Nagorno Karabakh, lasciamo in pace i morti
Quello del Nagorno Karabakh viene spesso definito un “conflitto congelato” ma continue sono le vittime militari da entrambe le parti in conflitto e periodicamente torna a infiammarsi colpendo la popolazione civile
A lungo dimenticato dal mondo, il conflitto del Nagorno-Karabakh, sempre meno congelato, sembra essere costantemente sul punto di riesplodere, come dimostrano i continui scontri che – quasi quotidianamente – vedono l’esercito armeno e quello azero fronteggiarsi in una sfida all’ultima provocazione lungo la linea di confine che separa l’autoproclamata repubblica dell’Artsakh dal territorio controllato dall’Azerbaijan. Balzata improvvisamente all’attenzione dei media stranieri poco più di un anno fa, in occasione della cosiddetta “guerra dei quattro giorni”, conflitto breve ma intenso che lasciò sul campo centinaia di vittime da entrambe le parti, la questione del Karabakh è tornata altrettanto velocemente nell’ombra, nonostante al fronte si continui a sparare e a morire.
Nella notte dello scorso 4 luglio, lungo la linea di contatto si è consumata l’ennesima tragedia, con nuove vittime che sono andate a sommarsi alle oltre 30.000 persone che a partire dagli anni Novanta hanno perso la vita a causa di questa guerra. Secondo il ministero della Difesa azero a seguito di un bombardamento da parte dell’artiglieria delle forze armate armene, una donna e una bambina sono rimaste uccise nel villaggio di Alkhanli, nel Karabakh sud-orientale. Le vittime sono la cinquantenne Sakhiba Guliyeva e la nipotina Zakhra, di soli due anni, mentre la zia della piccola è rimasta gravemente ferita, ed è stata immediatamente ricoverata presso l’ospedale militare più vicino, dove è stata operata.
Strumentalizzare i morti
La morte della piccola Zakhra, in particolare, ha scosso notevolmente l’opinione pubblica azera. Le crude immagini della bambina, ritratta con il volto e i vestiti ricoperti di sangue, hanno presto fatto il giro del web, venendo riprese anche dai i canali ufficiali di diverse figure politiche di spicco, provocando rabbia e indignazione tra la popolazione dell’Azerbaijan. Cavalcando la giustificata collera generata dall’assurda morte di due innocenti, le autorità hanno però dato vita a una vera e propria campagna d’odio contro Yerevan, come dimostrano le dure parole di Hikmat Hajiyev, portavoce del ministero degli Esteri dell’Azerbaijan, che commentando la tragedia ha denunciato “la natura t[]istica dello stato dell’Armenia”, responsabile di “sistematici attacchi mirati all’uccisione deliberata della popolazione civile azera”.
Dall’altra parte della trincea, le autorità de facto del Nagorno-Karabakh hanno rispedito al mittente le accuse , indicando come unico colpevole della morte dei due civili l’Azerbaijan, ritenuto “interamente responsabile delle conseguenze di quanto accaduto”. Secondo la versione armena, gli azeri avrebbero intenzionalmente posizionato la loro artiglieria nei pressi del villaggio di Alkhanli, al fine di utilizzare i suoi abitanti come scudo umano, provando così a dissuadere le forze armene dal rispondere agli attacchi. Invece di fare ammenda, le autorità armene hanno quindi manipolato a loro volta la notizia della morte dei civili azeri per dipingere Baku come un paese pronto a sacrificare senza scrupoli la vita di ogni suo cittadino. Eppure, avendo fatto deliberatamente fuoco sulla zona circostante il centro abitato, l’esercito armeno non può ritenersi esente da responsabilità, proprio come non lo fu Baku quando, nell’aprile 2016, rispondendo a un presunto attacco armeno, distrusse a colpi di razzi Grad una scuola nei pressi di Martuni , uccidendo un bambino di dodici anni e facendo entrare nel vivo la cosiddetta guerra dei quattro giorni.
Una storia che si ripete
Quello stesso giorno, facendo irruzione nel villaggio armeno di Talish, alcuni militari azeri entrarono in una delle abitazioni uccidendo tre civili indifesi , mutilando i corpi di due di essi. Una volta che gli armeni ripresero il controllo del villaggio, le foto dei corpi mutilati vennero diffuse dalla stampa locale, e proprio come le immagini del corpo senza vita della piccola Zakhra provocarono grande scalpore in Armenia. Il governo di Yerevan, così come le autorità de facto del Karabakh, strumentalizzarono ancora una volta queste morti, fomentando l’odio nei confronti dell’Azerbaijan fino al punto di usare le mutilazioni subite dai due civili per accusare Baku di schierare al fronte alcuni combattenti affiliati allo Stato Islamico , pronti a compiere ogni tipo di atrocità nei confronti dei cristiani armeni.
A loro volta, le mutilazioni post-mortem subite dai due civili armeni a Talish riportarono alla mente il massacro di Khojaly del 1992, l’evento più drammatico di tutta la guerra del Karabakh, durante il quale, secondo il bilancio ufficiale fornito dalle autorità di Baku, persero la vita 613 civili azeri. In questo caso fu l’esercito armeno ad attaccare il villaggio azero, al fine di occupare il vicino aeroporto (l’unico di tutta la regione) e neutralizzare le numerose batterie d’artiglieria posizionate nei pressi del centro abitato. L’Azerbaijan, che considera il massacro un vero e proprio genocidio pianificato, accusò gli armeni di avere attaccato e decimato la popolazione in fuga, infierendo sui cadaveri attraverso mutilazioni e torture di ogni tipo . L’Armenia negò però ogni accusa, definendo le mutilazioni una messinscena operata dagli azeri e sostenendo di avere lasciato che la popolazione di Khojaly lasciasse il villaggio, affermando che quest’ultima finì vittima del fuoco azero, nel tentativo di fermare alcuni soldati disertori mischiatisi alla folla.
Senza dialogo la pace è lontana
Dal 1994, anno del cessate il fuoco che congelò ufficialmente il conflitto, lungo la linea di contatto si sono verificati innumerevoli scontri armati simili a quello dello scorso 4 luglio, molti dei quali mortali. A perdere la vita sono soprattutto i giovani soldati che combattono in trincea, spesso ragazzi di non più di 18-20 anni mandati al fronte per proteggere la patria. A volte tra le vittime vi sono anche civili, persone che con la guerra non hanno nulla a che fare, ma che hanno la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, nel mezzo del fuoco incrociato. Che siano vittime civili o militari, il risultato è però sempre lo stesso: invece di riflettere sull’insensatezza di tutta questa violenza, attraverso l’uso di un linguaggio dell’odio finalizzato a denunciare la natura inumana del nemico, Armenia e Azerbaijan finiscono per strumentalizzare ogni perdita, alimentando così le tensioni reciproche.
Man mano che l’odio reciproco aumenta, diminuiscono le possibilità di trovare una soluzione pacifica al conflitto; soluzione che dovrà per forza passare attraverso il ripristino di un dialogo costruttivo tra i due contendenti. Ma mentre Armenia e Azerbaijan continuano a rifiutarsi di collaborare al fine di trovare un compromesso, il conto dei morti continua a salire, come dimostra l’esito dell’ennesimo scontro a fuoco lungo la linea del fronte, che lo scorso 10 luglio è costato la vita a un soldato armeno appena ventenne, l’ultima vittima di una lunga serie che non sembra destinata a chiudersi.