Migrazioni: dalla Francia alla Serbia, e ritorno

Sanja e Vuk sono nati in Serbia, emigrati poi in Francia, prima di “ritornare a casa”. Grégory e Jelena sono invece nati in Francia ed hanno deciso di ritornare nel paese d’origine dei propri genitori. Un racconto a quattro voci

04/12/2019, Léa Djenadi -

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Belgrado - Pxhere.com (CC BY 2.0)

(Pubblicato originariamente da Courrier des Balkans il 22 ottobre 2019)

Sanja e Vuk sono nati in Serbia. Quando la guerra ha dilaniato l’ex Jugoslavia hanno deciso di andarsene in Francia, dove sono rimasti anche dopo che le armi, nel loro paese, sono rimaste mute. Grégory e Jelena sono nati in Francia da genitori serbi. Tutti e quattro hanno una cosa in comune: vivono attualmente in Serbia pur mantenendo relazioni con la Francia.

Vuk è in pensione e divorziato. I suoi figli sono indipendenti da tempo. Con l’età, ha sentito il bisogno di tornare a casa. “La mia storia non può essere scissa da quella della Serbia. È il mio paese, la mia lingua, i miei villaggi. La neve in inverno, i miei ricordi di infanzia. Avevo bisogno di tutto questo e questo rende più tranquille alcune mie domande sulla vita e sulla morte”. Una volta ritornato, Vuk ha chiamato dei cugini, con cui aveva mantenuto sporadici contatti. “Mi hanno subito invitato, per la slava, per i compleanni, per ballare. È proprio questo legame familiare, credo, che mi mancava in Francia”.

Anche il rientro di Sanja è legato a legami familiari. “In serbo non c’è parola per definire i cugini. Si chiamano fratelli e sorelle”, racconta preparando del caffè turco in una vecchia džezva. “Recentemente ho vissuto molte rotture. Ho perso mio padre, mi sono separata da mio marito, al lavoro non tutto andava bene. E mia figlia sta entrando nell’adolescenza. Mi sentivo sola in Francia. E mentre iniziavo a parlare di un possibile rientro la nostra famiglia allargata ci ha preso sotto la sua ala protettrice…”.

Vuk, Sanja e sua figlia vivono ora a Belgrado. Amano la città, “un grande villaggio”, dove tutti sembra si conoscano, dove si può camminare lungo il Danubio anche di notte. Ma vivono, a volte, qualche increspatura tra le persone che la circondano. Storie intime legate ai bui anni ’90. “Quando bevo un bicchiere con i miei cugini si parla sempre dei bombardamenti Nato”, racconta Vuk. “E la Francia di qui, e la Francia di là… in quei momenti mi vedono come un francese, è ovvio, e come un francese che avrebbe un peso politico che io stesso ignoro!”, sorride.

L’inverno scorso si è recato a visitare una chiesa in un paesino. All’ingresso suo cugino si è fatto il segno della croce ed ha acquistato una candela. “Mi ha molto colpito. Quando eravamo giovani eravamo dei feroci comunisti. Gli ho detto che i conflitti religiosi hanno ucciso il nostro paese. Lui mi ha risposto, il tuo paese, la Jugoslavia. Noi, siamo la Serbia. Lo ha detto senza animosità, ma mi ha fatto riflettere. Quando si ricerca la propria gioventù, si ricerca sempre qualcosa che non esiste più. E per me, è il mio paese che non esiste più. Credo di essere franco-jugoslavo e non franco-serbo”.

Per Sanja il sostegno ottenuto non significa che non vi siano problemi. I suoi parenti, come molti altri in Serbia, hanno stipendi molto bassi ed hanno difficoltà a pagare le spese sanitarie o gli studi per i figli. “Nessuno mi ha mai fatto pesare la mia decisione di andarmene in Francia. Ho avuto un’occasione, l’ho presa. Ma il mio ritorno sembra quasi che da parte loro sia visto come una forma di arroganza, perché mantengo dei privilegi francesi. Lo stipendio, dato che lavoro a distanza, oppure il sistema sanitario francese. Li aiuto dal punto di vista finanziario ma rimane latente la questione”.

Jelena e Grégory sono più giovani di Vuk e Sanja non si sono mai trovati ad affrontare le questioni inerenti alla guerra. Ma le questioni economiche mettono alla prova il loro rientro. Grégory ha avviato un’attività di importazione di prodotti culinari francesi. “Quando ero piccolo passavamo tutte le nostre vacanze qui. Dopo la guerra sono passati un po’ di anni prima che tornassimo. Cinque anni fa mio padre ha detto che qui c’era del potenziale, che voleva investirci. Ma non è semplice perché il potere d’acquisto è ancora molto basso”.

Jelena, dal canto suo, ha trovato alloggio nell’appartamento si suo nonno, venuto a mancare. “Avevo voglia di esplorare il paese dei miei genitori e poi vi era la cosa che non avrei pagato l’affitto…”, scherza lei. Jelena vive grazie a corsi di francese e traduzioni, con circa 300 euro al mese. “Mi piace il casino che c’è qui, il sentimento di sicurezza la notte se voglio uscire a fare fotografie, il lato naturale delle relazioni”.

“Le città sono belle, la gente esce molto con gli amici o con la famiglia, nei caffè, nei parchi, lungo i fiumi”, aggiunge Grégory. “I serbi si aggrappano a tutto questo. Per lo meno il quotidiano è piacevole”. Ma nonostante un quotidiano piacevole vi è a volte l’impressione di una vita sospesa. “Qui mi sento immobile, il paese intero è immobile”, sospira Grégory. “Vi è il timore di divenire la nuova Budapest con processi estremi di gentrificazione, con molti serbi che non si possono nemmeno permettere un’automobile. Tutto questo provoca il rigetto, violento, degli investitori stranieri. Oscillo tra il sentirmi francese e il voler comprendere le opportunità legate all’allargamento dell’Unione europea e il sentirmi serbo, che è scettico, e vede già gli affitti alzarsi mentre i salari restano al palo”.

Per Jelena le difficoltà di adattamento sono legate soprattutto alla sfera dell’intimità. "Tutti i miei amici sono sposati, hanno figli. Ciò corrisponde a una vera e propria pressione che subiscono, come se la famiglia fosse l’unico status sociale che possono permettersi. Ho detto ad una amica che non mi vedevo con dei figli guadagnando 300 euro al mese. E lei mi ha risposto: ‘E allora, quando li farai?’ “.

Jelena non ha ancora piani per il futuro. Passa per ora il tempo avanti-indietro tra Serbia e Francia. Gregory prevede di trasferirsi in un paese dell’Unione Europea. Sanja, si vede tranquillamente a Belgrado, ma prevede di mandare sua figlia a studiare in Francia. Vuk, dal canto suo, è l’unico ad aver accompagnato degli amici alle manifestazioni civiche #1od5miliona per denunciare la deriva autoritaria del governo serbo. È rimasto tra le ultime file. Ed esprime ciò che alla fine lega questi franco-serbi nella loro esperienza di ritorno: "È importante per me non essere un turista nel mio paese. Ma vedendo tutte queste persone, disilluse dalla catastrofica situazione della Serbia, gridare slogan mi sono detto: tu, se sei stufo, puoi tornare in Francia, puoi scegliere”.

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