Maja Weiss, un’intervista

I confini, il rapporto tra madri e figli, il sesso, laicità e cattolicesimo. Sono alcuni dei temi esplorati con coraggio in questi anni da Maja Weiss, regista, tra i pochi filmaker sloveni ad aver avuto successo all’estero. Un’intervista a cura di Nicola Falcinella

06/06/2005, Nicola Falcinella -

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Un'immagine tratta da uno dei documentari di Maja Weiss

E’ stata la prima regista slovena il cui film è stato mostrato nelle sale europee. "Varuh Meje – Il guardiano della frontiera" del 2002 è stato selezionato in molti festival ottenendo anche premi, come il Manfred Salzgeber alla Berlinale 2002 come "film più innovativo". A Maja Weiss il festival Crossing Europe di Linz ha recentemente dedicato una personale, insieme a suo marito, il musicista (è compositore e cantante del gruppo cult S.Y.P.H.) e regista tedesco Peter Braatz (che ha firmato alcuni lavori anche come Harry Rag). Un solo lungometraggio ma diversi documentari lunghi (nel ’97 realizzò "Trieste on the border", con Boris Pacor, Fulvio Tomizza e Claudio Magris), parecchi corto e mediometraggi e lavori per la televisione nella carriera della regista di Novo Mesto. Al centro della maggior parte dei suoi film, da "Cesta Bratstva in Enotnosti – La strada della fraternità e della fratellanza" a "Varuh Meje", c’è il tema della frontiera e del confine.

È una scelta legata alla storia recente del suo Paese?

In un certo senso sono riflessioni sulla storia attraverso ciò che aveva avuto a che fare con me in passato. "Cesta Bratstva in Enotnosti" l’ho girato nel novembre ’98, un po’ come se fosse un road movie dalla Slovenia alla Macedonia. Ma l’idea era di alcuni anni prima, farlo era una mia necessità personale. Quella strada, quei luoghi erano parte del mio Paese quando ero giovane. Ho cercato di raccontare, attraverso il viaggio e gli incontri, la storia dell’ex Jugoslavia dall’interno, dal punto di vista di qualcuno che ci aveva vissuto, non di chi arriva da fuori.

Da dove arriva invece l’idea di "Varuh Meje – Il guardiano della frontiera"?

Da diversi spunti. Inizialmente dal viaggio in canoa che feci insieme a delle amiche, tutte ragazze, da studente. E ci ho messo qualcosa anche del mio ragazzo di allora. In più sono cresciuta nella vicinanze di quel fiume, il Kolpa, che ora divide Slovenia e Croazia. Facevo il bagno nel fiume, non c’erano confini allora. Ora c’è il confine di dei Paesi dell’area di Schengen, dovrei dire che c’è il confine tra l’Unione Europea e il resto del mondo. Ora là c’è molta polizia, è curioso, è un luogo turistico con molti poliziotti che arrivano a vivere là. Al contrario i giovani del luogo se ne vanno verso Lubiana o altre città perché non c’è lavoro. E i paesi stanno in questo modo cambiando volto. Nella storia ho inserito anche altri temi, la xenofobia, il sesso (cosa è normale e cosa non lo è) o osservazioni sul linguaggio, attraverso la ragazza coi capelli scuri, per esempio, che è molto dura e utilizza molte parolacce. Lo scrissi con Zoran Hocevar, con il quale sto lavorando anche al prossimo film "Installations of Love", che spero di girare l’anno prossimo. Hocevar è uno scrittore di sessant’anni nato nel mio stesso paese con il quale ho una visione del mondo simile. Per girare "Varuh Meje" ho dovuto aspettare 4 anni per avere i soldi necessari, poi sono rimasta sorpresa dal successo che ha ottenuto: su Arte in Germania ha ottenuto più di un milione di telespettatori.

Di cosa parlerà "Installations of Love"? Sarà ancora legato al tema del confine?

Il nuovo film parlerà d’amore e di arte. Le riprese dovrebbero essere a Lubiana, spero di avere finanziamenti da Austria e Germania. La protagonista è una donna di 45 anni dell’upper class che scopre che le manca qualcosa. Allora parte in gita alla ricerca di un vecchio amore giovanile che faceva il culturista e ora fa delle installazioni. La figlia studentessa la aiuta nella ricerca. La donna è anche appassionata d’arte, ma un’arte che si può appendere, molto middle class, che si può inserire in una cornice d’oro. Il discorso che fanno quando si incontrano riguarda anche l’arte, che cos’è l’arte. È una commedia amara, ci sono situazioni per ridere ma c’è anche dramma.

C’è anche una componente di osservazione della società slovena?

Sì, il film è anche una riflessione su una parte della società slovena che vive un po’ così. Però sono anche situazioni che esistono ovunque, credo che il film interesserà a tanti. È una storia urbana che può accadere a Lubiana ma anche a Milano o Berlino. Ci sono comunque tratti caratteristici sloveni, questo è l’ambiente che conosco meglio, un ambiente molto provinciale.

Lei e Peter Braatz siete tornati a vivere a Lubiana …

Sì, abbiano vissuto un anno e mezzo a Berlino, dove è nato il nostro primo figlio, poi siamo tornati in Slovenia, a Lubiana. È buono perché i miei genitori vivono a un’ora di viaggio, io sono contenta e i miei pure di questa vicinanza. A volte vengono a prendere i bambini e li portano in campagna da loro per il week end. Per me questo supporto è molto importante perché è difficile essere filmmaker e avere dei figli, soprattutto se sei free lance.

Con Peter avete fatto dei lavori insieme poi siete tornati a lavorare ciascuno per conto proprio …

Insieme abbiamo fatto "Foto Film 2001" da una sua idea e un documentario sui profughi nel ’94. Abbiamo scoperto che è meglio lavorare separatamente, altrimenti nessuno dei due è soddisfatto, bisogna fare troppi compromessi. Se si lavora su un suo progetto, io faccio da assistente e sto zitta, ciascuno di noi ha un suo stile e chi è il regista in quel momento decide. Peter ha lavorato come montatore di alcuni miei lavori, ma l’ultima parola in quel caso era mia. Chi fa la regia è l’autore e l’altro accetta ed esegue. Altrimenti discuteremmo molto e con troppe discussioni e cominceremmo a odiarci!

La musica, al di là della carriera parallela di Peter Braatz, è un elemento comune al vostro cinema …

La musica è forse l’elemento che più ci ha unito sia nella vita privata sia in quella professionale. Entrambi proveniamo dalla punk generation, anche se io suono solo la chitarra classica e scrivo poesie e non canzoni e non ho mai suonato in band. Però fin da giovanissima sono stata appassionata di musica. La musica è in tutti i nostri film, è l’elemento che crea emozione, che smuove. Abbiamo molta musica a casa, molti vinili. Dovremmo cambiare le finestre a casa ma preferiamo spendere per acquistare dischi…

Il punk – rock jugoslavo degli anni ’70 e ’80 sta tornando di moda. Secondo lei è una forma di nostalgia della vecchia Jugoslavia?

Le persone della ex Jugoslavia che ora hanno fra i 30 e i 50 anni sentono un po’ di nostalgia di quel periodo. La musica significava impegno, partecipazione, critica al regime ma anche divertimento. Ora la gente non parla più di punk, o se lo fa lo fa in un altro modo.

Qual era il suo gruppo preferito?

Gli Ekaterina Velika, purtroppo alcuni dei componenti sono morti. Anche di altri gruppi diversi musicisti sono morti.

La nostalgia per la musica nasconde un desiderio di tornare al passato, di unione tra i diversi Stati nati dalla ex Jugoslavia?

No, non è nostalgia della politica di allora. Eravamo giovani, la musica era la cosa più importante, ci identificavamo nei testi. Dal ’91 in poi c’è stato un periodo terribile. Per fortuna negli ultimi 5 anni qualcosa sta lentamente mutando, stanno avvenendo dei piccoli cambiamenti culturali, si sta tornando a una normalizzazione dei rapporti. Sono gli artisti i primi a saltare le frontiere, a collaborare, a fare coproduzioni. Nel cinema si comincia di nuovo a fare dei film insieme. Per i giovani essere serbo o sloveno o austriaco è lo stesso, non ci sono differenze, né verso nord, né verso sud. E anche le relazioni economiche, che sono quelle che indicano cosa sta succedendo, stanno cambiando. Prendiamo Merkator, il gruppo sloveno più famoso, ormai è ovunque. E così altri gruppi.

Resta però difficile muoversi liberamente da un Paese all’altro …

Anche con i visti ora va un po’ meglio, anche se serbi e bosniaci ne hanno ancora bisogno per spostarsi. Tra di loro hanno ancora problemi perché si sono fatti la guerra ed è difficile superarlo. Ma per sopravvivere, comprare o vendere delle merci devono comunicare e questo porterà ad aperture. A noi sloveni è andata meglio perché siamo più a nord e con una società meno suddivisa in comunità diverse.

Il cinema di questi Paesi è ancora legato alla realtà della guerra e delle sue conseguenze?

Quando filmi nell’ex Jugoslavia non puoi staccarti dalle situazioni legate al post guerra. E’ la realtà, sono le riflessioni legate al reale. C’è anche chi viene da fuori a filmare, anche se questi sono più legati ai trend. Ultimamente nei festival dei documentari è lo tsunami a dominare, anche se penso che i filmmaker non possano passare in continuazione da un argomento all’altro seguendo l’attualità. Da noi penso che in una decina d’anni si riuscirà a cambiare i temi dei film. La Slovenia, forse perché più lontana, comincia ad affrontare anche storie che non c’entrano con le guerre. Da noi si fanno in modo professionale 2-3 film l’anno, anche se il potenziale di storie è molto maggiore. Ora si può girare in digitale ma resta il dover gonfiare in pellicola per la distribuzione nelle sale. Sterk e Cvitkovic hanno appena finito i loro film e ci aspettiamo molto da loro.

Poi c’è il successo lo scorso anno di "Kajmak i marmelada" …

Sì, Branko Djuric è riuscito ad avere grande successo di pubblico. È bosniaco ma ha sposato un’attrice slovena, faceva parte dei "Monthy Pyton" jugoslavi, è una figura cult da noi e trasforma in oro tutto ciò che tocca. E ad agosto farà un altro film.

Torniamo al suo prossimo "Installations of Love". Ha già deciso chi sarà la protagonista?

Ho già in testa un’attrice slovena ma ancora non gliel’ho detto. Voglio fare come in "Varuh Meje" e fare un casting molto attento, perché è una componente importante del fare un film.

Una sua serie tv è appena andata in onda …

Ho girato questa serie di 5 puntate da 30 minuti intitolata "The New World" che è terminata da poco. Ho raccontato dei trentenni, una generazione che cerca di fare soldi, anche con cose illecite. Molto è legato al sesso o alla droga o altre cose illegali. Non volevo dare giudizi morali o indicare col dito quello che è sbagliato, però il pubblico è rimasto molto shockato. Magari ne farò un film per le sale tagliandolo e concentrandolo. Potrebbe essere interessante. Finora però non ho avuto tempo.
Passiamo a suo marito Peter, che è noto soprattutto per i cortometraggi …
Peter fa i corti dal nulla, con niente. Ha un modo sorprendente di realizzarli, di pensarli prima di fare tutto. "Trans – Tpahc", per esempio, è un documentario che ha fatto in un viaggio da Mosca a Vladivostok tra il ’91 e il ’93 quando è caduta la cortina di ferro, tra i primi occidentali. Non è una cosa giornalistica, è proprio "trans", ipnotico, come essere in trance, in completa meditazione. I suoi film hanno sempre colonne sonore affascinanti, la gente gli chiede sempre se si possono comprare. Lavora molto sul suono. I suoi corti sono molto istruttivi, tra questi c’è "Der Bauer im Parkdeck" che David Lynch vide prima di invitarlo sul suo set di "Blue Velvet".

Anche lei ha fatto dei cortometraggi. Come "Child in Time", che era in concorso al festival di Berlino 2005 …

Sono contenta che fosse in gara a Berlino. Lo considero un po’ un bel film deprimente! È un film tra socialismo e cattolicesimo, tutto visto con gli occhi di un bambino, ambientato negli anni ’70, con molti simboli, bandiere rosse, croci e così via. Molto accade dentro la chiesa, il bambino protagonista resta chiuso là dentro, come tra inferno e paradiso. Vede gli affreschi che gli parlano della vita umana, delle tragedie, vede figure nude che fanno paura a un bambino. È una storia dark che cerca anche di far sentir bene lo spettatore. Nella chiesa c’è anche la bellezza: mentre la madre lo cerca, e facendolo cede al parroco, il bambino è come in un altro mondo. Alla fine lo trovano ma è come se il piccolo fuggisse, come se diventasse un angelo.
Il titolo è quello di una canzone dei Deep Purple
Ho messo la canzone sul finale come se i Deep Purple portassero il bambino fuori dalla chiesa direttamente nel rock. C’è una sorta di salvezza nel rock. Per noi all’epoca era un po’ così. All’inizio, quando scrissi la sceneggiatura nei primi anni ’90, il titolo era "Il giudizio di Dio" ma fu rifiutato dalla tv slovena. Lo riprese mia sorella, che fa la produttrice, perché le piaceva e nel ’98 il progetto fu approvato. Soltanto che non ci concedevano la chiesa che volevo, dovevamo cambiare alcune cose della storia, incluso il titolo. Io non volevo offendere i cattolici. Abbiamo cercato molte chiese, poi trovata quella che abbiamo utilizzato. Abbiamo dovuto cambiare alcune cose, riscrivere dei passaggi. Alla fine abbiamo girato in 6 giorni dovendo cambiare all’ultimo la bambina piccola.
Al villaggio dove avete girato è stato visto? Ci saranno problemi per il bacio tra la madre e il prete?
Al villaggio non l’hanno ancora visto, ma non credo ci saranno problemi per il bacio. Tra l’altro quella scena all’inizio non c’era, l’abbiamo aggiunta dopo. Per me era importante meditare sulle relazioni tra figli e genitori, sui diversi periodi della crescita. I bambini hanno una verginità verso il mondo che piano piano cade a pezzi ma loro devono sopravvivere e andare avanti. Sul finale si sentono i rumori degli aerei, sembra una guerra, una guerra tra uomo e donna. Mi sono accorta che i cattolici capiscono molto di più, nel bene e nel male, il film, i non credenti meno.
In un altro suo corto, "Adrian", l’immaginario è quello dei fotoromanzi degli anni ’50 …
Anche quel corto ha dietro una lunga storia, realizzarlo è stato difficile. Ambientarlo negli anni ’50 dava più innocenza alla situazione, un’innocenza che ora non c’è più. Anche qui tutto è legato a un bambino, alla sua gelosia verso la madre bellissima corteggiata da un uomo. È come una storia d’amore tra madre e figlio. Entrambi i corti sono una perdita dell’innocenza per i bambini. E in entrambi la musica, qui le canzonette italiane dell’epoca, è importante. In "Adrian" , che è stato comprato da diverse tv, c’è sicuramente un happy end.
Torniamo agli aspetti produttivi. Come vede la situazione della Slovenia?
Da poco sono presidente dell’associazione dei filmmaker sloveni, un ruolo che si basa tutto sull’entusiasmo. Lo Stato dà soltanto 2 milioni di euro l’anno per tutto il settore cinema, la quota più bassa tra tutte le arti. Ora si sta preparando una nuova legge, affinché una quota degli incassi delle sale sia destinata al cinema nazionale. È compito del Palamento, speriamo che faccia una buona legge per avere più soldi per più film. La questione è che i politici devono decidere se vogliono i film sloveni o no. Noi non possiamo fare film storici, non possiamo permettercelo. L’Italia ha fatto i suoi film sulle foibe, noi non possiamo farlo, non possiamo raccontare la storia dal nostro lato perché non abbiamo soldi.

La Slovenia è però sempre più utilizzata come location di film …

Sì, la Slovenia può diventare ancora di più un posto dove girare. Per esempio Susanna Tamaro ci farà il suo nuovo film. Abbiamo ambienti molto diversi e si possono trovare location ideali. In più da due anni ci sono dei buoni studios a Lubiana.

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