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Media e guerra

Media Checker ha intervistato Sophiko Megrelidze, produttrice dell’Associated Press Caucasus Bureau, sul lavoro dei giornalisti in situazioni di guerra e conflitto: le loro paure, come affrontano i traumi e perché è così importante fare domande critiche e verificare le informazioni durante una guerra

02/11/2020, Nino Narimanishvili -

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© PRESSLAB/Shutterstock

(Originariamente pubblicato da Media Checker e ripreso da Chai Khana )

Ultimamente ci sono stati molti cambiamenti nel nostro settore. Possiamo ancora considerare il giornalismo di guerra un genere a parte?

Non credo, soprattutto ora che tutte le divisioni tra i generi sono svanite. In passato c’erano giornalisti di guerra, o corrispondenti di guerra, che si occupavano solo di questioni legate alla guerra, ma non è più così. Soprattutto visto che la guerra è arrivata molto vicino a noi. Magari fai solo cultura, ma quando ti trovi nel bel mezzo di un attacco t[]istico diventi immediatamente giornalista di guerra. Quindi, penso che il confine [tra i generi] sia sparito.

In termini di abilità, c’è qualcosa da tenere particolarmente presente quando si fa giornalismo di guerra?

Nella mia esperienza, la prima cosa da fare è un’autovalutazione: devi sapere che cosa sei in grado di fare. Naturalmente, spesso è difficile valutarci in modo critico e ammettere che non siamo in grado di lavorare in una zona di conflitto. C’è una sorta di convinzione tra i giornalisti che chiunque si occupi di guerra sia un eroe e il più grande professionista, anche se in molti casi questo non è vero.

A volte è invece più facile lavorare in guerra, perché c’è sempre qualcosa da fare e hai le notizie pronte, proprio di fronte a te. È molto più difficile ottenere informazioni in tempo di pace.

Probabilmente ogni giornalista vuole fare l’esperienza di seguire una guerra e sentire questa adrenalina, ma più importante è essere consapevoli delle proprie capacità. Devi sapere se sei pronto.

Intendi emotivamente?

Sia fisicamente che emotivamente. Vuoi essere al centro degli eventi, a volte persino invidi i tuoi colleghi che sono lì. L’ho sperimentato da principiante, quando ho dovuto seguire la guerra in Cecenia. Adesso mi rendo conto che è molto importante capire se sei davvero in grado di farlo o no. Se non sei pronto a livello emotivo, è più professionale ammettere che non puoi più seguire quella guerra. È normale. Se non lo ammetti non fai giustizia a te stesso, al tuo lavoro e al tuo team.

Stavo coordinando il lavoro giornalistico in Ucraina quando ho ricevuto una chiamata da alcuni nostri giornalisti, di grande esperienza, che si occupavano del conflitto in corso nell’Ucraina orientale. Mi hanno detto che non potevano più restare lì perché temevano per le loro vite. Ho chiesto loro di tornare immediatamente. Nessuno ha mai criticato il loro comportamento. Al contrario, questo è ciò che chiamo professionalità!

Inoltre, la verifica delle informazioni è un’enorme sfida per i giornalisti che lavorano nelle zone di conflitto. È facile diventare un’arma della propaganda. Durante la guerra senti spesso molte storie da molte fonti: funzionari, testimoni oculari, social network… Quindi è facile essere manipolati. Una delle principali sfide per me, sia in passato che ora, soprattutto con lo sviluppo della tecnologia, è quella di poter verificare una storia in poco tempo, utilizzare solo informazioni affidabili e non fare sensazionalismo. In questo modo non fai lo scoop, ma verificare i fatti dovrebbe essere la tua priorità.

La verifica è la priorità anche quando hai una storia esclusiva?

Certo! È importante proteggersi dalla propaganda e dalla manipolazione. In tempi di conflitto, ogni gruppo ha i propri interessi e l’unica cosa che devi difendere è la veridicità delle informazioni.

Che cosa succede quando racconti la guerra nel tuo paese? Capisco che se sei un professionista, non dovrebbe importare quale guerra stai seguendo, ma è davvero così semplice? In questo caso, probabilmente è ancora più facile diventare vittima della propaganda…

Se parliamo del lato emotivo, ovviamente, è difficile. È difficile seguire qualsiasi guerra, ma se il tuo paese è in pericolo e il nemico è così vicino a te, alla tua famiglia e ai tuoi cari, è un triplice orrore, che probabilmente abbiamo vissuto tutti nel 2008.

Dal punto di vista professionale, però, devi sempre lavorare come se fosse un conflitto qualsiasi. E dovresti sempre agire in base agli stessi standard professionali, dando priorità a informazioni verificate e fonti affidabili.

Pensi che i media georgiani siano stati credibili e critici nella copertura della guerra del 2008?

Non lo so, non posso giudicare. Penso che sia sbagliato valutare il lavoro dei miei colleghi. È molto difficile fare giornalismo sulla guerra e quindi è probabile che si verifichino []i.

Quando ricordiamo quel periodo sentiamo spesso la parola "patriottismo"…

Penso che la professionalità sia la prima cosa che tutti si aspettano da un giornalista. E questo è patriottismo: fare il proprio lavoro secondo uno standard professionale elevato e non nascondere fatti importanti che devono essere divulgati… non si può decidere di nascondere delle informazioni, non si sa mai quali possono essere le conseguenze.

Parliamo delle sfide che i giornalisti devono affrontare mentre lavorano in una zona di guerra. In base alla tua esperienza, qual è la cosa più difficile da fare e che cosa ricordi più vividamente?

Ce ne sono tantissime. Pianificare in anticipo è la cosa più importante da fare. Dovresti sapere esattamente che cosa stai facendo e non dovresti mai andare da nessuna parte senza sapere dove porta la strada.

La guerra in Cecenia è stata la prima guerra che ho seguito. Ho affrontato molte difficoltà, ero inesperta e pensavo che se non fossi corsa in prima linea tutti avrebbero pensato che non ero in grado di fare questo lavoro. Molte persone hanno ancora questo impulso di correre in prima linea senza pensare alle conseguenze. Bisogna sempre valutare che cosa potrebbe portare o che cosa potresti perdere. Bisogna capire che nessuna notizia vale una vita umana.

Devi conoscere le specifiche del luogo. Qualche tempo fa, il mio cameraman e io abbiamo ricordato quante sciocchezze abbiamo fatto, stavamo solo rischiando le nostre vite.

C’è anche il dilemma se pubblicare o meno qualcosa. Nel 2008, l’Associated Press aveva filmati esclusivi di soldati georgiani catturati, ma non abbiamo potuto pubblicare le foto perché avrebbero potuto mettere in ulteriore pericolo i soldati. Il cameraman era molto arrabbiato, perché aveva rischiato la vita per ottenere questo filmato esclusivo, ma c’era qualcosa di più importante: le possibili conseguenze.

Devi pensare anche ai tuoi intervistati, giusto? Forse la tua responsabilità aumenta quando si tratta dei protagonisti della tua storia…

Certo! La cosa principale è non dire bugie: la persona intervistata deve sapere esattamente dove andranno a finire le informazioni. La sua vita non deve essere messa in pericolo per i tuoi interessi. Sì, è difficile rinunciare ad una storia esclusiva, ma il compito del giornalismo di guerra è analizzare tutte le sfumature, non perdere la propria etica morale e professionale e sapere che la vita umana è la priorità.

All’inizio hai detto che non possiamo più considerare il giornalismo di guerra un genere a parte, ma c’è qualcosa che dovrebbe essere insegnato a chi si occupa di guerra?

I dipendenti dell’Associated Press, come quelli di molti dei principali media mondiali, seguono un corso di formazione su ambienti ostili e primo soccorso. Degli ex militari ci insegnano le regole di azione in una situazione critica e le basi del primo soccorso. Certo, molte cose si dimenticano, ma quando ti trovi in ​​una situazione critica ti tornano in mente. Queste informazioni sono state utilizzate più volte per seguire manifestazioni e ostilità. È la conoscenza di base che ogni giornalista dovrebbe avere quando si trova in una zona di conflitto.

“Sbagliando s’impara” è una filosofia molto pericolosa durante le ostilità.

È difficile per un giornalista, soprattutto se inesperto, riconoscere una minaccia. Ecco perché hai bisogno di un produttore o di un editore che si coordini sempre con te. La tua redazione dovrebbe sempre supportarti e aiutarti nel pianificare, analizzare le possibili minacce e agire di conseguenza.

La responsabilità della redazione aumenta in una situazione di guerra.

È più facile essere sul campo?

Per me è più facile lavorare sul campo perché mi sento responsabile solo di me stessa. Quando coordini un team, ti assumi un’enorme responsabilità per ogni persona a cui assegni dei compiti. È molto difficile.

E che cosa succede quando finisce la guerra?

Arriva lo stress, che non è facile da gestire.

Abbiamo un dipartimento speciale al lavoro che aiuta a gestire lo stress e superare il disturbo da stress post-traumatico, se necessario.

Oltre alle difficoltà professionali, ci sono molti altri dilemmi mentre si segue un conflitto. Ad esempio, come comportarsi quando qualcuno accanto a noi è ferito? Smettere di filmare e aiutare i feriti? E se questo mettesse in pericolo la tua troupe?

Lo stress sono tutte le interviste che fai nella zona di conflitto, tutti i discorsi che fai con le persone che sperano che la conversazione con te cambierà qualcosa nelle loro vite. Ricordo ancora gli intervistati di anni fa e quella sensazione di impotenza che provavo quando parlavo con loro, cercando di dar loro speranza mentre io stessa ero così disperatamente senza.

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