Mezzogiorno meno cinque
Una sequenza di omicidi e attentati a Sarajevo provoca la reazione dei cittadini contro il degrado sociale, e la più grande manifestazione nella Bosnia del dopoguerra. Il muro contro muro tra dimostranti e istituzioni degenera però in violenze di piazza
A Sarajevo le manifestazioni iniziano in orario. La convocazione di mercoledì però, a mezzogiorno meno cinque, alludeva ad un tempo (quasi) scaduto. Il tempo rimasto per rispondere a un’ondata di proteste che sta crescendo, in una dimensione inedita nella storia del lungo dopoguerra bosniaco.
E’ tutto iniziato con una serie di crimini che hanno sconvolto la comunità sarajevese, imponendo al dibattito pubblico la questione del degrado sociale che attraversa il Paese. Il 20 gennaio tre minorenni hanno aggredito in modo efferato un’anziana, Ljubica Spasojevic, a Novo Sarajevo. Dopo un alterco i tre hanno preso una tanica di benzina e l’hanno gettata sulla donna, dandole fuoco. La signora Spasojevic è morta in ospedale, dopo sette giorni.
Poi, il 5 febbraio, Denis. Denis Mrnjavac, 17 anni, era sul tram per tornare a casa da scuola quando è stato aggredito da tre persone, tra cui un minorenne. Quest’ultimo ha colpito Denis con un coltello all’addome, uccidendolo. Le modalità della tragedia, avvenuta senza motivo in pieno giorno e in pieno centro, sulla linea del tram tra la Bas Carsija e Marin Dvor, hanno scioccato la città.
La reazione dei sarajevesi è cresciuta sottotraccia, trovando forma nei molti forum organizzati in rete. Il portale Sarajevo-x (www.sarajevo-x.com), in particolare, ha catalizzato gli umori della città.
La gente si è data appuntamento per sabato pomeriggio, il 9, di fronte alla cattedrale cattolica. Dopo un momento di commemorazione, alla presenza della madre di Denis, è partito un corteo, che è diventato la più grande manifestazione dalla fine della guerra in Bosnia Erzegovina. Circa 10.000 persone hanno attraversato il centro in modo pacifico, ma allo stesso tempo individuando nelle istituzioni la responsabilità di quanto sta accadendo.
Accanto a "Siamo tutti Denis", "Perdonaci Denis", "Perdonaci per la gente che nel tram non è intervenuta", sono infatti cominciati slogan come "Perdonaci per il governo che abbiamo", "Perdonaci per 12 anni di passività" ecc.
Gradualmente le parole d’ordine si sono concentrate sulla richiesta di dimissioni della sindaca di Sarajevo, Semiha Borovac, e del premier del Cantone, Samir Silajdzic, individuati come i principali responsabili dell’insicurezza e del malgoverno. Qualche uovo è volato sui palazzi della politica, ma la manifestazione si è poi sciolta senza nessun incidente.
La sera però, sempre a Sarajevo, è successo un altro episodio inquietante. Una macchina che proveniva da Lukavica si è avvicinata alla gente ferma a una fermata dell’autobus a Dobrinija, vicino all’aeroporto. Dalla macchina è stata lanciata una bomba a mano, che ha ferito tre persone. La vettura ha poi invertito la propria marcia ritornando verso Lukavica, oltre la linea che separa le due entità e che per la polizia funziona ancora come una sorta di confine interno.
Nella notte, infine, al "SA klub", di nuovo nel centro di Sarajevo, c’è stata una sparatoria. Un giovane di 20 anni, Armin Alikadic, è stato ferito da un colpo di pistola ed è ora ricoverato in gravi condizioni.
La cronaca aveva registrato altri fatti gravi nelle scorse settimane, come l’esplosione dell’auto bomba che il 30 gennaio a Pale aveva ucciso tre persone. Il pericolo finora era però avvertito come lontano, e la violenza circoscritta alla lotta tra le gang di criminali. I 4 fatti avvenuti in rapida successione a Sarajevo invece, e soprattutto l’assassinio di Denis, hanno reso evidente che la cultura della violenza e il degrado si stanno estendendo dai gruppi criminali all’intera società. Tutti si sentono potenziali vittime.
Luoghi virtuali come Sarajevo-x e i portali delle organizzazioni più attive della società civile bosniaca, come Dosta (http://www.dosta.ba/), hanno ricominciato a riempirsi di malcontento e proposte. Una nuova manifestazione è stata convocata per mercoledì 13, a mezzogiorno meno cinque, di fronte al palazzo del governo cantonale di Sarajevo.
Nonostante l’orario inconsueto e la giornata lavorativa, circa 3.000 persone si sono presentate all’appuntamento riempiendo il parco tra il palazzo del Cantone e la Presidenza del Paese. Molti gli studenti (la maggioranza), ma anche pensionati e gente comune, e slogan più diretti rispetto alla manifestazione di sabato ("Ladri", "Dimissioni", "Andatevene").
Dopo una mezz’ora di grida è cominciato un fitto lancio di uova contro il palazzo impassibile, poi pomodori, ortaggi, bottiglie di plastica (piene), torce da stadio, e infine pietre e sassi. Ogni vetro infranto veniva accompagnato dalla "ola" della folla, che sottolineava la propria approvazione, mentre la linea di poliziotti che difendeva il Cantone restava ferma in modo surreale e qualcuno si rendeva conto che le cose stavano prendendo la piega peggiore.
Il lancio è continuato a lungo, con piccole scaramucce tra gruppi di manifestanti e poliziotti in borghese che infiltravano i dimostranti nel parco. Dopo un paio d’ore alcuni hanno cominciato ad andarsene, mentre altri si sono diretti sulla vicina Marsala Tita per bloccare il traffico. Quando la folla è ulteriormente diminuita le forze speciali sono intervenute facendo sfollare la gente e cercando di arrestare alcune persone individuate come leader del movimento. Tra loro anche il pacifico Sanjin Buzo, di Dosta, poi rilasciato in serata a seguito delle proteste dei compagni che avevano seguito il cellulare in commissariato.
La giornata si è dunque chiusa nel modo peggiore, con la protesta "contro la violenza" diventata la "protesta violenta" nei telegiornali di prima serata e sulla stampa, e il premier cantonale che ha avuto buon gioco nel trasformarsi da accusato in accusatore (dei giovani violenti appunto). Il Parlamento del Cantone ha discusso un piano per combattere la delinquenza, chiedendo ai competenti ministeri della Federazione di mettere a disposizione un edificio da trasformare in carcere minorile, mentre il ministro dell’Interno (cantonale) Mijatovic ha chiesto più poteri per la polizia.
Il degrado di un Paese il cui dopoguerra sembra non finire più, tuttavia, resta, cosi’ come resta grande la distanza tra cittadini e istituzioni. E a Sarajevo, che per pura coincidenza quest’anno dedica il proprio festival invernale al ’68, il tam tam nei caffè e nei forum è ripreso a battere, e l’energia che si respira sembra diretta più alla lotta contro corruzione e malgoverno che a richiedere maggiori poteri di polizia.
Si annunciano altre iniziative, mentre una parte della società civile comincia ad organizzarsi. Danis Tanovic, premio Oscar della Bosnia Erzegovina per "No man’s land", che ha lasciato la ricca Europa per tornare a vivere a Sarajevo, ha creato una propria lista con cui si candida alle prossime elezioni. Non ci sono ancora programmi, ma la notizia è stata accolta da molti con entusiasmo, incluso il settimanale "Dani", che gli ha dedicato una copertina. Anche Dino Mustafic ha detto che starà con Tanovic. L’indicazione è chiara, quella di un cambiamento di rotta rispetto a tutti quelli che identificano la propria salvezza nel lasciare il Paese.
Un Paese che ha un passato di un certo peso, e un presente ancora gravato dal complesso meccanismo istituzionale creato a Dayton. Ma qualcuno oggi interpreta come un possibile segnale di cambiamento anche una delle notizie più surreali che arrivano in questi giorni da Sarajevo, e che non ha niente a che vedere con i casi di cronaca di cui sopra. Gli accordi di Dayton sono scomparsi. Non è una bufala. Le copie originali erano custodite nell’archivio della Presidenza, ma non si trovano più. Lo ha reso noto con sconcerto il presidente di turno del Paese, Zeljko Komsic. Il procuratore generale sta indagando, e ha chiesto spiegazioni. Quegli accordi, tra le altre cose, contengono anche la Costituzione della Bosnia Erzegovina. Forse è davvero un segnale, che sta arrivando il momento di voltare pagina. Vedremo. Anche perché tutto questo avviene a Sarajevo che, si sa, non è la Bosnia.