Montagne di pace

Nell’anno internazionale delle montagne, sul filo della memoria e della attualità, si avvia un confronto sul tema della montagna, spesso luogo di scontri ma anche di formidabili incontri fra culture diverse.

18/11/2002, Redazione -

Lo scorso fine settimana, a Trento e a Rovereto, si è presentato il percorso "Montagne di pace", occasione di riflessione e di indagine su un piano politico, culturale e sociale di quei territori che, dalle Alpi all’Afghanistan, sono stati – e lo sono ancora – investiti da venti di guerra.
Comuni di Trento e di Rovereto ed Ordine dei giornalisti del Trentino Alto-Adige hanno deciso di istituire una serie di ‘sigilli’ da dedicare a questi luoghi ed alle persone che li abitano. Luoghi che rappresentano una sorta di testimonianza critica e di proposta nei confronti di realtà dove guerra e pace si intrecciano alla solidarietà e alla tragedia. Riportiamo qui di seguito il testo scritto da Michele Nardelli, tra i promotori dell’iniziativa e collaboratore dell’Osservatorio, che percorre idealmente le creste e le valli di queste "Montagne di pace".

Un itinerario come risarcimento
Mentre ragioniamo dell’istituzione di un premio internazionale "Montagne di pace" da promuovere nell’ambito dell’Anno internazionale della Montagna, il pensiero va ad una delle pagine più belle scritte in questi anni sulla tragedia jugoslava…
L’immagine di un orto botanico sul massiccio del Velebit che si affaccia sulla Kraijna, del suo curatore, un professore di Zagabria, che «si recava da anni in quella piccola valle per mettere a dimora piantine selvagge: cardi bianchi e viola, lingue di cervo, edelweiss, ciclamini, genziane, pulsatille e così via, per ciascuna scegliendo l’esposizione al sole, il grado di umidità, la protezione del vento, l’humus, la vicinanza alla pietra o all’alto fusto. Aveva poi collocato dei piccoli cartelli con i nomi, una spiegazione più generale della sua opera all’inizio del percorso, e una raccomandazione: raccogliete immagini, non fiori». Che ne sarà di quel giardino? Cosa avrà pensato o che cosa starà pensando il professore di Zagabria del senso che la storia dovrebbe assegnare al singolo … al suo singolo scegliere un’attività?».
Così, nel pensare alla montagna come luogo dove la guerra e la pace raggiungono gli acuti più alti di tragicità e di bellezza, nasce l’idea di un riconoscimento, una sorta di risarcimento, dell’uomo ai luoghi che di questa ambivalenza sono stati il simbolo, l’idea di un percorso di pace nel riconoscere immagini, storie di vita, oggetti che la montagna ha ospitato lungo i sentieri della storia, i luoghi descritti nelle pagine sulla "grande guerra" come quelli delle moderne guerre, nei Balcani come in Afghanistan. Ma anche la montagna come resistenza all’imbarbarimento antropologico di chi pensa e ricorre alla guerra come normale strumento per affrontare le contraddizioni e i conflitti del nostro tempo, la montagna come luogo di meditazione e di incontro con l’infinito e l’incerto… E come luoghi di resistenza anche i parchi di Ohrid e dell’Aspromonte e le forme di gemellaggio che li uniscono, di qua e di là del mare Adriatico, oppure le verdi acque della Una, quel "fiume degli smeraldi" violentato dalle mine oltre ogni cessate il fuoco, le montagne bosniache crivellate di miniere da un’insana idea di sviluppo e poi trasformate in discariche di rifiuti tossici di uno sviluppo altrettanto insostenibile, o – ancora – le colline degli albicocchi di quando l’Afghanistan rappresentava un passaggio obbligato lungo la via della seta.
Ecco a questi luoghi di una natura piegata ma non vinta dalla guerra, a queste immagini che ancora danno senso e dignità nel tempo dei non luoghi, va dedicato un premio diverso, estraneo alla cultura della sfrenata competizione, perché doloroso e gioioso insieme. Un riconoscimento a quei territori e a quelle persone che hanno contrapposto alla follia, quand’anche lucida, della guerra l’amore verso «tutto ciò che è misteriosamente dato».
Lo facciamo attraverso un itinerario che qui presentiamo e sul quale chiediamo il concorso delle nostre comunità, a partire dalle Città delle Alpi, anche quale occasione di sperimentazione di quella cittadinanza planetaria che oggi s’impone se intendiamo essere protagonisti del nostro tempo.

I luoghi, le esperienze

Betlemme
Nel cuore del conflitto, un colle di pace
La città di Betlemme, abbarbicata sull’omonima collina, rappresenta nell’immaginario di gran parte dell’umanità un luogo di pace. Nella sua piazza sorgono a poca distanza l’una dall’altra, la Chiesa della Natività ed una Moschea, realizzata proprio sul terreno donato dalla Chiesa come concreto atto di dialogo e di rispetto del credo religioso di quelle migliaia di profughi arabi musulmani che dopo il 1948, cacciati dalle loro terre, trovarono asilo a Betlemme.
La Chiesa della Natività ha rappresentato in tutti questi tragici anni di violenza un luogo di pace, di rifugio e di dialogo interreligioso. Accanto alla Chiesa sorge la Scuola di Terrasanta dove studiano non meno di cinquecento ragazzi indifferentemente dalla loro religione, mussulmani, cattolici, ortodossi, melchiti. Questa scuola è da anni diretta da Padre Ibrahim Faltas, che dentro il conflitto arabo-israeliano ha svolto un ruolo di dialogo, mettendosi in mezzo in prima persona come quando non ha esitato ad accogliere chi era in pericolo di vita. Padre Ibrahim nel 2000 è stato ospite della città di Trento e la sua testimonianza di mediazione nel conflitto durante la crisi che ha investito la sua Chiesa nella scorsa primavera è stata vissuta dalla nostra comunità con particolare vicinanza.
A lui il riconoscimento del primo Sigillo di pace.
Aspromonte, guerre non raccontate
La tessitura della ginestra
La Locride, terra straordinariamente ricca di storia, bellezze naturali, profumi e sapori eppure teatro di antichi e moderni conflitti, terra di emigrazione e violenza.
In questa regione sorge l’antica Samo, paesino dell’Aspromonte abitato da popolazioni grecaniche, che all’inizio del ‘900 venne bruciato per costringere l’esodo a valle delle popolazioni.
Oppure la vecchia Riace, dal cui mare il 16 agosto 1972, dopo duemila anni di custodia, riemersero i famosi bronzi. Qui un gruppo di donne riunite in una cooperativa ha riattivato una filanda, valorizzato il tradizionale lavoro che si svolgeva nella Locride, andato in parte perduto. Fra questi lavori straordinari e unici, la tessitura della ginestra.
Da sfondo, il Parco nazionale dell’Aspromonte che nel suo recente passato ha saputo guardare di là del mare, gemellandosi con il Parco nazionale di Ohrid (l’omonimo lago segna il confine fra la Macedonia e l’Albania).
In questi anni sono sorti legami importanti di scambio e di cooperazione fra la Locride ed il Trentino, nell’agricoltura di montagna, nella produzione casearia, nel gemellaggio fra scuole.
Il nostro itinerario vuole far conoscere e valorizzare proprio la cooperativa delle donne di Riace, un piccolo simbolo della rinascita di questa terra a partire dal territorio, dalle sue risorse e dai suoi antichi saperi.
Terre desolate
Il Massiccio del Velebit (Croazia) e quell’orto botanico
L’orto botanico a 1480 metri ancora resiste nonostante la tragedia di una pulizia etnica che ha sconvolto la Kraijna, la devastazione di città e villaggi ed un ritorno che ancora non c’è.
A pochi chilometri dal mare Adriatico, ovvero da un turismo che passa qui accanto e che non si pone il problema di uno sguardo verso l’interno, verso una realtà che potrebbe creare inquietudine in chi non vuol sapere e vedere, sorge il massiccio del Velebit e qui, fra splendide vallate segnate dalle "guerre patriottiche" che il nazionalismo e gli affari hanno voluto, un piccolo orto che un professore di Zagabria curava con tanto amore.
Un luogo simbolico che nonostante tutto resiste e che vorremmo prendere in cura, per ridare un senso alla vita di quel vecchio professore che forse non c’è più.

La memoria calpestata
Il Monte Kozara (Bosnia Erzegovina) e quell’albergo…
Il Monte Kozara è stato teatro di una delle pagine più importanti e tragiche della resistenza contro l’occupazione nazifascista durante la seconda guerra mondiale. Oltre 37 mila persone lì vi hanno perso la vita e a loro ricordo si erge sulla sommità del Monte Kozara un imponente monumento, per molti anni meta di visite e manifestazioni. Che, evidentemente, non sono servite ad evitare che dopo mezzo secolo quella terra tornasse ad insanguinarsi.
A due passi dal monumento sorgeva ed ancora sorge un grande albergo: quell’albergo che divenne negli anni ’90, durante la guerra di Bosnia, luogo di stupro etnico.
Ora appare un luogo abbandonato e devastato, quasi spettrale, a dispetto della natura splendida che lo circonda.
A monito di chi ritiene che la pace sia semplicemente assenza di guerra: senza l’elaborazione dei conflitti, questi sono destinati a ripetersi all’infinito a dispetto del tempo, che non è galantuomo.
Coltiviamo un piccolo sogno: è possibile che quel luogo diventi un luogo permanente di elaborazione del conflitto e scuola di riconciliazione?
Oltre i confini
La Val Rugova (Kossovo) e i "Ragni di Peja"
Un’area di particolare valore naturalistico, che dalla città di Pec-Peja, alla fine degli anni ’90 teatro di guerra e di pulizia etnica, si snoda verso il confine con il Montenegro.
Grazie al sostegno del Tavolo trentino con il Kossovo è nata un’associazione di alpinisti che si chiama Marimangat Peje, ovvero i Ragni di Peja, aperta e che vuole essere multietinica, che intende svolgere un’attività di sensibilizzazione e di educazione ambientale. Ed insieme di salvaguardia e di tutela dell’ambiente a partire proprio dalla Val Rugova, dove d’estate vengono organizzati campeggi multietnici per ragazzi.
Una valle che vogliamo di pace, proprio come auspicio di superamento di quei nuovi e tristi confini che la comune casa europea non potrà che trasformare in luoghi di incontro e di meditazione.
Fra una delle Città delle Alpi e la Val Rugova ci proponiamo di far nascere l’incontro fra comunità e gente di montagna all’insegna della pace.
La tragedia cecena
La valle di Pankisi (Caucaso)
Accostare una tragedia iniziata con le deportazioni staliniane di milioni di esseri umani e che solo negli ultimi quindici anni ha causato la morte di almeno 250 mila persone al terrorismo è a dir poco vergognoso. Eppure del dramma della Cecenia non si sente parlare se non nell’eclatanza di vicende come quella del sequestro del teatro moscovita conclusasi con l’uccisione dei sequestratori e di numerosi ostaggi.
Dentro questo dramma, fra i tanti, dimenticato, vorremmo posare la nostra attenzione su quello delle centinaia di migliaia di profughi ceceni che trovano rifugio nelle regioni circostanti. Fra queste, la valle georgiana di Pankisi, regione montana dell’alto Caucaso, dove sono ammassati migliaia di profughi in condizioni disumane. Non ci sono dati ufficiali sul numero dei rifugiati, ma la stima del Ministero georgiano degli Interni è di sei o settemila. La valle non è accessibile alle forze di sicurezza del Ministero degli Interni, accusate dai rifugiati e da ambienti interni al governo stesso, di connivenza con i russi che vorrebbero poter intervenire in armi sul territorio georgiano di Pankisi, da loro accusato di fornire una retrovia sicura ai combattenti ceceni. Il governo georgiano ha ufficialmente negato ai russi il permesso di manovre militari sul proprio territorio, ricevendone in cambio consistenti minacce di guerra. Nonostante la posizione del governo, intorno alla valle le forze di sicurezza georgiane hanno stretto un cordone che impedisce anche l’accesso di generi alimentari e aiuti umanitari per i rifugiati.
Il giornalista italiano Antonio Russo fu ucciso dopo una visita a Pankisi, stessa sorte dell’anchorman di Rustavi 2 (principale canale televisivo indipendente georgiano) Gyorgy Sanaya. Gli abitanti autoctoni di Pankisi sono cristiani ortodossi, ma il "legame della montagna" li unisce da sempre ai ceceni musulmani con cui condividono le dure condizioni di vita dell’alto Caucaso e tradizioni culturali, folcloristiche e rituali legate all’antica religione pagana le cui vestigia sono ancora ben rintracciabili nelle usanze di entrambe le popolazioni.
Riusciremo a portare anche lì un messaggio, non solo simbolico, di pace?
Il monte Ararat e la memoria dello sterminio degli armeni
Il Nagorno Karabakh e le testimonianze di Karen, Anahit e Arzu
Karen Ochanjanyan, fondatore del Comitato dell’Alto Karabakh, con il presidente Kocharyan, fu il primo a denunciare il massacro degli Azeri compiuto dalle sue stesse truppe armene a Chodjallu. Da allora la sua vita è dedicata alla tutela dei diritti umani nel Karabakh, dove è fondatore dell’ Helsinki Citizen Assembly. Vive in semiclandestinità dopo una serie di attentati da parte degli uomini del presidente.
Anahit Bayandour, scrittrice, armena e Arzu Abdullaeva, scrittrice azera, promotrici del primo colloquio interetnico per la pace nel Nagorno Karabakh.
Un impegno da sostenere.

La guerra dell’acqua
Il Pamir (Tagikistan, Kirghizistan, Sinkiang, Afghanistan), l’altipiano coperto d’erba
Dalle 109 montagne che superano i 6.000 metri di altitudine, fra i più grandi sistemi montuosi del pianeta, dagli immensi altipiani, partono i grandi fiumi che portavano l’acqua al Lago (Mare) d’Aral. Portavano, perché proprio grazie alla deviazione dei grandi fiumi, il Syr Darja e l’Amu Darja, per le coltivazioni intensive di cotone, oggi quel mare sta morendo. Questo è il Pamir, nella lingua kirgiza "altipiano coperto d’erba".
L’acqua, il bene più prezioso e sempre meno disponibile in forma potabile del pianeta, la vera emergenza del futuro prossimo e per molti versi del presente.
Oltre a quella dell’acqua, le guerre vecchie e nuove. Quelle vecchie di cui nessuno parla, come nel caso dell’occupazione militare dello XinJiang, regione musulmana cinese; quelle moderne, con bombardamenti "sofisticati" con ordigni da 500 tonnellate per distruggere le montagne dove si anniderebbe il terrorismo internazionale e che non produce altro che vittime civili e decine di migliaia di profughi.
La guerra sul tetto del mondo
Il Tibet e l’area di Porong
Situata nella valle dello Shisa Pangma: questo luogo è un luogo speciale perché una comunità di grandissimo interesse per la notevole capacità che ha saputo esprimere nel recupero del territorio della cultura e delle tradizioni dopo l’invasione cinese e la devastante rivoluzione culturale.
Si tratta di una comunità che fa riferimento alla tradizione buddista Bodong, che è antichissima, … è nata prima di quella Galupa (la tradizione monastica del Dalai Lama) e poi è stata messa in minoranza: restano solo 4 o 5 comunità Bodong in tutto il Tibet!
Qui è stato ricostruito il monastero di Poram con l’aiuto della stessa comunità che si è radicata in Nepal (con l’occupazione cinese una parte importante della comunità ha trovato rifugio in Nepal e lì ha ricostruito il proprio monastero – fulcro della comunità – e ha potuto ritrovare agio e sostentamento economico intessendo rapporti commerciali…). Così, questa parte di comunità di Porong, trasferitasi in territorio nepalese ha potuto aiutare la sua comunità di origine che era rimasta in Tibet… Questo luogo ospita persone che vantano un senso di comunità straordinario!
In quest’area si stanno riportando alla luce le danze popolari sacre e profane più antiche e l’uso delle maschere antiche che erano state spazzate via con l’invasione cinese. Proprio in quest’area sono state costruite delle scuole da alcune sezioni della SAT.
Le culture e le tradizioni locali che resistono ad ogni potere omologante, quello del regime cinese come quello di una globalizzazione invasiva.

Storie di persone come racconti di guerra
La valle incantata e la memoria a noi vicina
Il nostro itinerario si conclude in una valle a noi vicina, quando la vicinanza non sempre significa conoscenza. Non a caso il più bel racconto sulla "valle incantata", la nostra Valle dei Mocheni ci viene trasmesso dall’ufficiale dell’impero austro-ungarico Robert Musil, nella sua novella "Grigia".
Ripercorrere i luoghi delle guerre a noi prossime diviene un passaggio fondamentale in quell’ingrediente fondamentale della pace che è l’elaborazione del conflitto, ovvero la capacità di leggere il passato per capire il presente e guardare al futuro.
L’esito del recente referendum a Bolzano sul contesto nome di una piazza chiamata Vittoria, poi della Pace e poi di nuovo Vittoria ci dice che il tempo da solo non cura le ferite.
Ecco perché guardare dentro noi stessi, la nostra storia, è importante per costruire una cultura di pace fuori dalla ritualità demagogica e dagli slogan.

Michele Nardelli

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