Macedonia, l’emergenza rifugiati
Mersiha Smailovikj, è tra i fondatori dell’ong Legis, tra le poche in Macedonia ad essere attiva sul tema delle migrazioni. Un ampio quadro della situazione in quest’intervista
Da quando esiste Legis? Come siete arrivati a occuparvi di migranti?
Dal 2009 ci occupiamo di questioni relative ai diritti umani e all’intercultura. A inizio 2014 siamo stati chiamati da un ospedale pubblico perché avevano bisogno di un interprete per un siriano lì ricoverato. La sua testimonianza ci ha aperto un mondo sulla rete di trafficking di persone umane, molto estesa soprattutto per i siriani: la persona ricoverata era piena di ferite perché un trafficante egiziano lo aveva sbattuto fuori da una macchina in corsa.
Abbiamo quindi iniziato ad indagare sulla questione. Nel settembre 2014 siamo stati nella zona di frontiera tra Macedonia e Serbia e abbiamo visto un gran numero di famiglie siriane in attesa dei trafficanti, che erano facilmente distinguibili perché erano gli unici ad essere ben vestiti.
Abbiamo poi conosciuto Lenče Zdravkin che già da tempo si occupava dei profughi di passaggio a Veles. Poi è arrivato l’inverno e abbiamo iniziato a raccogliere aiuti di vario genere.
Quale era lo status giuridico dei profughi in Macedonia all’epoca?
Mentre transitavano in Macedonia erano considerati dei clandestini, il che rendeva difficile anche raccogliere delle donazioni in modo organizzato. In quel periodo ricadevano sotto il codice penale secondo cui i migranti illegali dovevano essere rimandati nel paese da cui erano entrati e, se non era possibile determinarlo, dovevano essere portati al centro di Gazi Baba, che si trova vicino a Skopje, che è una sorta di carcere.
Il risultato è stato che i migranti scappavano dalla polizia e si mettevano nelle mani delle reti di trafficanti che sono così fiorite molto rapidamente.
Abbiamo poi chiesto un’autorizzazione per entrare a Gazi Baba e abbiamo trovato una situazione tremenda, con un gran numero di donne e bambini. Gli ospiti vi rimanevano anche 5-6 mesi senza possibilità di sostegno giudiziario gratuito, solo cure mediche di base, un posto pensato per 120 persone che a maggio ne conteneva 450.
Il procuratore della Repubblica ha definito nelle sue relazioni Gazi Baba un posto dove si effettuavano torture per il modo in cui venivano tenuti i prigionieri, rinchiusi in parte come testimoni contro i trafficanti, in parte perché arrestati mentre camminavano e in attesa di essere espulsi in Grecia.
In gennaio sono stata incaricata da Human Rights Watch di realizzare una relazione su Gazi Baba. E’ molto forte e sarà resa nota il 21 settembre. La questione dei profughi in Macedonia è stata così drammatica durante l’anno scorso che i fatti del 21 agosto a Gevgelija, quando la polizia ha usato gas lacrimogeni e granate assordanti contro i migranti che premevano per entrare, sono irrilevanti in confronto a quello che è successo prima.
Che cosa rendeva la situazione in Macedonia così grave?
La Macedonia ha un bilancio drammatico di 30 migranti investiti dai treni mentre camminavano sui binari che servivano loro per orientarsi. Nella maggior parte dei casi ciò è successo in tunnel o sui ponti, dove le vittime, pur vedendo il treno in arrivo, non avevano spazio per farsi da parte. Si è trattato di enormi traumi anche per i macchinisti, alcuni dei quali non sono più riusciti a tornare al lavoro. Nel caso dei 14 migranti investiti il 24 aprile 2015, in gran parte afghani, si trattava di adolescenti e il governo macedone ha reputato troppo dispendioso far eseguire le autopsie sui loro corpi in contrasto con le leggi internazionali. Ci sono stati casi terribili, per esempio quello di una donna afghana che ha visto morire il figlio neonato e il marito sui binari ed è stata poi portata al centro di Gazi Baba.
Come Legis abbiamo iniziato a cercare una soluzione, per esempio partendo dal fatto che in Serbia i richiedenti asilo non morivano sulle strade perché esisteva una legge che permetteva ai profughi di transitare legalmente nel paese per 72 ore e abbiamo fatto pressione affinché la stessa legge fosse applicata in Macedonia, come spesso accade nei paesi dell’area.
Abbiamo cercato di utilizzare lo spazio mediatico e di fare pressione presso i parlamentari e presso il ministero competente ma senza risultati, almeno fino all’incidente del 24 aprile. Inoltre, con l’arrivo delle grandi ondate di profughi dalla Grecia, a Gazi Baba non c’era più spazio e le autorità li lasciavano transitare a piedi. Anche quello è stato un periodo difficilissimo.
Noi allora abbiamo organizzato dei team mobili sia portando aiuti umanitari in collaborazione con la Croce Rossa, che fornendo altri tipi di aiuto: per esempio abbiamo acquistato biciclette economiche perché attraversassero la Macedonia il più velocemente possibile. Ma tutto questo era comunque insufficiente, i profughi camminavano per dieci giorni in Macedonia, spesso venivano attaccati da criminali, non solo macedoni.
Si è mobilitata anche l’Unhcr ed è iniziata una campagna perché venisse autorizzato un trasporto sicuro, dal momento che la Macedonia è considerata un paese insicuro dove nessun paese UE può rimpatriare migranti. Dal 19 giugno 2015 è entrata in vigore la legge che autorizza i profughi a circolare nel paese per 72 ore e che permette loro di servirsi dei mezzi pubblici.
Quindi il 19 giugno è iniziata una nuova fase?
Sì, però sono cominciati anche altri problemi di affollamento nei luoghi di confine. A Gevgelija, al confine con la Grecia, il livello di xenofobia è molto alto, migliaia di profughi passano dalla stazione ogni giorno senza nessun supporto. Il sindaco ha negato la possibilità di impiantare un campo in città, che quindi è stato collocato fuori, senza acqua né elettricità.
Ora in media i profughi si trattengono circa 6 ore in Macedonia, ma aspettano a lungo al confine. Le condizioni in Macedonia non permettono a più di 4000 profughi di transitare e la polizia controlla l’entrata al confine mentre la Grecia non lo fa più.
Tutto era stato normale fino allo scorso 21 agosto, c’era la polizia che lasciava passare i profughi a gruppi di una cinquantina ogni ora circa, come abbiamo visto di persona. Poi un giorno hanno proclamato lo stato di crisi, hanno indetto una conferenza stampa e comunicato che avrebbero chiuso la frontiera. Noi ne siamo rimasti molto stupiti.
Quale pensate possa essere stato il motivo di questa virata?
Attrarre fondi dall’Unione europea. Le autorità hanno immediatamente dichiarato di aver richiesto i fondi europei adducendo che la Macedonia da sola non può far fronte alla crisi. Ma in Macedonia lo stato non gestisce campi profughi (mentre la Serbia ne ha ad esempio molti), né fornisce aiuti ai profughi, che arrivano solo dalle organizzazioni non governative. I poliziotti che fanno gli straordinari non vengono pagati. I centri per i profughi sono al momento vuoti, i migranti hanno fretta di lasciare la Macedonia. Quindi la Macedonia in effetti non ha spese. Anzi, guadagna 1 milione di euro al mese dai profughi con i biglietti che pagano e il cui prezzo è di recente duplicato. I treni erano vuoti prima che arrivassero i migranti. Quindi ad agosto non c’erano ragioni per una crisi, il cui picco in Macedonia è stato in realtà fino a maggio quando i migranti erano obbligati ad andare a piedi.
Quale atteggiamento ha avuto il governo macedone nelle varie fasi della crisi?
Fino a poco fa la politica ignorava i profughi, mentre le reti dei trafficanti fiorivano. Tuttavia, al vertice dello stato non si potevano non conoscere le condizioni di vita nel campo di Gazi Baba che è stato più volte menzionato nei rapporti di Amnesty International e dal procuratore della Repubblica come luogo in cui si violano i diritti umani.
I media hanno di frequente offerto un’immagine negativa dei migranti, ripetendo spesso il concetto che i cittadini macedoni dovessero essere protetti dall’arrivo degli stessi. Ma non ci sono mai state denunce di crimini commessi da profughi ai danni di macedoni.
Anche le accuse di penetrazione dell’ISIS insieme ai profughi siriani sono totalmente infondate. In Macedonia circa un mese fa c’è stata un’azione di polizia con la quale sono stati arrestati venti cittadini macedoni che erano andati a combattere in Siria. Ciò significa che lo Stato non ha saputo bloccarli prima della loro partenza e ciò indica che i problemi da quel punto di vista sono altri. Inoltre, lavorare nei centri di accoglienza è sempre più difficile: la burocrazia diventa sempre più complessa.
Come influiscono l’apertura e la chiusura dei confini europei sul flusso dei profughi?
Quando sono arrivate le notizie dell’apertura da parte della Germania, i profughi sono diventati più ottimisti, ma allo stesso tempo lo spettro della costruzione del muro da parte del governo ungherese e dell’adozione della legge che rende le migrazioni illegali punibili penalmente, li ha fatti diventare molto più impazienti.
Nella zona tra Grecia e Macedonia ci sono migliaia di profughi che attendono, alcuni da giorni, mentre la polizia cerca, anche con la violenza, di controllarli. Probabilmente in futuro la pressione maggiore sarà sulla Serbia, dove i migranti preferiscono restare, alle porte dell’Europa, piuttosto che in Macedonia.
Chi sono i vostri attivisti?
Il comitato direttivo è composto da sette persone, scelti tra i fondatori di Legis, ma durante la crisi abbiamo creato una rete di volontari sia al nord che all’ovest del paese, che comprende macedoni, albanesi, membri di altre comunità, volontari internazionali.
Quando abbiamo fatto richiesta di fondi alle ambasciate presenti in Macedonia abbiamo sottolineato il fatto che tutti i progetti sulla multiculturalità finanziati in passato sono falliti, mentre sono stati proprio i profughi a unire i popoli della Macedonia. È stata una grande prova di solidarietà.
Ve la sareste aspettata?
Non fino a questo livello. Per esempio è stato creato un gruppo Facebook Help the migrants in Macedonia in cui si raccoglievano donazioni e venivano segnalati i migranti in viaggio. Alle volte capitava che dei privati cittadini facessero più in fretta di noi e portassero loro del cibo. La solidarietà è stata l’unico lato positivo di questa crisi, in un paese in una situazione economica così difficile, che ha vissuto il conflitto del 2001 tra albanesi e macedoni, con otto nazionalità, diviso da un conflitto politico. In un certo senso i migranti hanno unito tutti in maniera trasversale.
Avete ricevuto aiuti da parte di comunità religiose?
Sì. Durante il picco della crisi, quando migliaia di persone camminavano a piedi sui binari e l’acqua era la cosa più necessaria, la Chiesa ortodossa macedone ha donato cinque tonnellate di acqua. Nell’ultima settimana la Comunità islamica ha distribuito dei riconoscimenti per l’attività umanitaria svolta, a noi Legis, come organizzazione, a Lenče Zdravkin e ad altre due persone, quindi a tre personalità non musulmane. Inoltre ha donato 20 tonnellate di acqua e 5000 pacchetti di cibo. Le due maggiori organizzazioni religiose in Macedonia si sono mobilitate, anche se avrebbero potuto fare di più in relazione al loro budget. Anche organizzazioni internazionali, protestanti e cattoliche, hanno fornito aiuti.
La questione dei profughi è stata strumentalizzata politicamente?
Il governo di destra del VMRO-DPMNE e la maggior parte dei media che lo sostengono mostrano spesso un’immagine negativa dei profughi. Noi abbiamo parlato con i partiti in parlamento, abbiamo ricevuto sostegno dal Partito socialdemocratico, ma nei periodi più critici della crisi quel partito ha boicottato il parlamento non partecipando all’attività politica.
Abbiamo avuto molti incontri con il partito albanese DUI al governo, ma c’è stata della sensibilità anche da parte di alcuni parlamentari di destra che hanno contribuito ad accelerare la procedura per l’approvazione della legge in questione. Comunque, tutto è avvenuto in ritardo. E’ fin dall’inizio della crisi che sarebbe stato necessario prendere delle misure. Per quanto riguarda gli equilibri interni, esiste una solidarietà musulmana, ma la comunità albanese fa fatica a identificarsi con i profughi solo per la fede religiosa: non c’è comunanza linguistica o culturale. E non tutti i profughi sono musulmani, ci sono anche molti cristiani o atei.
Quali informazioni avete sulle violenze compiute sui migranti e sui rapimenti denunciati dalla stampa internazionale?
Le informazioni portano a due villaggi ben conosciuti, Vaksintse e Lojane, al confine con la Serbia dove si trova un valico molto facile da attraversare. Qui sono nate delle bande composte sia dalla popolazione locale che da criminali afghani – si parla in particolare di un tale Ali Baba – che hanno iniziato a rapire i profughi, soprattutto siriani, chiedendo di farsi mandare del denaro dalle famiglie, terrorizzandoli e picchiandoli.
La vicenda è stata al centro dell’attenzione dei media internazionali, come Channel 4 e la Bbc, con cui noi siamo entrati nella casa in cui secondo le informazioni i migranti venivano tenuti prigionieri e che era ovviamente vuota.
Alcuni giornalisti si sono rivolti al ministro degli Interni dicendo che esistevano delle case a Vaksintse dove venivano tenuti prigionieri migranti ma la polizia ha annunciato pubblicamente la sua azione – prima di farla – e quando è entrata nel villaggio la casa era vuota.
I migranti diretti in Serbia che incontravamo ci chiedevano come avrebbero potuto evitare quei due villaggi. Ci è stato anche detto che venivano diffuse false informazioni ai profughi quando erano ancora in Grecia, veniva loro detto di passare da Lojane e Vaksintse perché se fossero passati da Tabanovce la Serbia li avrebbe respinti. Abbiamo prodotto delle brochure nelle lingue locali cercando di informarli sul rischio che quei due villaggi ancora rappresentano, ma i migranti continuano ad approdarvi, in particolare gli afghani che ascoltano soprattutto quello che alcuni connazionali dicono loro. Lì non abbiamo mai potuto portare aiuti umanitari per l’opposizione della popolazione locale, che invece dai profughi ha sempre guadagnato.
Nei mesi scorsi si sono verificati anche assalti, rapine e stupri ai danni dei profughi che attraversavano il paese a piedi. In diversi casi hanno dichiarato di essere stati aggrediti da individui in uniforme. Posta davanti alla domanda, la polizia ha dichiarato che nessun profugo ha mai sporto una simile denuncia. Ma è ovvio che un migrante illegale non sarebbe mai andato dalla polizia a denunciare una violenza.
C’è stata lo stesso qualche indagine in merito?
Il ministro degli Interni ha dichiarato che ci sono stati due o tre casi di inchieste interne che hanno portato a misure disciplinari nei confronti di membri delle forze dell’ordine, ma non se ne è mai parlato pubblicamente. Nessun membro della polizia è mai stato arrestato per aver compiuto reati ai danni dei profughi o aver abusato della sua posizione. Da gennaio a maggio invece sono stati indagati 140 cittadini comuni macedoni sospettati di essere trafficanti di migranti.
Come commentate le dichiarazioni del 10 settembre del ministro degli Esteri Nikola Poposki al settimanale ungherese “Figelo” rispetto alla costruzione di una barriera al confine con la Grecia?
Noi crediamo che si tratti semplicemente di una minaccia e di una dichiarazione non ponderata che ha seguito l’onda di simili posizioni nell’estrema destra europea e ad uso dell’opinione pubblica interna, dove è diffuso il punto di vista che la Macedonia sia stata lasciata sola. Non vi sarebbe una ragione per costruire una barriera, dal momento che i migranti non si fermano in Macedonia, ma anzi, rappresentano paradossalmente una fonte di guadagno.
L’11 settembre, alla frontiera ci sono stati nuovamente momenti di tensione che hanno visto la polizia usare la forza nei confronti delle famiglie dei migranti. Siete al corrente di quello che è successo e quali sono state le reazioni?
Al confine, a causa dell’attesa, i migranti perdono spesso la pazienza e la polizia ha usato metodi violenti per “riportare l’ordine”. Le reazioni da parte della società civile sono state molteplici e il ministro degli Interni ha in seguito dichiarato che avrebbe aperto un’indagine sui membri della polizia coinvolti.