Milo Đukanović: la sconfitta dell’ultimo “re del Montenegro”

Dopo trent’anni di dominio incontrastato, con le elezioni di domenica 30 agosto il presidente del Montenegro Milo Đukanović ha perso il controllo del parlamento di Podgorica. La parabola di "re Milo" e le ragioni profonde della storica sconfitta di un leader tanto longevo quanto controverso 

03/09/2020, Francesco Martino -

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Il presidente del Montenegro Milo Đukanović - © urbans/Shutterstock

(Quest’articolo è stato pubblicato anche su Euractive Italia )

“Il monarca del Montenegro”: è un ritratto stringato, ma eloquente, quello che il settimanale britannico “The Economist” dedicava poco più di un anno fa a Milo Đukanović, il leader – tanto longevo quanto controverso – che ha dominato la vita politica della piccola repubblica sull’Adriatico negli ultimi trent’anni.

Anche per l’inossidabile “re Milo”, politico in grado di navigare le insidiose e spesso fatali acque della politica balcanica forse meglio e sicuramente più a lungo di ogni altro, è arrivato però il momento della sconfitta. Con le elezioni politiche di domenica 30 agosto il padre padrone della politica montenegrina e il suo Partito democratico dei socialisti (DPS) hanno infatti perso per la prima volta il controllo del parlamento dal 1991, anche se Đukanović resta ancora il presidente in carica (il suo mandato scadrà soltanto nel 2023).

Una piccola rivoluzione giocata sul filo di lana, dopo una notte elettorale in cui si rincorrevano notizie incerte e contraddittorie. A conteggio dei voti ultimato però, è emerso il nuovo panorama politico del Montenegro: pur conservando la maggioranza relativa – e nonostante il contributo dei suoi tradizionali alleati – il DPS non è in grado di creare una nuova coalizione di governo nel prossimo parlamento di Podgorica. Per un solo, fatidico voto.

A detronizzare “re Milo” alle urne è stata una compagine variegata, unita fino ad oggi soprattutto dalla volontà di “mettere fine al ‘suo’ regime”: l’alleanza filo-serba e conservatrice “Per il futuro del Montenegro”, quella democratica e filo-europea riunita intorno allo slogan “La pace è la nostra nazione”, quella progressista ed ecologista di “Nero su bianco”.

Il giorno successivo alla vittoria elettorale, i leader delle diverse anime dell’opposizione si sono incontrati per gettare le basi della piattaforma politica su cui costruire il nuovo Montenegro post-Đukanović: un governo tecnico con l’obiettivo primario di guidare il paese attraverso la crisi economica provocata dalla pandemia di COVID19 e riformare le istituzioni, una professione di fedeltà alla prospettiva europea del Montenegro, la mano tesa alle minoranze etniche, invitate a partecipare al nuovo esecutivo “per costruire insieme un nuovo Montenegro” e la promessa di rivedere i provvedimenti “discriminatori” voluti dal vecchio esecutivo, tra cui la contestata legge sulla libertà religiosa.

Secondo la maggior parte degli analisti, è stato proprio questo controverso provvedimento, approvato nel 2019, a costare a Đukanović il potere trentennale, che fino a pochi mesi fa sembrava ancora inossidabile. La legge, che prevede la nazionalizzazione dei beni religiosi in mancanza di documenti ufficiali di proprietà, ha infatti messo il governo in rotta di collisione con l’influente Chiesa ortodossa serba, provocando tensioni e proteste violente, ma soprattutto risvegliando la faglia identitaria tra “anima montenegrina” e “anima serba” (circa un terzo dei cittadini montenegrini si dichiara di etnia serba) che continua a dividere il Montenegro nonostante l’indipendenza (2006), l’ingresso nella Nato (2017) e lo stato relativamente avanzato del percorso di integrazione nell’UE, intrapreso da Podgorica nel 2012.

Tanto più che la Chiesa ortodossa serba, sotto la guida dell’arcigno vescovo Anfilohije, non si è limitata scagliare anatemi contro l’esecutivo, ma si è lanciata anima e corpo nella campagna elettorale, battendo il paese porta a porta: una strategia che aiuterebbe a spiegare anche l’affluenza record alle urne (76,5%).

Le ragioni della sconfitta, però, affondano le proprie radici nelle profonde contraddizioni che hanno accompagnato la lunga parabola di Đukanović. Ripercorrerla significa ripercorrere le vicende, spesso divisive e drammatiche, che hanno segnato la storia recente non solo del Montenegro, ma di tutti i Balcani occidentali: da giovanissimo e rampante alleato di Milošević durante i conflitti che hanno segnato la dissoluzione violenta della Jugoslavia, con innegabile fiuto politico “Milo” si è trasformato negli anni in un leader moderato, filo-europeista e filo-atlantista, accentuando però sempre di più una gestione personale e nepotista del potere, segnata da corruzione diffusa, gravi limitazioni alla libertà di stampa e dall’asservimento delle istituzioni agli interessi personali e di partito.

Un filo conduttore sotterraneo che si snoda durante le varie stagioni del suo potere: da quella jugoslavista e bellicosa, passando per quella indipendentista e “montenegrina”, per approdare infine a quella “euro-atlantica” in cui Đukanović è riuscito a guadagnarsi dai leader occidentali una benevola amnesia sui peccati del passato (a lungo la magistratura italiana lo aveva accusato di aver gestito un imponente traffico di sigarette di contrabbando) facendosi garante della “stabilità” del paese, col timone fermamente puntato verso Occidente e lontano da Mosca.

Una strategia alimentata e resa (con)vincente anche dallo scontro frontale – identitario e geo-strategico – con l’opposizione filo-serba e filo-russa e che ha vissuto il suo momento più drammatico e teatrale durante le elezioni politiche del 2016, quando con una serie di arresti la polizia montenegrina dichiarò di aver sventato un colpo di stato progettato a Mosca e Belgrado per eliminare fisicamente Đukanović ed impedire l’ingresso del paese nella Nato.

Le indagini che seguirono il tentato golpe, sulla cui dinamica rimangono molte linee d’ombra, portarono a varie condanne, tra cui quella a cinque anni di reclusione per due dei leader del Fronte democratico filo-serbo, Andrija Mandić e Milan Knežević.

Quattro anni più tardi lo stesso Fronte (all’interno della più ampia alleanza de “Per il futuro del Montenegro”) che negli anni scorsi ha difeso strenuamente posizioni filo-serbe e filo-russe, contestando ad esempio apertamente l’ingresso del Montenegro nella Nato, si ritrova ad essere la colonna portante del primo esecutivo del “dopo-Đukanović”, anche se in coalizione con forze tradizionalmente filo-europee e filo-occidentali.

I primi passi della nuova coalizione di governo puntano apertamente a inviare messaggi tranquillizzanti, dopo lunghi mesi di tensioni e scontro aperto. Innanzitutto a livello interno, dove è stata tesa la mano sia agli elettori del DPS con l’idea di una “pacificazione nazionale”, accompagnata da lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata, che ai rappresentanti delle minoranze – spesso ancora guardinghi nei confronti di forze legate a un’identità politica gran-serba.

Ma anche a livello internazionale, con la conferma formale dell’impegno a rispettare gli accordi presi e di proseguire sulla strada di integrazione nell’Unione europea (la questione Nato è stata opportunamente lasciata inevasa, ma sembra difficile che la membership montenegrina all’Alleanza atlantica possa venir messa in discussione dal nuovo esecutivo).

Naturalmente, non tutti i dubbi e le preoccupazioni sono già superati. Integrazione europea e riforme istituzionali potrebbero fornire alla nuova variegata coalizione di governo quel minimo comun denominatore politico di cui l’alleanza ha bisogno vitale per durare nel tempo. All’orizzonte è facile intravedere tempi difficili, soprattutto se la crisi economica legata al COVID dovesse approfondirsi ancora di più nei prossimi mesi. In quel caso, la mancanza di una vera esperienza di governo dei vincitori del 30 agosto potrebbe emergere in fretta, mettere in difficoltà l’esecutivo e riportare alla luce le profonde differenze tra le forze che lo compongono.

Nel frattempo, però, la giovane democrazia montenegrina vive finalmente quanto non aveva mai sperimentato dalla sua nascita: il trasferimento di potere da un governo all’altro attraverso la volontà e il voto dei suoi cittadini.

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