e soprattutto a qualsiasi idea che implichi la “ridefinizione delle frontiere”.

“Uno scambio di territori in base a criteri etnici è contrario a tutti i valori democratici per i quali ci siamo battuti contro venti e maree. L’esodo delle popolazioni che si trovavano sul lato sbagliato della frontiera e una guerra sarebbero conseguenze inevitabili”, afferma.

Quando aveva 35 anni questo padre di cinque figli, diplomato in economia, stava per emigrare in Germania e lasciare il Kosovo con l’intera famiglia quando gli è stato chiesto di far parte della lista elettorale di Qëndron Kastrati, del partito di sinistra sovranista Vetëvendosje, poi eletto sindaco di Kamenica nella primavera scorsa. “Qëndron mi ha dato i mezzi per convincere serbi e rom che un ritorno poteva essere possibile. In qualche mese più di 40 famiglie si sono decise a rientrare. Nove di loro lo hanno già fatto e le altre sperano che i lavori alle loro case finiscano prima dell’inverno”. Un piccolo miracolo visto che, a vent’anni dall’intervento della Nato, sono ancora molto pochi i non-albanesi fuggiti dal Kosovo che sono rientrati.

“Affinché quanto sta accadendo qui accada anche altrove abbiamo bisogno della presenza della comunità internazionale per aiutarci a riconciliarci e a vivere insieme, senza aver fretta per regolare la questione dello status e delle frontiere”, sottolinea Bojan che ha iscritto i propri figli a corsi privati per imparare l’albanese, in modo si possano integrare meglio nella società kosovara.

Bojan ha anche promosso uno studio sui 30.700 abitanti di Kamenica verificando che non meno di 3100 apparterrebbero alla comunità serba, fatto che Belgrado e i suoi rappresentanti al Parlamento del Kosovo ignorano del tutto. “Ci mettono in continuazione i bastoni tra le ruote per motivi politici, in particolare lo fa il ministro serbo alle Minoranze e al Ritorno del governo del Kosovo, Dalibor Jevtić, i cui emissari mi hanno proposto di scegliere il lampione al quale preferivo essere impiccato” si indigna Bojan, convinto che il suo rifiuto a partecipare ai comizi in sostegno al presidente della Serbia Vučić sia la ragione dell’ostracismo che lo circonda.

Un monastero aperto a tutte le comunità

Alla fine di una strada tortuosa in mezzo al bosco il monastero di Draganac , nei pressi dell’antica foresta di Novo Brdo, appare come un miraggio. L’attuale abate, l’archimandrita Illarion, occhi azzurri e lunga barba non ancora ingrigita dal tempo, corpo agile e filiforme, accoglie i visitatori.

Prima di farsi monaco è stato attore, a Belgrado, ed ha anche ottenuto numerosi riconoscimenti. Ha raggiunto il monastero di Dečani nel 1996. Padre Illarion riesce a garantire la manutenzione e la ristrutturazione del monastero di Draganac grazie a donazioni e ai finanziamenti dell’Ue. Draganac è il solo monastero della regione di Pomoravlje, nella quale vivono circa 30.000 serbi nel mezzo di una popolazione albanese maggioritaria.

Anche alcuni albanesi si recano sino alla fonte del monastero, ritenuta miracolosa. Padre Illarion parla correntemente l’albanese ed è felice della persistenza di queste pratiche ancestrali e si adopera per favorire questi scambi. Ha incaricato padre Sofrony, un giovane monaco americano, arrivato da Seattle quattro anni fa, di organizzare campi estivi internazionali che si svolgono poco distanti dal monastero, sulle colline che sovrastano l’intera regione, là dove in passato vi era l’antico villaggio di Draganac. I campi estivi sono finanziati dall’ong World Vision ed accolgono giovani albanesi e serbi, assieme a francesi, tedeschi, spagnoli, svizzeri…

“Lo scambio di territori di cui hanno parlato Hashim Thaçi e Aleksandar Vučić rappresenterebbe l’annientamento di anni di sforzi della comunità internazionale per ricostruire la fiducia tra le comunità del Kosovo. Rappresenterebbe inoltre una catastrofe per quei serbi rimasti in territorio a maggioranza albanese e che hanno tentato di ricostruire le loro vite nel contesto sociale politico completamente nuovo del dopoguerra. Sarebbe una tragedia per quelli che vivono in enclave circondate da albanesi e che finirebbero sicuramente, sotto costrizione, ad abbandonare i propri focolari perché un progetto come questo darebbe le ali agli estremismi e a tutti i partigiani dell’omogeneità etnica”, s’accalora padre Illarion. “Vivere assieme in Kosovo è possibile, ma non si può costruire nella fretta. Occorre insistere sul principio del rispetto dei diritti umani”.

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