Mykolaiv: sopravvivere anche con l’ironia
La città portuale di Mykolaiv si trova su una direttrice strategica per l’avanzata russa verso nord. Le persone cercano di sopravvivere anche con l’ironia alla guerra, così tra i canti di una band di nonnine, una battuta e una partita a scacchi, si cerca di mantenere alto il morale
La città di Mykolaiv, punto strategico per l’avanzata russa verso nord, resiste ancora ai bombardamenti dell’esercito russo, alla fame e al freddo. Nonostante sia quasi interamente circondata, ieri sono arrivati gli aiuti provenienti da vari Paesi: cibi inscatolati, vestiti, scarpe, quaderni, penne, giocattoli… Tutto quanto viene ammassato in un grande magazzino per essere distribuito nei vari bunker dislocati in diversi quartieri di questa città portuale di circa 500.000 abitanti.
Una mamma chiede se può avere un libro illustrato che mostri figure di animali per i suoi due figli. “La domenica andavamo sempre allo zoo e sono rimasti affascinati dagli orsi”. Lo zoo di Mykolaiv è il più grande e il più vecchio di tutta l’Ucraina (è stato inaugurato nel 1901), ma dal 25 febbraio i suoi cancelli sono chiusi e la direzione ha lanciato un appello per raccogliere fondi e cibo per sfamare gli animali che vi sono rinchiusi.
La temperatura di notte scende diversi gradi sotto lo zero, ma il riscaldamento in intere aree è inesistente. Di notte ci si ripara con coperte cercando di dormire tra una sirena e l’altra, mentre durante il giorno si possono accendere anche fuochi con cui ci si riscalda almeno le mani. Prima di ripartire verso Yuzhnoukrainsk con Rostislav mangiamo una zuppa bollente: “Se bisogna morire, sempre meglio farlo con la pancia piena” dice ridendo.
In realtà Rostilav conosce strade abbastanza sicure; ha quasi settant’anni ed ha sempre vissuto qui: guida il suo vecchio furgoncino attraverso stradine di campagna evitando le arterie principali: “I russi? Mi fermano, chiedono dove vado, controllano il furgone e mi lasciano andare. Che se ne fanno di uno come me?”. Rostilav ha lavorato nei cantieri navali, i più grandi della nazione, prima per i russi, poi per gli ucraini: “Sono nato ucraino, parlo ucraino, i miei genitori sono ucraini, ma nel 1991 ho votato contro l’indipendenza. Intuivo che la Russia non avrebbe accettato un’Ucraina troppo autonoma da Mosca”. Un miliziano ride alle parole di Rostilav: “La verità è che sei sempre stato contrario alle decisioni della maggioranza, qualunque fosse la tua opinione. Per questo anche i russi non ti vogliono”. La vita in Ucraina scorre anche tra battute e freddure. Due anziani si sono seduti in un parco e giocano a scacchi: “La mia casa è ancora intatta, ma se venisse distrutta mi sono portato tutto ciò di cui ho bisogno” dice accennando alla scacchiera: “L’ho comprata nel 1972, quando seguivo l’incontro tra Boris Spassky e Bobby Fischer. Che giornate! Scacco!” urla trangugiando in un colpo un bicchiere di gorilka.
Anche nel bunker, quando si fatica a prendere sonno, ci sono momenti di spensieratezza: un gruppo di ragazzi e ragazze si raduna attorno ad uno smartphone ridendo di gusto al suono della canzone di Natalia Falion, un donnone dalla faccia rubiconda che con un gruppo di altre ucraine ha formato il Battaglione Lisapetniy, una band di stereotipate “nonnine” (così si autodefiniscono) campagnole. Un loro video sembra suscitare l’ilarità del gruppo: vestite in uniformi militari, armate di bastoni, rastrelli, forconi e fucili da caccia antidiluviani, elmetti troppo grandi che ballano come pentolacce sulle loro teste, le componenti si improvvisano partigiane per difendere la loro terra. “Siamo nonnine che vivevano pacificamente nei nostri villaggi, quando ecco che sono apparsi, ai confini, i moscoviti! Ora non siamo più nonnine, ma siamo il Battaglione Lisapetniy! Venite, nonne, venite! Difenderemo la nostra pacifica terra!” cantano le componenti del gruppo in questo video, girato nel 2014, ma oggi attuale più che mai. Anche le babami (le nonne) presenti si divertono per qualche minuto, prima di ripiombare nella realtà con il suono della sirena.
Nel viaggio verso Yuzhnoukrainsk incontriamo truppe russe fino a Oleksandrivka. La centrale nucleare di South Ukraine è a un tiro di schioppo, ma anziché continuare, si sono fermate. “Vi serve un goccio di benzina?” ironizza senza farsi sentire Rostilav, mentre i russi gli fanno cenno di passare.
I due reattori da 980 MW continuano a generare elettricità, mentre gli impianti solari ed eolici nella provincia, una delle aree dove si concentra maggiormente la produzione di energia rinnovabile dell’Ucraina, sono stati distrutti o sono stati esclusi dalla linea elettrica. In centrale la guerra sembra lontana: il lavoro assorbe totalmente le squadre che si danno il cambio nei turni. I rumori dei caccia, delle bombe, dei carri armati qui giungono attutiti. Ci si sente più al sicuro che in città. E nel frattempo si parla della guerra, di Kiev, ci si scambia battute sui propri parenti, famigliari, amici. Si pensa ai colleghi che a Chernobyl continuano a restare in centrale da più di due settimane senza poter andare a casa; si apprende che la centrale di Zaporizhzhia ha ricominciato a inviare dati e che le linee elettriche con Chernobyl sono state ripristinate. Piccole cose che però aiutano a mantenere il morale sufficientemente alto.
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