Madre Courage a Grozny
Lula è un’attrice fino al midollo, “civettuola, amante dei cosmetici, attenta al portamento e al timbro della voce”. Una storia di vita vera dalla Cecenia, raccontata da Majnat Kurbanova per i lettori di Osservatorio Balcani e Caucaso
Lula viveva in cucina. L’unica camera da letto del suo bilocale nel centro di Grozny, ricevuto in passato per i suoi meriti d’attrice, era andata distrutta durante i bombardamenti. Ormai era divenuta dimora esclusiva dei topi, che ci vivevano da lungo tempo e senza nascondersi. Un’esplosione aveva demolito la porta che conduceva dal minuscolo corridoio in quello che una volta era stato il soggiorno: al suo posto, una vecchia coperta.
La cucina di un bilocale sovietico tipo era così minuscola che sembrava impossibile potesse starci un letto, e in effetti quello racchiuso fra le pareti, con la testata rivolta verso il piccolo vano finestra pieno di mattoni rotti, era più simile ad una branda. Di fronte al “letto” c’era il tavolo, ripiano da lavoro e da cucina allo stesso tempo. In un angolo si ammucchiavano i libri, con l’immancabile Heinrich Böll in cinque volumi. Poi fogli di carta, sempre ricoperti in lungo e in largo dal copione di una pièce a cui stava lavorando il regista di Lula. Sul lato opposto del tavolo c’erano stoviglie, semilavorati del mercato di Grozny, confezioni di caffè solubile. Un angolo a parte era occupato da sofisticate creme per il viso e le mani, flaconcini di profumo, cosmetici. Maschere nutrienti, idratanti, “rigeneranti”. E altre ancora. Non so se esistano altri tipi di maschere, ma se ce ne sono, sicuramente erano lì anche loro, enigmatiche, sul tavolo della piccola cucina di Lula, in una casa sinistra, strana, spezzata da una bomba in due metà che non combaciavano più, nel centro della Grozny sonnambula dell’inizio del ventunesimo secolo.
Ci misi del tempo a riprendermi dall’emozione la prima volta che vidi Lula fuori dallo schermo, che vidi dal vivo la stella cecena del teatro, la conduttrice di trasmissioni sull’arte in televisione e alla radio. Eravamo a Grozny, una Grozny diversa, lontana e da tempo scomparsa, fatta di tram, fiori e monumenti a Lenin. Avevo quattordici anni.
Così, una sera camminavo con delle amiche, e in direzione opposta veniva Lula, con una sciarpa rosa al collo. Quando ci passò accanto, la lunga scia del suo profumo ci accompagnò ancora per un po’. Era altrettanto brillante e appariscente fuori dallo schermo. Poi, anni dopo, mi trasferii in una casa dove scoprii che viveva anche Lula; poi, con i bombardamenti, entrambe ci rifiutammo inizialmente di scendere nello scantinato; poi, durante la seconda guerra cecena, trascorremmo insieme le lunghe sere invernali. Scendevamo tra le rovine della cantina dei vicini, per raccogliere l’acqua che gocciolava monotona da qualche tubatura arrugginita, due secchi da dieci litri a testa. Lei, nella sua minuscola cucina, la schiena appoggiata alla parete umida, studiava monologhi tratti da “Madre Courage” di Brecht. E molti altri ricordi, prima e dopo. Per me, Lula restava sempre la personcina eterea e indifesa nella sciarpa rosa di chiffon, non adatta alla vita nelle catapecchie di Grozny, dove tutti allora alloggiavamo. Rimaneva attrice fino al midollo, civettuola, amante dei cosmetici, attenta al portamento e al timbro della voce. Anche in quelle circostanze curava con attenzione il viso e il corpo.
“Penso che lo lasceranno andare – ripeteva Lula – Grazie a Dio, si lasciano corrompere… L’avidità è per gli uomini come la misericordia per Dio. Finché c’è l’avidità, i giudici sono più miti e perfino un innocente può cavarsela."
Lula leggeva a bassa voce. Gradualmente, la sua voce d’attrice si faceva a malapena distinguibile nel silenzio denso della città che andava a dormire. Nel nostro caso, però, il suo immergersi nel ruolo faceva brutti scherzi – i topi, che si acquietavano al suono della voce umana, reagivano subito al silenzio e ricominciavano a zampettare. Lula prendeva uno dei pezzetti di mattone che teneva da parte per questo scopo e lo lanciava in direzione dei topi.
Verso l’alba, fuori dalla finestra, cominciavano le cannonate. Lula sobbalzava all’istante, guardava preoccupata verso la finestra e poi verso di me, con una sola domanda negli occhi spalancati dal t[]e: quanto sono vicini gli spari? Erano più spesso vicini che lontani, ma Lula questo non lo capiva e quindi non era difficile ingannarla. Di mattina, prima di andare al lavoro, andava a prendere l’acqua. Scendeva dal quinto piano distrutto, avvolta in tutto quello che poteva riscaldare il corpo stanco e poco protetto dai vestiti leggeri.
Le case di cinque piani bruciate, da entrambi i lati della strada, rivelavano sinistramente le orbite vuote delle finestre. Sui tetti sedevano cecchini annoiati. Conoscevano di vista Lula, come conoscevano quasi tutti gli abitanti della zona. Il loro passatempo preferito era spararle intorno ai piedi quando andava a prendere l’acqua. Ma per loro era ancora più divertente quando tornava a casa con i secchi pieni, muovendo attentamente i piedi sul sentiero ghiacciato. I cecchini sapevano bene che uno sparo arriva sempre inaspettato e che, anche raccogliendo tutta la propria volontà nell’attesa della brusca esplosione, è impossibile mantenere l’equilibrio quando le pallottole fanno saltare pezzetti di neve e terra gelata da sotto i piedi.
Poco tempo fa, Lula è scappata dalla repubblica dove secondo le fonti ufficiali da tempo si può vivere una vita pacifica e creativa. La donna più bella del teatro ceceno ha chiesto asilo in un paese europeo e, in attesa della decisione dei funzionari, guadagna qualcosa facendo i mestieri di casa per una famiglia del luogo.