Luoghi della memoria: la galleria 11/07/95
A Sarajevo un nuovo spazio, dedicato alla memoria di Srebrenica, vive grazie a finanziamenti turchi. Con poco sostegno delle istituzioni locali. L’arte, la memoria e la cooperazione in quest’intervista a Ivica Pandžić, portavoce dell’associazione che gestisce la galleria-memoriale "11/07/95"
E’ stata inaugurata il 12 luglio nel centro di Sarajevo la galleria-memoriale “11/07/95”. Il nome dello spazio si riferisce alla data in cui le forze del generale Mladić entrarono nella safe area di Srebrenica, compiendo un massacro di civili durato per giorni, il primo genocidio in Europa dopo la Seconda guerra mondiale.
La galleria ospita la prima mostra permanente sul genocidio di Srebrenica ed è il risultato di un lavoro di documentazione durato sette anni. Con una superficie di 300 metri quadrati e una struttura assolutamente all’avanguardia, la galleria è stata realizzata grazie al sostegno dell’Agenzia turca di cooperazione e sviluppo (TIKA) ed è gestita dall’associazione Kultura sjećanja (Cultura della Memoria).
Il portavoce del progetto, Ivica Pandžić, definisce l’obiettivo della mostra quello di “preservare la memoria della sofferenza di Srebrenica”. Negli spazi espositivi si trovano fotografie originali di Tarik Samarah, già collaboratore di Šejla Kamerić e Swanee Hunt, ma anche video-documenti e un testo curato da Emir Suljagić, ex-ministro della Cultura del Cantone Sarajevo.
Una forma di memoria però in qualche modo depotenziata, considerando che il sostegno al progetto proviene quasi esclusivamente dall’Agenzia di cooperazione turca. Mancano, ancora una volta, un impegno concreto e una presa di posizione da parte delle istituzioni locali, fosse anche il semplice patrocinio di una parte di esse. Spenti i riflettori sulla cerimonia a Potočari, la politica si dimentica di Srebrenica fino alla prossima buona occasione per farsi riprendere dalle telecamere. Viene alla mente la frase di Milan Kundera, secondo cui “la lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro la dimenticanza”. Ne abbiamo parlato con Ivica Pandžić, portavoce dell’Associazione che gestisce la galleria.
La vostra associazione si chiama “Cultura della memoria”. Può di dirmi di più sul concetto di Cultura della memoria oggi in Bosnia?
Il nome dell’Associazione si riferisce alla memoria delle persone scomparse a Srebrenica. L’11 luglio 1995, la caduta di Srebrenica, segna l’inizio dei crimini testimoniati in questa mostra. Abbiamo scelto di aprire al pubblico il 12 luglio perché è il giorno nel quale iniziare a coltivare la cultura della memoria del genocidio perpetrato a Srebrenica.
Il filo rosso della nostra attività è di scongiurare la banalizzazione del male. Nel caso di Srebrenica, stiamo parlano di un crimine pianificato, che deve essere mostrato e testimoniato. Ci sono nomi e cognomi, non si tratta di un male cosmico senza colpevoli, e così come si ricorda ciascun nome delle vittime, dobbiamo tener presente che esistono nomi anche per gli aggressori.
Non siamo i soli ad agire in questa dimensione, sono molte le associazioni locali che lavorano a Srebrenica. Si occupano di aspetti diversi fra loro, di tematiche legate alla memoria ma anche della questione dei ritorni, un meccanismo cruciale per evitare oblio e dimenticanza. Quando invece guardiamo al mondo della politica, nulla di concreto è stato fatto, se non qualche dichiarazione verbale.
Come è nato il progetto di questa galleria?
La mostra permanente si pone l’obiettivo di bilanciare la tutela di diversi aspetti. In primo luogo il rispetto verso le vittime e le loro famiglie. Dall’altra parte, l’intenzione è quella di mostrare e ricordare il crimine commesso a Srebrenica. E’ necessario trovare un equilibrio fra queste priorità, e le fotografie hanno in tal senso una funzione specifica. Mai come in questo caso, vale la considerazione che le immagini dicano più di mille parole. Qui abbiamo delle fotografie che raccontano la propria storia, e ogni ulteriore interpretazione, in particolare se si tratta di manipolazioni politiche, darebbe una lettura fuorviante di questo progetto.
L’idea di realizzare una galleria-memoriale permanente è nata in seguito alla pubblicazione nel 2005 del libro che raccoglie le foto di Tarik Samarah. Viste le reazioni positive alla pubblicazione, abbiamo deciso di realizzare una mostra permanente delle foto pubblicate nel volume. Da allora, ci sono voluti sette anni prima che il progetto si concretizzasse, ma il tempo qui scorre lentamente, quindi non è stato un problema.
Tarik è stato l’ispiratore di questo progetto, oltre ad aver realizzato la maggior parte delle fotografie esposte. Fin dall’inizio abbiamo coinvolto persone e organizzazioni che potessero aiutarci a preservare la memoria dei fatti di Srebrenica dalla manipolazione della politica quotidiana. Tarik è anche il curatore dello spazio, in particolare per quanto riguarda la gestione delle esposizioni temporanee.
Una mostra fotografica esiste già a Srebrenica, ma evidentemente soffre di scarsa accessibilità. Chi viene in visita nel paese, sia come turista che come parte della diaspora, difficilmente riesce a visitare Srebrenica per vedere il materiale documentario e fotografico ospitato nel memoriale di Potočari. Abbiamo quindi scelto Sarajevo, come il luogo che garantisce a questa mostra la massima visibilità.
Qual è stato il ruolo delle associazioni coinvolte nel progetto?
Il loro ruolo è stato fondamentale. La parte fotografica è di per sé un lavoro di enormi dimensioni, e occupa la parte centrale della mostra. Sono foto di grande intensità, che raccontano più di mille parole. Ma la mostra non si esaurisce qui. C’è una parte video, e una di documenti, fra cui la lista di tutte le persone scomparse a Srebrenica.
Per quanto riguarda questa seconda parte, non avremmo mai potuto raccogliere da soli tutto il materiale esposto. Associazioni e organizzazioni hanno dotato la galleria della parte documentativa. Mi riferisco al Centro Memoriale di Srebrenica – Potočari, alle Madri di Srebrenica e Žepa, e all’Istituto per le Persone Scomparse. Contributi altrettanto fondamentali sono arrivati dall’Iniziativa Giovani per i Diritti Umani (YIHR), Fama, Cinema for Peace Foundation e Video Archivio del Genocidio. In questo senso, le competenze di ciascun partner hanno garantito alla mostra un approccio rigoroso ai fatti.
Ogni documento presentato al pubblico è stato verificato più e più volte, le fonti sono certe e affidabili. Non sarebbe ammissibile presentare informazioni approssimative su un argomento come questo. Ci sono voluti anni di lavoro per raccogliere i materiali presentati in questa mostra, e in questo senso il contributo dei partner è stato assolutamente essenziale.
Qual è stata la reazione del pubblico durante i primi giorni di apertura dello spazio?
Silenzio. Le persone visitano la mostra e si zittiscono. La forza emotiva della mostra è intensificata dal percorso, in un certo senso obbligato, che i visitatori devono seguire. All’entrata ci si trova immediatamente di fronte ai nomi delle vittime, di ciascuna di esse, nome e cognome. L’intenzione è quella di personificare ciascuna vittima, al di là del numero, che per quanto grande possa essere non comunica l’immensità del crimine né tanto meno l’intensità della sofferenza di cui stiamo parlando. Il silenzio è una reazione comprensibile, se si pensa alla carica di dolore che viene presentata in quest’esposizione.
Anche le reazioni della stampa sono state finora positive. Non c’è stata nessuna critica o reazione negativa, anche se il contenuto altamente politico della mostra non esclude che ce ne saranno.
L’apertura della galleria è stata resa possibile dal sostegno da parte dell’Agenzia di cooperazione turca (TIKA) e da una circoscrizione della municipalità di Sarajevo (Stari grad). Avete cercato altri appoggi istituzionali e quali reazioni avete incontrato?
Abbiamo cercato supporto da parte di più istituzioni, ma le risposte sono state scarse. Soltanto l’Agenzia turca di cooperazione e sviluppo (TIKA) ha risposto in maniera costruttiva. TIKA ha coperto le spese di sistemazione e ristrutturazione dello spazio, un costo non da poco a dire il vero.
La municipalità di Stari Grad, tramite il sindaco Ibrahim Hadžibajrić (passato qualche mese fa dal SDA al Partito per un Futuro migliore, SBB BiH, ndr) ha dato la location in concessione a lungo termine. Un dettaglio interessante è che, una volta trovato il sostegno economico, per la sistemazione degli spazi e l’allestimento della mostra sono bastati appena due mesi. Per il futuro, non credo non si potrà contare nuovamente sul sostegno dell’Agenzia di cooperazione turca.
Qualcosa ci si potrà aspettare dalle istituzioni locali, ma molto dipende da chi occuperà le cariche istituzionali locali dopo le prossime elezioni (che si terranno ad ottobre, ndr). Per il resto, la galleria dovrà riuscire ad auto-sostenersi.
Guardando alle politiche culturali nel paese, non le sembra preoccupante che il sostegno ad un progetto come il vostro venga quasi esclusivamente da un partner straniero?
Il comportamento dei politici locali è influenzato da una costante provvisorietà. Questo vale in ogni ambito, ma la volatilità della responsabilità politica si avverte forse più intensamente nel campo della cultura, un campo per il quale non esiste una strategia condivisa. TIKA ci ha sostenuto in maniera onesta senza porre condizioni. Il rapporto di reciproco rispetto ha reso questa collaborazione una partnership, più che una donazione. C’è da parte della Turchia un impegno costante in tematiche quali educazione e cultura in Bosnia Erzegovina.
E’ interessante notare come per loro non esista crisi o recessione: la Turchia è un paese stabile, con una forte identità e una nozione consolidata della propria cultura. Oltre all’ambizione europea, dimostra un forte impegno anche nelle relazioni con i Balcani. C’è chi parla di neo-osmanismo ma la cosa dal mio punto di vista non ha alcun senso. Quel periodo storico è passato, ora per la Turchia i Balcani sono per lo più uno spazio economico, nel quale penetrare anche attraverso interventi di public diplomacy, come il finanziamento della Galleria 11/09/95.