L’Unione Europea e i Balcani. Intervista a Catherine Samary
Nel quadro delle iniziative relative alla campagna ‘Europe from below’, tenutesi durante il Forum Sociale Europeo di Firenze, Osservatorio sui Balcani ha incontrato la giornalista di Le Monde Diplomatique Catherine Samary
Economista, giornalista, specialista dei Balcani e in particolare dello spazio yugoslavo, docente all’Università di Paris-Dauphine, Catherine Samary ha pubblicato diversi saggi sulla regione. Tra gli altri: ‘I conflitti yugoslavi dalla A alla Z’, con Jean-Arnault Dérens (L’Atelier, 2000); ‘La distruzione della Yugoslavia. Domande per l’Europa’ (L’Harmattan, 1994); ‘Il mercato contro l’autogestione – l’esperienza yugoslava’ (Publisud-La Brêche, 1988). Nel corso dell’intervista ci ha illustrato brevemente il suo punto di vista sulla transizione dei Paesi della ex Yugoslavia e sulle prospettive della integrazione europea per quei Paesi.
Osservatorio sui Balcani: Parlando della transizione verso il libero mercato e della introduzione di politiche neoliberiste nei Paesi della ex Yugoslavia, lei ha fatto riferimento nel suo intervento ad un paradosso raffrontando la situazione slovena a quella serba: rispetto alla esperienza slovena, la trasformazione in Serbia starebbe avvenendo in maniera molto più drastica e violenta. Come mai forme differenti nei diversi Paesi della regione e quali sono le conseguenze di questo processo?
Catherine Samary: Prima di tutto c’è una differenza nel periodo storico, in Slovenia il cambiamento è avvenuto all’inizio degli anni ’90. Già nel 1991 ad esempio il nuovo governo di centro destra, una coalizione, durante la presidenza Kucan, sotto la pressione del parere presentato da Jeffrey Sachs, che veniva dalla Bolivia, voleva introdurre una nuova legge sulle privatizzazioni. Il ministro delle finanze, Josef Mentzinger, economista durante il periodo yugoslavo, si oppose alla proposta e, cosa ancor più importante, ci fu uno sciopero generale. Gli ex sindacati del periodo yugoslavo, fortemente burocratizzati, riuscirono a trasformarsi in ‘veri’ sindacati attraendo nuovi iscritti e in generale rafforzandosi e entrarono in sciopero contro questa legge sulle privatizzazioni.
La società slovena si è cioè trovata nella condizione di potersi opporre alle forme violente di questa transizione?
Sì, direi che nello scenario yugoslavo la Slovenia fu probabilmente l’area, in quanto la repubblica più ricca, che beneficiò maggiormente del sistema dell’autogestione. Un sistema di proprietà collettivo che ovviamente fu distorto dalla burocrazia e dal sistema a partito unico, ma non si trattava di una cosa negativa ed anzi ebbe dei risultati veramente positivi. La Slovenia era molto sviluppata se la paragoniamo agli standards europei quanto a protezione sociale, economia, livello di export, etc. Quindi fu in un certo senso particolarmente facile resistere all’idea di una privatizzazione alle spalle dei lavoratori come se il sistema fosse inefficiente. Ci fu una resistenza politica e sociale nella società slovena contro il progetto di una privatizzazione forzata. Ci fu anche naturalmente una certa misura di compromesso politico, non descriverei la situazione slovena come completamente rosea. All’inizio degli anni ’90 praticamente non c’era disoccupazione, ora invece c’è un livello di disoccupazione piuttosto alto, in particolare ci sono differenziazioni all’interno della Slovenia – come in Ungheria e Polonia peraltro – tra regioni dove c’erano impianti industriali molto vecchi di ampie dimensioni e altre regioni con una produzione articolata in fabbriche di dimensioni più ridotte. Naturalmente la Slovenia, come molti altri Paesi dell’Europa dell’est, ha trovato molto difficile ristrutturare questi impianti industriali di grosse dimensioni – che presentavano alti livelli di protezione sociale – quindi ad esempio nella regione di Maribor, vicino all’Austria, c’è una situazione difficile. Molti disoccupati sopravvivono con i propri piccoli appezzamenti di terra… Non voglio cioè presentare la situazione in termini asetticamente rosei. Però se confrontiamo alcuni dati statistici, ad esempio la quota delle privatizzazioni rispetto alla cifra complessiva del prodotto interno lordo, o il livello di apertura del sistema bancario nei confronti degli investimenti stranieri, troviamo che la Slovenia ha resistito molto di più di tutti gli altri Paesi dell’est Europa, e questa è la ragione per la quale non è stata altrettanto distrutta rispetto alle società di altri Paesi in transizione. Lo stesso discorso vale per il settore dell’educazione e in parte anche per i servizi sociali.
Lei ha evidenziato tre fattori determinanti all’inizio dei conflitti degli anni ’90 in ex Yugoslavia: apparati burocratici che tentavano di riaffermare il proprio potere, il ruolo delle potenze imperialiste e le correnti nazionaliste nei diversi Paesi. Che bilancio possiamo trarre invece del ruolo giocato dalla Unione Europea all’interno del processo di disgregazione yugoslavo? La prospettiva odierna della integrazione nella Unione Europea è da considerarsi come una possibile soluzione alle questioni ancora aperte in ex Yugoslavia?
In primo luogo dobbiamo considerare che la Unione Europea si è costituita nelle sue forme attuali attraverso il trattato di Maastricht intorno agli anni ’92 e ’93. Il primo passo verso una costruzione in senso liberale dell’Unione è avvenuta con l’Atto Unico dell’86. Intendo dire che la costruzione della Unione in quanto struttura politica con la propria moneta unica è un processo molto recente. La crisi yugoslava ha rappresentato la prima crisi affrontata dalla cosiddetta politica estera di una Unione che non era ancora una unione politica, ma che era ancora nella sua fase costituente. Di fronte a questa crisi ci sono stati atteggiamenti molto diversi per ragioni storiche, la politica tedesca era diversa da quella francese e da quella inglese. C’erano scelte nazionali diverse. Ma dal momento che volevano edificare l’Unione, hanno tutti scelto di seguire la forza trainante, leader, che era la Germania. Nonostante le differenze che esistevano con la Germania, di fronte alla questione del riconoscimento della indipendenza dei nuovi Stati, Slovenia e Croazia, prima ad esempio della soluzione delle questioni nazionali in Croazia relative alla presenza dei Serbi in quel Paese, i diversi Stati europei preferirono seguire la Germania piuttosto di mostrare che non esisteva una unità. Lo stesso scenario si è riproposto più tardi durante la crisi del Kosovo. Non direi che tra Stati Uniti e Unione Europea, e all’interno dell’Unione tra Germania, Francia e Gran Bretagna, ci fosse lo stesso punto di vista. A Rambouillet la UE ha cercato di avere la propria Dayton, cioè di avere una politica estera che fosse in grado di imporre una propria soluzione che di fatto sosteneva più Milosevic che non la Uck. C’era la richiesta che il Kosovo mantenesse uno status di provincia della Serbia, con una maggiore autonomia, ma pur sempre come provincia della Serbia. Il parlamento serbo del resto aveva manifestato un accordo nei confronti di una soluzione di questo tipo. Ma il problema fu che l’esercito di liberazione del Kosovo rifiutò qualsiasi tipo di autonomia e quindi a Rambouillet non ci fu alcun accordo possibile. E nuovamente invece di affrontare la crisi politica aperta, e le difficoltà legate al fallimento diplomatico, gli Europei preferirono seguire il tipo di risposta degli Stati Uniti, cioè la guerra, piuttosto che mostrare la propria fragilità e incapacità a risolvere la questione. Di fatto la UE si mostrò come una potenza arrogante ma priva di una reale autonomia e di una capacità di fornire risposte. Direi quindi che la Unione è ancora in uno stadio di costruzione. Per quanto riguarda la seconda parte della sua domanda, cioè l’allargamento, io ritengo che la UE sia sinceramente preoccupata dalla instabilità alle proprie frontiere…
Qualcuno oggi sottolineava il fatto che per molti settori economici e politici all’interno della UE l’avere una grande area deregolamentata nei Balcani, dominata dalla economia nera e criminale, rappresenterebbe uno scenario preferibile rispetto alla stessa stabilità…
Non condivido il punto di vista di coloro che ritengono esista una unica e condivisa politica che unisca le strategie delle forze capitaliste ed imperialiste. Ritengo però che queste diverse forze non siano in grado di controllare gli effetti delle proprie politiche. Io penso che per quanto riguarda gli investimenti del capitale, la stabilità sia più importante. Certo questo atteggiamento è diverso da quello di coloro che sono impegnati nel traffico di armi o nel commercio di esseri umani, quindi ci sono diversi tipi di interessi in gioco. Instabilità e traffici ai propri confini significano una crescente difficoltà a controllare le frontiere dell’area Schengen e anche un crescente afflusso di immigranti illegali, insieme al rischio di un forte sviluppo di partiti e di politiche nazionaliste e populiste che esprimono resistenza e critica nei confronti della UE. Questo contesto può essere positivo per i traffici illegali, per la vendita di armi, ma è un qualcosa che mina la legittimità dell’Unione. Preferirei descrivere la situazione come molto fragile e contraddittoria, come una situazione che non riescono a controllare. Hanno promesso l’allargamento ai Paesi dell’est Europa se vanno nella direzione ‘giusta’, cioè se privatizzano. Dopo la guerra del giugno ’99 hanno anche promesso il Patto di Stabilità con un significativo finanziamento, qualcuno parlò anche di Piano Marshall, ma l’Unione è allo stesso tempo condizionata dalla propria logica economica e cioè dai vincoli di bilancio. Il bilancio della UE anche di fronte ad una prospettiva minima di allargamento è ridicolo, l’1,27% del bilancio. Lo stesso Patto di Stabilità presenta risorse ridicole. Siamo di fronte ad una contraddizione, rappresentata da un lato dal fatto che i governi europei si sono resi conto che la guerra della Nato è stata un fallimento, non sono stupidi. La guerra ha aumentato la instabilità regionale, chi l’ha promossa ha dovuto dare qualcosa in cambio ai poteri locali che l’hanno sostenuta, le popolazioni infine non erano contente di quella guerra. Alla fine hanno offerto il Patto di Stabilità e gli accordi di associazione come porta aperta nei confronti dell’Unione, ma d’altro canto la Unione è basata sulla competizione e sulle privatizzazioni, e sulla progressiva erosione dei bilanci statali destinati alle politiche sociali, quindi si trovano in una grande contraddizione.
Quindi, viste dalle popolazioni della ex Yugoslavia, le prospettive dell’integrazione dal punto di vista sociale ed economico non rappresentano una soluzione nei confronti dello scenario attuale…
No, ma questo è il caso anche degli altri Paesi dell’Europa dell’est. Cioè non credo che ci sarà una vera integrazione. Ci saranno delle aperture sul piano politico, di modo che alcuni tra i dieci candidati ad esempio possano partecipare alle prossime elezioni, ma non si tratterà di una vera integrazione. Ad esempio il contadino polacco non avrà gli stessi diritti del contadino francese. L’agenda dei prossimi anni, definita fino al 2013, prevede la soppressione anche di quei contributi concessi in forma di fondi strutturali a Spagna, Grecia, Portogallo e così via. Direi quindi che l’aiuto avverrà nelle forme dell’aiuto condizionato, come quello fornito dal Fondo Monetario Internazionale. Questo significa che l’aiuto diviene elemento di accelerazione dei problemi. In seconda istanza il capitale privato va dove ci sono soldi e stabilità, questa è una legge universale, quindi stiamo assistendo ad una situazione nella quale il capitale si sta dirigendo verso l’Ungheria, la Polonia, ma non ad esempio nei Balcani, a causa della instabilità. E sono altrettanto certa che non verrà indirizzato dove c’è maggiormente bisogno, cioè nei settori della educazione, sanità ecc. Il problema non è quello di avere illusioni rispetto al fatto che diventare membro possa risolvere qualcosa, il problema è cercare di costruire, all’interno e all’esterno dell’Unione, con quelli che potranno o vorranno diventarne membri così come con quelli che non lo vogliono, dei legami per combattere insieme contro una prospettiva neo-coloniale imposta dalle multinazionali. Abbiamo le nostre multinazionali francesi, tedesche ecc. che operano nei Balcani, e dobbiamo chiederci che tipo di diritti sindacali stanno introducendo, quali sono i diritti dei lavoratori all’interno delle loro fabbriche, quali sono i diritti dei giovani ad esempio nei confronti di scuola e formazione. Non è necessario sostenere la Unione così com’è per diventarne membro. Puoi scegliere di diventarne membro in maniera critica. Quello che è certo è che la politica della Unione Europea oggi non è una risposta nei confronti dello svilupparsi di ineguaglianze tra i popoli del continente europeo.
Cioè valuta positivamente le possibilità di una mobilitazione comune a livello regionale, europeo, su obiettivi specifici?
Far parte dell’Unione stimola la consapevolezza nelle persone che su alcune grandi questioni è possibile intervenire in modo più incisivo sulla dimensione europea. Consideriamo ad esempio le prospettive di una lotta a livello europeo sulla questione del trasporto pubblico, dei fondi pubblici per educazione e sviluppo, dei fondi per la ricerca, per la salute per tutti. Consideriamo la possibilità di lottare insieme per un altro tipo di politica internazionale, contro la guerra in Iraq o altrove, contro questo tipo di guerra al cosiddetto terrorismo, che di fatto sta producendo legislazioni repressive ovunque. Questi sono interessi comuni. Dobbiamo mantenere un profilo europeo per una mobilitazione su di una legislazione del lavoro che protegga le persone, i lavoratori. Oggi c’è una Convenzione presieduta da Giscard d’Estaing che presenta una nuova proposta di costituzione. Se la UE ha bisogno di una costituzione significa che allo stato attuale i trattati, gli scopi dell’Unione, i diritti delle persone all’interno dell’Unione non sono affatto chiari ai suoi cittadini. Non dobbiamo accettare il fatto che una nuova costituzione sia scritta alle spalle delle persone, senza democrazia, dobbiamo lottare e mobilitare i diversi rappresentanti e candidati sulle questioni cruciali: una Unione per che cosa? L’euro per che cosa? I diritti sociali e non la competizione dovrebbero essere la priorità. I servizi pubblici dovrebbero essere protetti dalla competizione del mercato, e il livello europeo è quello pertinente ad una lotta di questo tipo, perché esistono servizi pubblici, perché c’è una tradizione di resistenza sociale e perché c’è la possibilità di dire che una alternativa è possibile, al livello regionale, alla globalizzazione neoliberista delle multinazionali. In America Latina ad esempio la gente sta cercando di cambiare i rapporti di forza e di trasformare il Mercosur, resistendo alla visione statunitense di zona di libero commercio. Dopo la crisi asiatica anche in quel continente c’è stato il tentativo di costruire una sorta di rete asiatica… E’ una questione di resistenza sociale e di rapporti di forza. Noi possiamo costruire rapporti di forza regionali promuovendo la consapevolezza di una possibile resistenza europea, non solo nazionale. Questo non significa che non ci sia ancora la necessità di una resistenza nazionale, ce n’è bisogno, ma articolata su di un livello europeo potrebbe avere più forza. Questo è l’aspetto positivo della costruzione europea, e questo il messaggio che dobbiamo portare alle società dei Paesi che si affacciano all’UE.