Natasa Kandic: affrontare il passato

Alla Conferenza internazionale di Ginevra gli inviati di Osservatorio sui Balcani hanno incontrato Nataša Kandić, direttrice del Centro per il diritto umanitario di Belgrado, con la quale hanno discusso della attuale situazione in Serbia, del confronto col passato, dei crimini di guerra e del Tribunale dell’Aia

31/10/2005, Luka Zanoni - Ginevra

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Natasa Kandic (Ginevra)

Nell’ottobre del 2000 in Serbia cadeva il regime di Slobodan Milosevic. Cosa è cambiato in questi ultimi cinque anni?

Sono cambiate molte cose, ma non sono cambiate molte altre che ci si attendeva cambiassero. E questa credo che sia la caratteristica più importante. Ci aspettavamo una cesura totale col regime di Milosevic, ci aspettavamo la creazione di strumenti con i quali si sarebbero create delle istituzioni responsabili, che il nuovo governo si assumesse la responsabilità per i crimini di massa commessi in passato, e che introducesse delle procedure per la giustizia. In questo momento abbiamo, in un certo senso, un governo che ha avuto successo, quello del premier Kostunica, che in brevissimo tempo ha consegnato al Tribunale 16 accusati. Tuttavia, alla loro consegna al Tribunale dell’Aia, non è stata fatta seguire una spiegazione sul perché vengono consegnati e su cosa sono basate le accuse nei loro confronti, riguardanti gravi reati penali internazionali. Gli accusati sono stati trattati come rappresentanti dello Stato che vanno in visita in qualche altro paese e non come individui che, al tempo dei crimini, ricoprivano le più alte funzioni e che sono responsabili della pianificazione e dell’organizzazione dei crimini.

Pertanto questo pragmatismo del governo che tenta di rimanere al potere a costo di fare degli accordi con il Tribunale dell’Aia – ma a certe condizioni – e di consegnare gli accusati, non è proprio ciò che serve alla società. Si dovrebbe invece aprire il dibattito su ciò che è accaduto in passato, su cosa abbiamo fatto noi agli altri, e perché proprio così tanti serbi sono accusati di gravissimi reati penali. Tutto ciò però è stato lasciato indietro, per far sì che se ne occupi qualcun’altro. In Serbia manca il desiderio politico di sollevare tale questione, di affrontare questa eredità del passato. E credo che questo sia il problema maggiore per quanto riguarda le relazioni coi vicini. Anche adesso, col profilarsi di una nuova situazione – in cui prendono il via i negoziati sul Kosovo, quando la Bosnia è sulla strada che la porta a costruire le istituzioni dello stato – la Serbia con il suo continuo non voler sollevare la questione sulla responsabilità del passato, contribuisce a fare in modo che la Bosnia continui ad essere una questione tremendamente sensibile, una questione politica. Sicché tiene sempre in serbo la questione della Republika Srpska per poter esercitare pressione sulla comunità internazionale quando è in gioco il Kosovo.

È una buona cosa che la comunità internazionale o l’Europa abbiano una posizione aperta riguardo all’adesione all’Unione europea, e quinid non si incontrino più impedimenti ad ogni passo. Ciononostante si pone una questione: che strada è quella verso l’Unione europea, se proprio non si pongono le questioni basilari per il funzionamento della società sul territorio della ex Jugoslavia? Questa è la questione del confronto col passato, delle azioni che hanno commesso Karadzic e Mladic. Se manca questo, allora non c’è raggiungimento né degli standard europei, né la transizione della giustizia in accordo con quei principi che si riferiscono al diritto della vittime di sapere la verità, al diritto della società di sapere la verità, che riguardano l’adempimento degli obblighi degli stati che devono far sapere la verità, che devono organizzare delle indagini ben dettagliate e sanzionare gli esecutori dei crimini di guerra.

Dal momento che Mladic e Karadzic sono ancora in libertà, secondo lei l’Unione europea ha fatto bene a dare il via libera alla Serbia e Montenegro per l’Accordo di associazione e stabilizzazione?

Da un lato è una buona cosa, ma ciò che non si vede sono i meccanismi. L’UE richiede alla Serbia e Montenegro ed alla Republika Srpska, cioè alla Bosnia, di attenersi ad alcuni obblighi: devono arrestare e consegnare alla giustizia sia Mladic che Karadzic. Ma non si vede con quali strumenti ottenere questi risultati. Dopo la decisione dell’Unione europea, gli Stati Uniti hanno dato un messaggio molto determinato e chiaro riguardo la consegna di Mladic e Karadzic. Tuttavia in riferimento a questi ultimi, non si vede quali strumenti adesso possano costringere il governo della Serbia e Montenegro e quello della Republika Srpska a portare a termine il compito relativo alla loro consegna. Tra l’opinione pubblica c’è l’impressione che né l’America né l’Europa insisteranno più sulla soluzione o sulla cesura col passato, nella misura in cui la condizione è che Mladic e Karadzic vengano consegnati. Ciò da un lato suscita una grande confusione tra la gente e dall’altro fornisce una certa sicurezza ai governi, impreparati per sollevare le questioni sull’eredità del passato, facendogli credere che potranno continuare così. E in particolare alla Serbia, con riferimento ai negoziati sul Kosovo, tutto ciò offre un ampio spazio per creare un accordo alle cui condizioni la Serbia firmerà per l’indipendenza del Kosovo. Sono in gioco Mladic e Karadzic? Sono ancora degli eroi? È in gioco la Republika Srpska? O che cosa si nasconde veramente in questo spazio vuoto che verrà aperto con l’avvio dei negoziati?

Natasa Kandic (Ginevra)

Se il Kosovo dovesse ottenere l’indipendenza, che conseguenze si avrebbero in Serbia?

Io penso che questa questione in Serbia sia un tema quotidiano, nella misura in cui si dice che il Kosovo non va dato, che il Kosovo è parte della Serbia e che deve rimanere all’interno della Serbia. Si tratta di un frasario politico, che i politici e tutti quelli che hanno fatto la guerra – e ce ne sono parecchi in Serbia – continuano a ripetere. Serve loro per mostrare che non accetteranno l’indipendenza. Esiste una grossa differenza tra i serbi del Kosovo e quelli della Serbia. Credo che i serbi del Kosovo ritengano, in cuor loro, che il Kosovo diventerà uno stato indipendente. Forse qualcuno ha compreso di aver giocato una carta sbagliata: che si aspettavano troppo dalle istituzioni della Serbia e che non si sono rivolti minimamente alle istituzioni kosovare. Ma credo che adesso siano pronti per vedere come vanno a finire le cose. Riconoscere l’indipendenza del Kosovo non susciterà alcun tipo di sconvolgimento politico, né disordini sociali in Serbia. Tuttavia penso che il governo della Serbia utilizzerà questa questione per ottenere qualche altra concessione, per esempio in riferimento agli accusati dell’Aia, in riferimento alla Republika Srpska, e forse a ciò che in questo momento non posso nemmeno immaginare: l’indipendenza del Kosovo significa davvero allo stesso tempo la rinuncia a Mladic e Karadzic e alla loro consegna alla giustizia?

Come valuta la decisione del Consiglio del Tribunale dell’Aia di dare la libertà politica a Ramus Haradinaj?

Penso che il Consiglio del Tribunale dell’Aia abbia già preso diverse volte delle decisioni che sono lontane dagli interessi della giustizia e dagli interessi delle società della ex Jugoslavia, lungo il loro cammino verso una società democratica. Prima di tutto la decisione di mettere in libertà l’ex capo dei Servizi di sicurezza di stato della Serbia, Jovica Stanisic, e l’ex comandante dei Berretti rossi, Frenki Simatovic, nonostante ci fossero prove sufficienti mostrate in pubblico sulla stampa locale, e nonostante i giudici avessero richiesto di vedere cosa si scriveva sulla stampa locale. Si poteva vedere quanti validi motivi c’erano per decidere di non lasciarli in libertà. In secondo luogo, quest’ultima decisione di consentire che un accusato dell’Aia si occupi di questioni politiche è davvero senza precedenti. Una tale decisione del Consiglio del Tribunale apre il campo a differenti manipolazioni e produce reazioni arbitrarie anche nei tribunali locali. Perché i tribunali locali dovrebbero accusare qualcuno quando hanno il caso di Haradinaj, che è stato temporaneamente rimesso in libertà e gli si consente persino di occuparsi di politica? Questo avrà delle enormi conseguenze se davvero il Consiglio del Tribunale confermerà la decisione che Haradinaj si occupi di politica.

Anche Carla del Ponte era contraria a questa decisione…

La procura era contraria. Ma era contraria anche a rimettere in libertà Frenki Simatovic e Jovica Stanisic, però il Consiglio del Tribunale lo ha deciso ugualmente. Così che anche in questo caso non mi aspetto che il Consiglio del Tribunale ascolti la spiegazione della procura. Mi sembra invece che si seguano altre logiche a me oscure. E mi chiedo se è possibile che i giudici del Tribunale dell’Aia abbiano qualche altra ragione, ossia che tengano in considerazione alcune altre ragioni di carattere politico e pragmatico.

E per quanto riguarda i tribunali locali in Serbia?

Sono iniziati i processi, e penso che sia una buona cosa, per quanto questi processi siano fondati su accuse lacunose, influenzate molto dal punto di vista politico. In queste accuse non c’è niente della pianificazione e dell’organizzazione: si tratta di meri esecutori dei crimini. Sicché a questo livello è chiaro che la posizione riguardo ai crimini è che bisogna giudicare gli esecutori diretti. Non credo che non vada bene, semplicemente lo considero insufficiente, perché complessivamente non aiuta ad ottenere un quadro su cosa abbiamo fatto noi…

Cioè non aiuta il confronto col passato?

Certo, non aiuta. Non è una vera risposta a cosa abbiamo fatto in passato. Tuttavia quando si giunge al processo, si è dimostrato che già in tre casi i giudici sono indipendenti e si attengono ai fatti e alla applicazione delle leggi, e questa è una cosa molto positiva. Inoltre si è mostrato che per le vittime – oltre al fatto che considerano importante per il futuro e per la giustizia vedere gli autori dei crimini davanti al Tribunale dell’Aia – è molto importante vedere che venga riconosciuta la responsabilità, nella morte dei loro cari, anche dei direti esecutori. Ma questo è solo un inizio che va di pari passo con i grandi problemi delle garanzie per i testimoni. La cosa più importante è creare un certo clima in Serbia, tale che gli insider provenienti dalle fila della polizia e dell’esercito vengano a testimoniare. Ma questo clima non c’è. Perché non c’è un messaggio politico che indichi che la virtù civile, il dovere civile, è tale che ogni cittadino che si espone sui crimini commessi rappresenti un contributo alla giustizia e alla società. Al contrario quando qualcuno porta una testimonianza sui crimini commessi lo si tratta come un traditore. Quindi, finché non cambia questo sistema, finché non saranno rispettati quelli che con il loro impegno personale lottano contro l’impunità, per l’accertamento della verità, al posto di quelli che cercano di nascondere i dati e i fatti con cui difendono se stessi e gli altri che hanno commesso i crimini, allora non avremo veramente un clima in cui quei membri della polizia e dell’esercito che si sono comportati professionalmente in guerra, saranno incoraggiati a dire ciò che sanno e ciò a cui hanno assistito.

A proposito di coraggio, lei è considerata una delle donne più coraggiose della Serbia. Come è cambiata la sua vita da quando si occupa di crimini di guerra?

Mah, come sono cambiate tutte le cose negli anni ’90… in quegli anni è giunto un grosso cambiamento che ha cacciato molte persone dal proprio paese, e molti di loro non sono più in vita. Quello che faccio io è solo una piccola risposta a ciò che è accaduto. A tutti noi è cambiata la vita in modo terribile, ma il cambiamento più pesante è avvenuto a chi ha direttamente perduto qualche familiare o a chi ha perduto la propria casa. Ciò che è accaduto a me e ad altri difensori dei diritti umani non è nulla a confronto con quanto è accaduto a queste persone.

Un’ultima domanda: di recente ha ricevuto la cittadinanza onoraria dalla città di Sarajevo, che significato ha per lei questo riconoscimento?

Devo dire che per me è stato il premio più significativo. Perché tutti i premi ricevuti fino ad ora sono riconoscimenti di organizzazioni internazionali o di due organizzazioni della Serbia e una del Kosovo, ma ricevere un riconoscimento dalla Bosnia, dopo tutto quello che è successo, è una grande speranza che cadano delle barriere… per esempio: io sono in Serbia e mi preoccupo del diritto della Serbia. Invece così si pone una sorta di universalità, inizia a crearsi un clima in cui si capisce che, per esempio, io non posso essere vicina a qualcuno che ha commesso dei crimini di guerra, ma posso esserlo con il mio vicino che è amorevole nei miei confronti, e perché ho un sentimento di benevolenza nei confronti di tutte le vittime. Ciò che con questo premio ho iniziato ad avvertire è la perdita delle differenze tra croati, serbi, musulmani. Dopo la messa in onda di quel video sugli Scorpioni e dopo questo premio, ho l’impressione che ci sia molta più comunicazione fra la gente, fra i giornalisti, e penso che questo sia un enorme passo avanti. Perciò credo che questo premio, dopo tutto quello che è accaduto, sia la cosa più seria e più importante che abbiamo ricevuto.

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