Nani e gli zar russi

Nani era una donna anziana. Ogni giorno sedeva da sola in cortile, all’ombra di un noce, filando e cantando canzoni sulla crudeltà dello zar russo. Credeva che la salvezza del popolo ceceno fosse nel granturco e che la sua condanna fossero gli zar e i loro soldati. Il Novecento, visto con i suoi occhi

22/04/2011, Majnat Kurbanova -

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(imh/flickr)

Nessuno sapeva quanti anni avesse. Alcuni dicevano che fosse coetanea di Lenin. Altri affermavano che fosse vecchia come il Novecento, che fossa nata durante l’inverno in cui ad un secolo si era succeduto l’altro. C’era anche chi raccontava che Nani fosse venuta al mondo il giorno dell’incoronazione dell’ultimo zar.

Fino all’ultimo giorno di vita Nani conservò un’insolita chiarezza d’intelletto e di memoria che le consentiva di ricordare, fino ai minimi dettagli, tanto la propria vita quanto gli eventi di cui era stata testimone, e persino quelli di cui aveva semplicemente sentito parlare nei tempi lontani che avevano preceduto la deportazione dei ceceni.

Da allora era passato quasi mezzo secolo, ma anche a mezzo secolo di distanza Nani era certa che lo zar russo, come lei continuava a chiamare il leader sovietico di turno, non avrebbe mai lasciato in pace il popolo ceceno.

Secondo Nani, la forza di opporsi allo zar i ceceni la trovavano nel granturco. “Finché i ceceni mangiano il granturco, loro non potranno distruggerci”, diceva. “Loro vogliono costringerci ad abbandonare il granturco, loro hanno sempre bruciato le piantagioni di granturco…”.

Non erano molti all’epoca a capire il senso quasi sacro di queste parole, e chi lo capiva rimaneva in silenzio. Gli anni Ottanta erano alle porte, e il governo sovietico si impegnava ancora molto perché in quel quinto di superficie terrestre che controllavano non circolassero voci sediziose.

Due volte al mese, il primo e ultimo lunedì, la polizia locale andava da Nani a compilare misteriosi moduli in cui lei, in quanto ex “nemica del popolo” e vedova di un “nemico del popolo”, si impegnava a non allontanarsi dal suo luogo di residenza, non intrattenere legami con soggetti antigovernativi, non fare propaganda antisovietica e non avanzare richieste o lamentele ai rappresentanti delle autorità sovietiche. Tutto questo era accuratamente descritto nei moduli, e due volte al mese l’analfabeta Nani li firmava con la croce. Il marito di Nani, fucilato nel 1944, aveva combattuto contro Stalin e anche a quasi mezzo secolo dalla sua morte rimaneva un “nemico del popolo”.

Due volte al mese, il primo e l’ultimo lunedì, aspettavo sin dal mattino che Nani mi chiamasse. In quei giorni, a mezzogiorno in punto, Nani mi chiamava a gran voce. “Kori (in ceceno, “bambina”)”, gridava, “corri, presto, guarda cosa ha portato di nuovo quel maiale! Rieccolo, non invitato, per niente deciso a sposarmi, quel porco”. Seguiva una lunga tirata di insulti all’indirizzo del “maiale” e di tutti i suoi antenati. Il “maiale” se ne stava lì, rosso di rabbia e imbarazzo. Non osava reagire e sbatteva perplesso le ciglia pallide, stringendo con entrambe le mani i fogli bianchi scritti a macchina.

Allora, nel 1944, mentre i ceceni venivano deportati in Siberia e in Asia Centrale, Nani, il marito e l’unico figlio, nato da pochi mesi, si trovavano con un gruppo di insorti che si nascondevano nelle montagne della Cecenia. Un giorno, durante un trasferimento in montagna, i soldati russi li circondarono. Nani, insieme al neonato e alcuni combattenti, fu costretta a nascondersi in una grotta. I soldati dell’Armata Rossa erano vicinissimi, solo pochi massi all’ingresso della grotta li separavano dalle loro prede, li sentivano distintamente discutere dietro il muro di pietre. All’improvviso l’unico bambino del gruppo, il figlio di Nani, cominciò a piangere. Era stanco del lungo viaggio tra le montagne, affamato e infreddolito. Nani cercò di tranquillizzarlo, provò ad allattarlo, ma non aveva latte e il bimbo strillò più forte. Allora lei gli coprì la testolina con il suo scialle di tela nera, perché l’eco del pianto risuonasse meno nella grotta, e lo strinse forte a sé. Dopo qualche minuto, quando le voci dei soldati si fecero più lontane e Nani lasciò andare lo scialle, il bambino era morto.

Poco tempo dopo gli insorti caddero in un agguato. Il marito di Nani fu fucilato, lei mandata in un campo di prigionia siberiano. Al ritorno si stabilì in un villaggio ceceno di pianura. Non si sposò mai più e continuò a vivere da sola in una piccola casa di mattoni. Ogni giorno sedeva da sola in cortile, all’ombra di un noce, filando e cantando canzoni sulla crudeltà dello zar russo e dei suoi soldati che non smettevano mai di uccidere i ceceni.

Quando i soldati russi, dopo una lunga assenza, tornarono in Cecenia con una nuova guerra, Nani era già vecchia decrepita, camminava a malapena e non ci vedeva quasi niente. Nonostante ciò, si rifiutò di lasciare il villaggio che veniva rastrellato dai soldati. Nessuno tra i vicini riuscì a convincerla a fuggire con loro. Quando, dopo tre giorni, il rastrellamento finì e noi potemmo fare ritorno al villaggio distrutto, fra i quasi trecento morti trovammo anche Nani.

Nani giaceva accanto ad un pozzo coperto di tinta marrone vicino alla sua casetta, fra mucchi di detriti, vetri rotti e pallottole usate. Indossava un lungo abito verde e una maglia verde senza maniche. In testa, sopra il velo nero, portava una fascetta di seta verde, simbolo con cui indicava di essere pronta a morire in una guerra santa. Loro, come Nani li aveva sempre chiamati, loro che lei sapeva sarebbero tornati, loro, che non avrebbero mai lasciato in pace i ceceni finché non li avessero uccisi tutti, loro avevano ucciso Nani scaricando una mitragliatrice nel suo corpo decrepito.

La seppellirono fra trecento nuove lapidi che popolarono il vecchio cimitero locale nel giro di tre giorni, nell’autunno del 1995, quando i soldati russi rasero al suolo un villaggio dove non c’erano né insorti né armi. Un avvertimento per tutta la Cecenia e una punizione esemplare per tutti coloro che osano ricordare le tradizioni degli zar russi e dei loro soldati.

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