Bosnia Erzegovina, Italia | |
Nel limbo sospesi
Una traduttrice di serbocroato, un amore studentesco a Sarajevo ed il ritorno nella capitale bosniaca dopo la guerra. Una recensione di "Nel limbo sospesi" di Chiara Rango
Dei Balcani ci si può innamorare. E non serve avere lì un qualche tipo di radici, famigliari o sentimentali. Il caso ci porta a frequentarli e, improvvisamente, nasce l’amore. Ed è questo che è capitato a Chiara Rango, immagino, non conoscendo niente di lei: un amore testimoniato in un romanzo “Nel limbo dei sospesi ”, edito da Besa Muci. I Balcani, nel suo caso, quelli occidentali, cioè coincidenti con la ex Jugoslavia, quindi un territorio con ben definiti confini geopolitici, a cui l’autrice dedica una lunga lettera d’amore, anche se in forma di romanzo.
La storia prende varie epoche che s’intrecciano tra loro così come i personaggi, ciascuno dei quali rappresenta una precisa pagina della complessa e intricata storia della ex Jugoslavia: quella della Seconda guerra mondiale con l’esito finale della cessione ad essa di Fiume e dell’Istria e l’esodo di gran parte dei suoi abitanti, gli anni del dopoguerra in un’Istria ormai jugoslava, luogo di vacanza l’estate, gli anni della deflagrazione della Federativa con la guerra tra i paesi che la componevano, fino a un oggi abbastanza recente, il 2008/2009, con una realtà ancora in movimento.
Filo conduttore del tutto è l’io narrante di una donna, Libera Morato, soprannominata Libby, il cui cognome però è quello della madre perché il padre, professore di estetica dell’Università di Padova, Stefano Samiraghi, non l’ha riconosciuta all’anagrafe pur non rinunciando del tutto al suo ruolo paterno, magari portando lei, ancora bambina, in vacanza (anche se in un campo di nudisti, a Rovigno, con la sua amichetta del momento, una delle sue ex studentesse, e ben dando, così, prova della sua totale inaffidabilità, relegando la bambina a dormire in una piccola tenda accanto al camper degli amanti).
Libera intanto vive, cresce e studia in Italia, in un paese cui ha dato il nome fittizio di Castromonte (così come ha dato quello di Insula a Orsera d’Istria: perché mai? Sarebbe interessante saperlo!) dalle parti dei Colli Euganei. Sta di fatto che, proprio grazie alle vacanze in Istria e alla conoscenza di alcuni istriani italiani e croati (Elio, Ezio, Rada), la cui storia si dipana sul crinale storico degli esuli e dei rimasti, del fascismo e della Resistenza, e la lettura di alcuni scrittori jugoslavi, Ivo Andrić in testa, Libera ambisce a studiare il serbocroato. Pertanto va alla scuola per traduttori di Trieste, con l’idea di fare da tramite, come traduttrice e interprete, con quel mondo che ama.
Ben presto, però, s’accorge che Trieste, nonostante tutto, le sta stretta. É l’anno della caduta del muro di Berlino e, per una serie di considerazioni, grazie anche a una professoressa dell’istituto triestino nata a Sarajevo, vuole e riesce a trasferirsi nella città bosniaca. Dove in breve, oltre alle tante belle amicizie, incontrerà anche l’amore nella persona del giovane Izet. Ma durerà poco. I rulli di guerra si fanno sentire, il tempo di tornare in Italia, a Castromonte, ed ecco che Sarajevo vive il suo lungo, sanguinoso, assedio nel corso del quale Libby perde ogni contatto con Izet e anche con gli altri amici sarajevesi.
Intanto intraprende la sua vita di traduttrice e interprete del serbocroato e, anche se il suo pensiero sta sempre lì, a Sarajevo e a Izet, non rinuncia, nel corso degli anni che trascorre a Trieste, ad avere altre relazioni. Ne avrà una in particolare con un uomo che, comunque, a un certo momento, la lascerà. Ben presto però, avrà notizie di Izet, rifugiatosi in Olanda. Non solo: qualche anno dopo vede una locandina che annuncia la presentazione di un libro di poesie di un autore bosniaco che scopre essere proprio il suo Izet. Libby ci va con il cuore tremante, ma per quanto qualcosa del vecchio fuoco è rimasto tra le ceneri del loro lontano amore, apprende di non poter coltivare alcuna speranza: Izet è sposato e padre di un bambino. Una ultima notte d’amore è ciò che le resta, prima che lui riprenda l’aereo e torni in Olanda.
Ma è bastato perché in lei rinasca la voglia di tornare a Sarajevo, dove ritroverà i vecchi amici mentre, tra le macerie socioeconomiche lasciate dalla devastante guerra che ha smembrato la Jugoslavia, sorge in tutti loro – durante una bella cena – l’illusoria nostalgia di quell’ex paese nel quale, di fronte alle difficoltà del vivere quotidiano, si era tutti (o quasi) poveri ma felici, grazie a papà Stato/Partito che, in cambio della tua acquiescenza politico/sociale, ti garantiva la paghetta con la quale tirare avanti. Quasi dimenticando che un popolo privo di incentivi economici e oppresso da norme ideologiche che vietavano ogni libera iniziativa e creatività personale e di gruppo difficilmente avrebbe potuto produrre la ricchezza necessaria per poi poter essere distribuita: una condizione che, come per tutti i paesi comunisti, la cui economia è quasi interamente basata sulla spesa e il debito, avrebbe portato, com’è stato, al loro (inevitabile) crollo. Anche perché il grosso di quel poco che si riusciva a produrre finiva in spese militari e nella sicurezza e, fatti salvi gli stipendi e le pensioni ai livelli minimi, nel soddisfare beni e privilegi delle oligarchie di partito e la loro gloria (si pensi solo, per restare alla Jugoslavia, ai costi delle residenze private di Tito, Brioni compresa, alle sue riserve di caccia, al suo panfilo, aereo e treno personali).
Tralascio, naturalmente, le misure di controllo sociale, il ricorso alla violenza poliziesca e militare nei confronti di chi osava criticare il sistema, la censura e l’omologazione dell’informazione e della cultura e quant’altro è tipico di tutti i paesi totalitari. Ma per restare solo nel campo economico e alla Jugoslavia, il debito arrivato ormai alle stelle, l’inflazione al 120 percento, la scarsa produttività tipica di un’economia statalista (noti i fallimenti di tutti i piani quinquennali), aveva finito col risvegliare i singoli nazionalismi in realtà mai spenti, a causa dei quali (e di quanti soffiavano in quella direzione), ogni Stato della Federativa aveva preso ad accusare l’altro di consumare risorse a scapito del proprio. Erano venuti così ad alimentarsi odi e rivalità tali da portare a quella guerra fratricida che, tragicamente, non è stata il frutto di un destino cinico e baro, bensì proprio di quella Jugoslavia, priva anche di una cultura politica in grado di gestire la transizione, di cui il romanzo, soprattutto nel suo finale, esprime nostalgia. E non basta certo il confronto con i limiti, che pur ci sono e tanti, delle democrazie occidentali, dove “i più sfigati nati in una delle Repubbliche più povere della Jugoslavia” volevano andarsene “a vivere nella ‘democrazia’, quando pensavamo che la felicità fosse poterci ingozzare a piacimento delle delizie offerte nelle vetrine occidentali, di ubriacarci di luci intermittenti e indossare quegli abiti che rendevano voi, tanto seducenti, non ci rendevamo conto di quanto fossimo felici”.
Ecco, nel romanzo in cui l’autrice dà senz’altro mostra di possedere davvero buone doti narrative, capaci di modulare sentimenti e psicologie restituendo ambienti, situazioni e personaggi a tutto tondo, c’è però questa sorta di pedagogia ideologica che, come una voce fuori campo, attraversa a tratti il racconto, inquinandone un po’ la bellezza che, tuttavia, c’è e lascia ben sperare per le opere a venire.