Miroslav Krleža, un viaggio nell’infanzia dello scrittore

È l’unica opera propriamente autobiografica nell’immensa produzione letteraria di Krleža. Djetinjstvo u Agramu (1902-1903) è uscito finalmente in edizione italiana col titolo La mia infanzia ad Agram, per i tipi di Infinito edizioni, nella traduzione di Anita Vuco

24/02/2023, Božidar Stanišić -

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Monumento dedicato a Miroslav Krleža, Opatija, Croazia © Bokic Bojan/Shutterstock

A distanza di settant’anni dalla prima pubblicazione del libro Djetinjstvo u Agramu (1902-1903) [L’infanzia ad Agram], nel 2022 è uscita l’edizione italiana di questa prosa autobiografica di Miroslav Krleža, ed è la terza traduzione di quest’opera in una delle lingue europee, dopo quella tedesca (1981, 1986) e quella olandese (1997). Se non fosse stato per l’impegno dell’instancabile Anita Vuco e per il fiuto dell’editore Infinito, dubito che la versione italiana dell’autobiografia di Krleža avrebbe visto la luce (è il quarto dei sei libri ad oggi pubblicati nella collana Mansarda, curata da Anita Vuco). È una vecchia storia che riemerge miracolosamente con ogni nuova edizione delle opere di Krleža in Italia e in Europa, per poi venire di nuovo banalmente dimenticata. Quindi, senza avere alcun impatto su quel laboratorio dove nascono i concorsi letterari europei e nazionali nel cui “menù” (leggi: progetti editoriali sovvenzionati sommersi da opere letterarie mediocri) solo raramente compare uno di quei classici senza i quali è impossibile pensare la letteratura.

Ma torniamo a Krleža. In un’intervista Danilo Kiš affermò che nell’intera storia della letteratura jugoslava c’era solo una prosa da cui poteva imparare come scrivere di infanzia, riferendosi proprio a Djetinjstvo u Agramu, opera basata sul diario di Krleža scritto a Zagabria durante la Seconda guerra mondiale. All’inizio degli anni Cinquanta Krleža decise di riprendere in mano alcune pagine di questo diario scritte nel luglio del 1942, rielaborando e ampliando il testo, che poi fu pubblicato col titolo Djetinjstvo u Agramu nel 1952 nel numero 12 della rivista Republika.

Djetinjstvo u Agramu è l’unica opera propriamente autobiografica nell’immensa produzione letteraria di Miroslav Krleža. Un’opera nata durante la Seconda guerra mondiale nel neonato Stato indipendente di Croazia (NDH) in un contesto “culturale” segnato da crimini efferati perpetrati secondo un piano ben preciso. In quel periodo Krleža temeva per la propria vita e, impensierito di fronte alla Storia in Movimento, nel suo Diario rifletteva anche sulla guerra, sulla follia totale, su un’Europa che aveva toccato il livello più basso di civiltà e sulla stupidità umana. Il suo era un timore concreto: prima della guerra si era scontrato con i dogmatici del movimento comunista (mi riferisco ad uno scontro sui valori estetici e l’utilitarismo ideologico che aveva sconvolto la sinistra), per poi rifiutare, durante il regime ustascia, di fare propri “i valori” dell’NDH. Da un lato, i partigiani invitarono Krleža a unirsi al loro movimento, dall’altro l’NDH – quindi uno stato alleato dei nazisti che stava compiendo un pogrom nei confronti degli ebrei, serbi, rom, comunisti e di tutti quelli che la pensavano diversamente – gli offrì diversi alti incarichi nelle istituzioni culturali, quello di presidente dell’Accademia, quello di direttore del Teatro nazionale, etc.

Alla fine di aprile del 1942 Krleža fu arrestato, e mentre era in prigione in via Petrinjska alcuni membri della Lega della gioventù comunista di Jugoslavia gli sputarono in faccia a causa del suo antidogmatismo. Lo scrittore, quasi cinquantenne, scoppiò in lacrime. Un episodio degno della tragedia antica: Krleža ben presto fu rilasciato, tornando alla sua vita, mentre quei comunisti probabilmente furono fucilati. Durante la guerra lo scrittore sopravviveva grazie allo stipendio di sua moglie, Bela, che faceva l’attrice (fatto che fu rimproverato a Krleža anche dopo la guerra, ma Tito ne prese le difese). In una situazione così complessa, in cui non volle schierarsi dalla parte degli ustascia, ma nemmeno unirsi ai partigiani, Krleža disse a se stesso: “Meglio che io muoia per mano di Dido [Slavko Kvaternik, il secondo uomo più potente dell’NDH dopo Ante Pavelić] che per quella di Đido [Milovan Đilas]”.

Questa vicenda ebbe un forte impatto sulla produzione letteraria di Krleža negli anni della guerra. Ora però focalizziamoci su altre questioni.

Credo che Krleža non potesse fare a meno di dedicare alcune pagine del suo Diario alla sua infanzia (un bisogno che può essere percepito in modo superficiale o non compreso affatto solo da chi non conosce il timore dello scrittore di andarsene da questo mondo senza portare a compimento le proprie idee artistiche.) Dal punto di vista formale, Djetinjstvo u Agramu è un romanzo breve, un ibrido tra scrittura autobiografica e saggistica, una prosa peculiare anche per via degli intermezzi inseriti tra le diverse parti del testo in modo da creare un insieme narrativo compatto (l’unico frammento che potrebbe non piacere a chi non proviene dalla Croazia o dagli altri paesi della regione è quello dedicato alla lingua croata, un frammento ricco di esempi che difficilmente susciteranno l’interesse dei lettori stranieri.)

Djetinjstvo u Agramu è un’opera in cui Krleža riflette non solo sulla sua infanzia, ma anche sull’io artistico nell’infanzia (riflessioni simili a quelle che spinsero Joyce a scrivere Ritratto dell’artista da giovane) e sullo sviluppo della consapevolezza del mondo in cui veniamo gettati senza avere alcuna voce in capitolo. Krleža si ritrova in un mondo basato su un ordine religioso, politico e culturale prestabilito, imperniato su idee del tutto rigide che spingono l’uomo ad adottare il più becero degli utilitarismi. L’esplorazione del sé compiuta da Krleža è anche un viaggio attraverso quella che laconicamente definiamo civiltà senza nemmeno chiederci se i sistemi politici, economici e culturali possano essere messi in discussione. Tuttavia, è difficile concordare con quei critici che in questo addentrarsi dello scrittore nel profondo del suo animo vedono un metodo psicoanalitico. È un processo che assume una chiara dimensione psicologica,  ma in nessun modo può essere considerato psicoanalitico.

Il giovane Krleža, ministrante a Kaptol, crede in Dio, ma inizia a mettere in dubbio tutto, letteralmente tutto. Certo, i suoi dubbi non nascono né finiscono nell’infanzia, bensì crescono durante un intenso processo di acquisizione della consapevolezza di sé. Un processo che porta Krleža a criticare Tutto, dalla scuola all’esercito, dalla teologia all’estetica, dalla scienza all’attualità politica. Addentrandosi alla scoperta della realtà, che non coincide con l’immagine che ci viene presentata dagli adulti, Krleža, seguendo la luce dello scetticismo, cerca di farsi strada nella nebbia delle illusioni del mondo adulto per conquistare le proprie verità. Krleža non è uno di quegli scrittori che, narrando la propria infanzia, si sforzano di accontentare il lettore con vari aneddoti e idee infantili: non cade nel banale nemmeno quando scopre che l’uomo non è che un animale e che anche un orango può soffrire di mal di testa.

In Djetinjstvo u Agramu Krleža riflette e racconta se stesso e gli altri come un adulto, indicando precisamente il momento in cui l’autenticità del proprio io diventa l’imperativo a cui non rinuncia nemmeno quando inizia a sentirsi solo tra le persone che accettano le verità prestabilite. Se tralasciamo alcune pagine in cui lo scrittore parla di sua nonna e del profondo legame emotivo e intellettuale che lo univa a quella donna capace di riflettere sul mondo e su Dio con grande lucidità, è chiaro che Krleža già nell’infanzia sente il peso della sensazione di essere soli (che però, secondo lo scrittore, non equivale ad avere torto) e di non far parte del gregge.

Un altro aspetto impressionante di questa prosa riguarda il tentativo di Krleža di mettere a confronto la propria infanzia e quella di Sant’Agostino, ossia la propria conversione e quella del grande filosofo. Nel passaggio di Krleža da una visione teologica del mondo che gli viene imposta ad una visione liberamente scelta, basata su teorie darwiniane e materialistiche, la comprensione del senso del gioco assume un ruolo fondamentale. Per Krleža, il gioco ci apre gli occhi nell’infanzia, aiutandoci a conoscere la felicità, e poi nell’età adulta ci porta a comprendere il senso della libertà di espressione artistica e della magia dell’atto creativo.

Nel febbraio 2022 nel centro culturale Travno a Zagabria è andato in scena lo spettacolo Djetinjstvo u Agramu basato sull’omonima opera di Krleža e sui suoi Fragmenti, una breve prosa autobiografica pubblicata per la prima volta nel 1914 sulla rivista Književne novosti, per poi essere inclusa nel Dnevnik 1933-1942. Lo spettacolo si concentra sul tentativo di Krleža di liberarsi da “formule sociali imposte, da un mondo infantile ordinato e sovrastato da Dio”, rifiutando tutte le convenzioni “che distorcono la realtà”.

Parlando di teatro, ricordo che negli anni Ottanta a Zagabria discussi col poeta Enes Kišević di Krleža, scomparso poco tempo prima. Mentre scrivevo questo articolo ho inviato una breve lettera a Kišević chiedendogli se potesse dissipare un dubbio sorto nella nebbia della mia memoria ormai vacillante: durante il monologo Moj obračun s njima [Il mio scontro con loro], basato sull’omonima opera di Krleža, messo in scena poco dopo la morte dello scrittore, l’attore Rade Šerbedžija mise sul palco una copia di una statua di Krleža con le spalle rivolte al pubblico? La risposta è arrivata dopo meno di un’ora: “Sono riuscito a parlare con Rade, la memoria non ti inganna, quell’immagine è esatta, la scultura di Krleža con le spalle rivolte al pubblico. Un gesto con cui Rade cercò di fornire un’immagine simbolica della scomparsa di Krleža…”.

È vero, Krleža se n’è andato, rimanendo però sempre un passo davanti a noi. Né la Jugoslavia né l’Europa del Muro sono mai riuscite a seguire quel passo di Krleža, così come oggi non sono capaci di seguirlo né la Croazia né la regione post-jugoslava, né tanto meno l’Europa neoliberista.

Credo però che oggi in Europa Krleža debba essere percepito come uno scrittore le cui opere – oltre ad essere lette dagli scrittori, soprattutto da quelli che cercano ancora di raggiungere quello “squillo di tromba” di cui parlava Van Gogh riferendosi alla propria visione dei colori – si rivolgono anche a quei lettori, purtroppo pochi, ma spero resilienti, che nella letteratura cercano qualcosa di più dei titoli più venduti secondo le classifiche del momento.

Alcuni frammenti tratti dal libro La mia infanzia ad Agram

Ogni uomo fin dalla nascita è un artista! Ogni uomo è alla ricerca di quell’intima formula poetica che possa rispecchiare il suo vissuto personale, visualizzando dentro di sé le impressioni delle proprie sensazioni estetiche. Fin dalla prima infanzia, persi lungo la deviazione davanti al segreto di una cortina di stelle, davanti ai giocattoli, davanti ai pericoli bestiali, le persone si smarriscono dentro una quantità di domande vasta e vaga, e nell’interpretare la realtà di solito si affidano agli anziani: ai genitori, alla scuola, all’educazione, alle verità sociali, e così, affidandosi alle esperienze altrui, le persone, se non sono dotate di qualche tipo di fantasia che le contraddistingua, si deformano quotidianamente secondo schemi già prestabiliti. Nel corso dell’apprendimento, le persone in realtà perdono la capacità di guardare senza paraocchi, poiché nelle scuole non viene insegnato loro a vedere, ma a essere ciechi. Le persone vengono allevate come se fossero cavalli e, addestrandole, coprono loro gli occhi, le ammaestrano come scimmie e cani da circo, le stroncano nelle caserme subordinandole agli imperativi elevati a santuari, basati sulla Violenza senza eccezione alcuna, che definisce il proprio primato in termini di Divinità.

In tal modo l’uomo ha intrapreso la strada più ovvia verso la stupidità e si ritroverà a concludere la propria carriera come un burattino di legno, modellato sulle loro esigenze per renderlo passivo, in questo gran teatro delle marionette, in questo gioco sociale di guerre, di tirannie, di catastrofi, del culto delle menzogne e del mito della criminalità. Non lasciandosi soccombere alla tirannia, solo individui più ostinati conservano dentro di sé un’immagine vivida della loro infanzia libera, non soggetta ad alcuna regola: queste sono le antiche ispirazioni infantili, ormai perdute, custodite giusto nel cuore di quei pazzi che la plebe chiama poeti.

(…)

Dai frammenti che ricordo, ero un bambino con la fantasia giocosa: fin dove la mia memoria arriva, godevo immergermi nella penombra della chiesa, quando in fondo alla navata buia tremolava un lumino o scoppiettava una candela, con la sua fiamma fuligginosa che vibrava verticalmente, irrequieta, mentre dall’esterno giungeva il garrito delle rondini. Nella semioscurità della chiesa origliavo i sospiri delle donne anziane in preghiera quasi fossero una misteriosa rivelazione della tristezza, vaga e incomprensibile. In un modo che suscitava la simpatia, era assai strano sentire quelle donne sospirare nella semioscurità, come se qualcosa di doloroso le stesse ferendo, mentre il tuono degli inginocchiatoi nella chiesa vuota esercitava su di me l’effetto del mistero: in una casa deserta, dove non vive nessuno, viene messo a posto l’arredo liturgico. Che strano! L’odore semi-ammuffito della grande navata della chiesa, insieme all’odore delle vecchie pergamene, con rilegatura in pelle leggermente putrida, ancora oggi è altrettanto intenso. Quando mi ricapita di essere investito dall’ondata dell’odore dei libri di chiesa, tutt’oggi la sensazione che provoca in me è altrettanto potente quanto lo erano state quelle antiche, prime impressioni, e posso misurare la sua intensità con quegli odori di quarant’anni addietro, non ancora svaniti. Questo odore, di per sé, ormai non ha più alcun significato particolare, né potrebbe averlo; queste associazioni contengono degli elementi olfattivi antichi, e questo è tutto: annuso le chiese alla ricerca delle bellezze defunte, come un cane. Queste associazioni sono legate ad antichi odori le cui cascate inebriavano il mio olfatto con una strana intuizione degli spazi inconcepibilmente profondi, in maniera del tutto spontanea, poiché nessuno mi ha mai indirizzato a curiosare nei luoghi di culto vuoti, alla ricerca di tracce angeliche sui sentieri celesti. Nelle chiese delle varie città, e in vari stati d’animo, andavo annusando con ostinazione l’ombra della mia infanzia svoltasi nelle chiese di Kaptol. Quante volte il mio diaframma è stato turbato da un’amara nostalgia di qualcosa che è morto da molto tempo, qualcosa che ci era caro, e la soavità di quell’esperienza non si è ancora spenta.

(…)

Venivamo sommersi da citazioni latine e non mancava mai l’occasione per ricordarci che non eravamo ovviamente i primi ministranti che si stanno preparando per questo grande ruolo gradito a Dio, perché c’erano stati già altri ministranti prima di noi, alcuni dei quali molto rispettabili. Così, per esempio, ogni mattina, dopo aver celebrato la propria Messa, San Tommaso d’Aquino ne ministrava un’altra, che era servita – com’è ovvio che sia – da qualcun altro, mentre il Beato Thomas Morus, il personaggio più eminente della Corona britannica e Lord Cancelliere del Regno, disse a Sua Maestà il Re (quando il Re osservò con disprezzo che lui, in quanto Cancelliere del regno, non avrebbe dovuto fare il ministrante nelle chiese), che servire all’altare del Signore è un onore incomparabilmente più grande che servire al sigillo della Cancelleria di Sua Maestà il re d’Inghilterra! Che degli angeli fossero i ministranti di San Biagio, ce lo presentarono come prova del fatto che un angelo può davvero materializzarsi nella chiesa per fare il ministrante! Un angelo può avvicinarsi a un qualunque ministrante, illuminato dalla luce del proprio corpo angelico, una luce stellare, magnetica, sovrumana, spirituale, una di quelle luci che di solito appaiono sopra l’altare stesso come un raggio di aurora boreale verdastra estesa sui lillà, sulle rose e sui gigli, nel fumo dell’incenso, come una diagonale della luce solare, disturbata da vortici di fumo infuocati, che si piegano sotto i fasci di illuminazione viola scuri o giallo oro provenienti dalle vetrate, quasi fossero dei serpenti blu chiari; in un momento simile ogni ministrante può essere avvicinato da un angelo, biondo, snello, traslucido, tenero come una fanciulla, in una dalmatica ricamata in oro, con le ali splendenti, e un incensiere che scintilla di gioielli celestiali.

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