L’Ucraina, l’Europa e un secondo Trattato di Roma

In questa seconda metà di giugno sono molti i summit europei previsti. In questo lungo editoriale, il co-fondatore dell’European Stability Initiative, spiega perché occorra dire sì senza esitazione alla candidatura Ue dell’Ucraina

17/06/2022, Gerald Knaus -

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Francobollo commemorativo dei Trattati di Roma, nel 1957 - © Trendsetter/Shutterstock

(Pubblicato originariamente da ESI )

È un momento storico per il progetto europeo. Il 17 giugno [oggi, ndr], la Commissione europea proporrà probabilmente di offrire lo status di candidato all’Ucraina e alla Moldavia. Il 23 giugno si terrà un incontro tra i leader dell’UE e dei Balcani occidentali. Il 23-24 giugno si terrà il Consiglio europeo. La grande questione che si porrà in tutti questi incontri sarà come rimodellare il rapporto dell’Unione europea con le democrazie dell’Europa centrale e dei Balcani, in un’epoca caratterizzata dall’aggressione militare russa e da minacce sempre più inquietanti provenienti da Mosca.

L’Unione europea può integrare l’Ucraina?

L’attacco della Russia all’Ucraina ha spinto Finlandia e Svezia a chiedere l’adesione alla Nato. Ha anche spinto l’Ucraina, la Moldavia e la Georgia a chiedere l’adesione all’UE. Il Kosovo ha recentemente annunciato che farà domanda a breve, ultimo degli stati dei Balcani occidentali a farlo.

Questi sviluppi fanno emergere la prospettiva di un’Unione europea con 36 o più stati membri. Come reagiranno i leader dell’UE a queste aspirazioni di adesione? Alcuni, guidati dalla Polonia e dagli Stati baltici, fin dall’inizio dell’invasione russa hanno esortato l’UE ad accogliere la candidatura ucraina. Essi sottolineano che negare all’Ucraina lo status di candidato invierebbe un messaggio terribile agli ucraini e un messaggio pericoloso a Putin, che sostiene che il suo destino è quello di "riportare" l’Ucraina nella sfera di influenza russa.

Un secondo gruppo sottolinea che qualsiasi risposta di tipo positivo all’Ucraina non debba lasciare indietro i precedenti candidati dei Balcani occidentali. Paesi che attendono da anni di ottenere lo status di candidato (Bosnia Erzegovina) o di avviare colloqui (Albania e Macedonia del Nord). Perché quindi concentrarsi solo sull’Ucraina? E gli altri?

Un terzo gruppo di stati membri invita invece alla cautela. Questi paesi temono che un allargamento eccessivo potrebbe causare disfunzioni. Propongono quindi che all’Ucraina, come agli altri candidati degli ultimi anni, venga offerta una prospettiva vaga e condizionata.

Con l’UE divisa, la posta in gioco per l’Ucraina e l’UE non potrebbe essere più alta. Per affrontare le sfide poste dalla candidatura ucraina occorre una visione strategica sul futuro dell’Europa. Inoltre, è necessario ripristinare la credibilità dell’attuale processo di adesione.

Dopo tutto, anche concedere all’Ucraina lo status di candidato, aggiungendo però condizioni che rendono l’apertura dei colloqui di adesione una prospettiva lontana, non sarebbe sufficiente. Si ripeterebbe l’approccio dell’UE nei confronti della Macedonia del Nord, che è diventata candidata nel 2005 e poi ha visto le sue ambizioni bloccate negli ultimi 17 anni. Anche l’apertura dei colloqui di adesione potrebbe non essere sufficiente, se si traduce in un processo di adesione come quello della Turchia (in trattativa dal 2005), del Montenegro (in trattativa dal 2012) o della Serbia (in trattativa dal 2014). Nessuno di questi paesi sembra più vicino all’adesione oggi di quando ha iniziato.

Nelle ultime settimane, ESI ha sostenuto che esiste una via d’uscita che risponde alle preoccupazioni di tutti gli stati membri. Si tratta di concedere lo status di candidato e di avviare subito i colloqui di adesione, offrendo inoltre quanto segue:

Tutti i paesi candidati che soddisfano i criteri di adesione all’UE, tra cui il rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto, dovrebbero ottenere il pieno accesso alle quattro libertà – libertà di movimento per beni, persone, servizi e capitali – e al mercato unico europeo. I cittadini e le imprese godrebbero degli stessi diritti di cui godono oggi i cittadini dei paesi membri dell’UE o della Norvegia e dell’Islanda.            

Questa offerta dovrebbe essere fatta all’Ucraina, alla Moldavia e a qualsiasi democrazia balcanica interessata. Si tratta di un obiettivo raggiungibile. Tra il 2000 e il 2002, la Lituania, la Lettonia e la Slovacchia hanno impiegato 34 mesi per avviare e completare i negoziati di adesione. Polonia, Slovenia e Cipro hanno impiegato 56 mesi, mentre Romania e Bulgaria 58 mesi. L’Ucraina potrebbe riuscire, tra qualche anno, ad entrare a far parte del mercato unico e i cittadini ucraini potrebbero godere delle quattro libertà sopramenzionate.            

L’ammissione al mercato unico dei paesi che soddisfano i criteri di adesione, compreso lo Stato di diritto, non complica il processo decisionale dell’UE. L’adesione al mercato unico non richiede una riforma interna dell’UE. Né rischia di rendere l’UE disfunzionale.            

Lo strumento per raggiungere questi obiettivi esiste già: è l’attuale processo di preadesione. Ogni anno la Commissione europea pubblica relazioni su quanto ogni candidato dei Balcani occidentali sia lontano dal soddisfare gli standard e i requisiti dell’UE per il mercato unico – dalla politica ambientale a quella della concorrenza – e sullo stato di diritto. Si tratterebbe di farlo anche per l’Ucraina e la Moldavia.            

Tuttavia, una volta che la Commissione conferma che un candidato ha soddisfatto queste condizioni, il Consiglio dovrebbe offrire pieno accesso al mercato unico e alle quattro libertà e negoziare un trattato simile a quello già esistente tra l’UE e i Balcani occidentali: una Comunità economica europea II (CEE), incentrata sulle quattro libertà come quadro di riferimento.

Una visione romana: come funziona l’integrazione

Nel settembre del 1946, Winston Churchill si recò a Zurigo per "parlare della tragedia dell’Europa". In un periodo di guerra civile in Grecia e di repressione stalinista in Europa centrale, Churchill propose una visione di un futuro diverso:

"C’è un rimedio che… trasformerebbe come per miracolo l’intera scena, e in pochi anni renderebbe tutta l’Europa, o la maggior parte di essa, libera e felice come lo è oggi la Svizzera. Qual è questo rimedio sovrano? È ricreare la famiglia europea, o la maggior parte di essa, e dotarla di una struttura che le consenta di vivere in pace, in sicurezza e in libertà".

Nell’aprile 2022, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha fatto eco a Churchill a Kiev:

"Siamo con voi mentre sognate l’Europa. Caro Volodymyr, il mio messaggio oggi è chiaro: l’Ucraina appartiene alla famiglia europea. Abbiamo ascoltato la tua richiesta, forte e chiara. E oggi siamo qui per darti una prima risposta positiva".

Churchill – un politico dell’opposizione nel 1946 – aveva una visione che a molti sembrava un sogno. La Von der Leyen, a capo dell’esecutivo dell’UE, può offrire molto più di un sogno: una procedura concreta, un processo di adesione a una struttura già esistente in cui l’Europa possa “vivere in pace, in sicurezza e in libertà".            

Trasformare visioni audaci in passi tecnici concreti è stato il segreto dell’integrazione europea. Sono stati politici realisti come Robert Schuman e Konrad Adenauer, ispirati da strateghi come Jean Monnet, a trasformare il linguaggio altisonante sulla famiglia europea in solide istituzioni.    

Nel marzo 1957, i leader di sei paesi dell’Europa occidentale si riunirono per firmare il Trattato di Roma che trasformò il loro continente. I leader riuniti annunciarono di essere:

"Decisi ad assicurare il progresso economico e sociale dei loro paesi mediante un’azione comune volta a eliminare le barriere che dividono l’Europa".

Il loro obiettivo era politico. I mezzi erano economici. Il loro obiettivo erano le barriere che dividevano l’Europa, che dovevano essere eliminate attraverso la creazione di una Comunità economica europea (CEE).        

In Germania questi progetti erano controversi. Sebbene il cancelliere Konrad Adenauer avesse ottenuto il sostegno dell’opposizione socialdemocratica per questo progetto di integrazione europea, alcuni dei principali ministri della CDU del suo governo si opposero ai suoi piani. Fu necessario un forte impulso da parte del cancelliere per costringere l’intero gabinetto a sostenere l’iniziativa.

Anche questi negoziati si svolsero in tempo di guerra. Mentre si negoziava il Trattato di Roma, l’esercito francese infatti conduceva la brutale battaglia di Algeri, torturando e giustiziando sommariamente i prigionieri, in quello che allora Parigi considerava territorio francese.    

Ma la CEE non solo è nata, è sopravvissuta all’impero francese e alla Quarta Repubblica francese, crollata un anno dopo. È sopravvissuta anche alle dittature di Franco e Salazar in Spagna e Portogallo, al Patto di Varsavia e all’Unione Sovietica. Divenne una calamita per altre democrazie, che cercarono di unirsi a questo accordo unico.            

La CEE ha ottenuto il suo successo concentrandosi sull’eliminazione delle barriere e sull’approfondimento dell’integrazione economica. Come ha recentemente affermato la politologa Nathalie Tocci a Vienna, l’integrazione europea è stata fin dall’inizio un "progetto politico in veste tecnica".  

L’Europa, ancora buia

Nel 1990, tutti gli stati europei, gli Stati Uniti, il Canada e l’Unione Sovietica si riunirono a Parigi per celebrare una nuova era di pace democratica:

"L’Europa si sta liberando dall’eredità del passato… si è aperta una nuova era di democrazia, pace e unità in Europa… impegno costante per la democrazia basata sui diritti umani e sulle libertà fondamentali; prosperità attraverso la libertà economica e la giustizia sociale; e uguale sicurezza per tutti i nostri paesi". Carta di Parigi, 1990.

Oggi l’Europa occidentale assomiglia all’Europa della pace prevista dalla Carta di Parigi: una regione in cui il conflitto armato è diventato impensabile. Nessuno all’Aja fa piani di emergenza per una potenziale invasione da parte della Francia o della Germania; nessuno a Bucarest e Vilnius prevede conflitti armati con l’Ungheria o la Polonia.

Allo stesso tempo, gran parte dell’Europa post-Guerra Fredda è rimasta un continente in guerra. Nei tre decenni successivi al 1990 si sono verificate 19 guerre o conflitti armati in Europa. Solo una ha avuto luogo nel vecchio Occidente: i "Troubles" in Irlanda del Nord, terminati con l’accordo del Venerdì Santo/Belfast del 1998. Tutti gli altri conflitti armati hanno afflitto lo sviluppo della metà orientale e sudorientale del continente. Molti rimangono irrisolti ancora oggi.

In una parte dell’Europa, i confini nazionali sono diventati prima permeabili e poi invisibili. L’integrazione europea è diventata il progetto di eliminazione delle barriere più riuscito al mondo. Anche le democrazie che hanno deciso di non aderire all’UE ne sono state attratte: Islanda, Norvegia e Svizzera sono entrate a far parte di Schengen; Islanda e Norvegia fanno anche parte del Mercato unico europeo. Questo processo si è svolto senza che un centro imperialista imponesse il suo controllo. È stata un’integrazione tra pari, formata attorno al più grande mercato del mondo.            

In altre parti d’Europa, i confini hanno continuato a essere contesi con sangue e dolore. È da questa tragica gabbia che gli ucraini stanno cercando di uscire. Per riuscirci, devono prima combattere la Russia. Questo spiega la loro prima priorità: ottenere le armi necessarie per difendere le loro case.

Allo stesso tempo, stanno finalmente facendo ciò che altre democrazie da poco indipendenti hanno fatto dopo la fine della Guerra Fredda. Il 28 febbraio 2022, quattro giorni dopo l’inizio dell’invasione russa, il presidente ucraino Zelensky ha firmato una richiesta ufficiale di adesione dell’Ucraina all’UE. Il 24 marzo, Zelensky si è rivolto ai leader dell’UE durante una riunione del Consiglio europeo, chiedendo a tutti gli stati membri di sostenere l’adesione dell’Ucraina.

Perché l’Ucraina ha chiesto l’adesione all’UE nel bel mezzo di una guerra, mentre la sua capitale era ancora sotto assedio? Perché i dipendenti pubblici ucraini hanno compilato le risposte a migliaia di domande poste dalla Commissione europea, mentre nel paese infuriavano le battaglie? Per capirlo occorre, una volta ancora, capire l’origine di questa guerra.

Colonie e colonizzatori            

La guerra contro la Russia non si combatte solo per difendere le case ucraine da un aggressore. Si combatte anche per visioni radicalmente diverse sul futuro dell’Europa.    

Una delle due visioni è stata offerta la scorsa settimana dal presidente russo Vladimir Putin, quando ha spiegato che tutti i paesi sono sovrani o colonie:

"Per rivendicare un qualche tipo di leadership – non parlo nemmeno di leadership globale, ma di leadership in qualsiasi area – ogni paese, ogni popolo, ogni gruppo etnico dovrebbe garantire la propria sovranità. Perché non c’è una via di mezzo, non c’è uno stato intermedio: o un paese è sovrano, o è una colonia, non importa come si chiamino le colonie".

Gli stati sovrani possono difendersi da soli. Per Putin, questo è il caso di potenze nucleari come la Russia, la Cina, gli Stati Uniti e persino, come ha notato con approvazione, la Corea del Nord.

L’Ucraina, per Putin, non è sovrana in tal senso. L’Ucraina non ha altra scelta se non quella di far parte di un impero. Il suo destino è quello di essere conquistata e controllata, e l’unica domanda è da chi: Russia o Stati Uniti? Qualsiasi associazione dell’Ucraina alla NATO o all’UE è quindi vista come una minaccia, non perché potrebbe portare a un attacco a una superpotenza nucleare come la Russia, ma perché impedirebbe alla Russia di affermare il proprio controllo sulla sua ex colonia. Come aveva del resto avvertito Putin nelle settimane precedenti la guerra:

"Mi sembra che gli Stati Uniti non si preoccupino tanto della sicurezza dell’Ucraina… ma il loro compito principale è quello di contenere lo sviluppo della Russia. In questo senso l’Ucraina stessa è solo uno strumento per raggiungere questo obiettivo".

Secondo Putin, le colonie sono destinate ad essere strumenti delle grandi potenze. L’Ucraina e gli altri stati europei deboli devono essere lo strumento della Russia per ripristinare la propria gloria.

Questa è una visione del passato, del presente e del futuro dell’Europa che getta l’ombra più cupa sull’Ucraina e sull’area che si trova tra la Germania e la Russia che lo storico Timothy Snyder ha definito le “terre del sangue”. Una regione che ha visto molti dei peggiori crimini e atrocità del XX secolo.    

Parlando a Praga nel 2018, Snyder ha avvertito il pubblico che in questa regione non vi è una storia serena di stati nazionali, ma una tragica storia di occupazione straniera e di orribili violenze. Dopo il crollo degli imperi tradizionali degli Asburgo, degli Hohenzollern e dei Romanov nel 1918, in Europa centrale sono sorti nuovi stati indipendenti. Tuttavia, questi stati mantennero la loro indipendenza solo per un breve periodo: pochi mesi nel caso dell’Ucraina, dell’Armenia o della Georgia, che furono riconquistate dai bolscevichi. Qualche decennio nel caso della Polonia, della Cecoslovacchia e degli Stati baltici, che furono occupati dagli eserciti di Hitler o di Stalin. Come ha detto Snyder:            

"Non è di rilievo che ogni singolo nuovo stato nazionale creato dagli Accordi di pace di Parigi del 1918 e successivamente cessi di esistere nel giro di due decenni? È una semplice coincidenza? … Non solo tutti questi nuovi stati costituiti dopo il 1918 falliscono, ma l’intero territorio dell’Europa orientale governato da questi trattati, con l’eccezione dell’Austria, cade poi sotto la dominazione sovietica. Il che direi che non è un segno del successo degli stati nazionali, ma piuttosto della continuazione della forma imperiale, ora in una forma diversa".

La Russia ufficiale sotto Putin ha a lungo elogiato i successi in politica estera del suo grande costruttore di imperi del XX secolo, Joseph Stalin, in film, musei e libri di testo di storia. La narrazione della riconquista imperiale ha anche recentemente ispirato Putin a paragonarsi allo zar Pietro I.

Agli occhi di Putin c’è solo un’opzione per i vicini della Russia: "tornare" allo status di stati vassalli. Se sono fortunati, potrebbero finire come l’Armenia di oggi. Se sono meno fortunati, potrebbero assomigliare alla Bielorussia di Lukashenko. E se si oppongono al controllo imperiale, vedranno le loro città subire il destino di Grozny o Mariupol.    

Il punto di vista di Putin è terrificante e rievoca i periodi più bui del XX secolo in Europa. Allo stesso tempo, la riluttanza a lasciare andare colonie, dipendenze e stati vassalli non è prerogativa solo russa.

Dopo la Seconda guerra mondiale, molte democrazie europee hanno continuato a combattere aspre guerre per mantenere il controllo delle loro colonie asiatiche: gli inglesi in Malesia, gli olandesi in Indonesia, i francesi in Indocina. Hanno combattuto "operazioni speciali" in Africa, dall’Algeria al Kenya. Hanno combattuto i movimenti anticoloniali in Europa, come nel caso di Cipro controllata dagli inglesi. Dal Regno Unito alla Francia, dalla Spagna al Portogallo, le potenze coloniali non accettarono di buon grado la perdita delle colonie. Alla fine, hanno imparato a proprie spese che il colonialismo non poteva essere sostenuto. Hanno pagato un prezzo alto per accettarlo, anche se un prezzo più alto è stato pagato da vietnamiti e algerini, kenioti e angolani. Sono state le sconfitte sul campo di battaglia – o le vittorie di Pirro – a liberare le democrazie europee del dopoguerra da pericolose illusioni. Illusioni che ancora oggi dominano la cultura politica della Russia.    

Lo status di candidato e altro ancora – per l’Ucraina e per altri paesi

Non ci sono buone ragioni per non concedere a giugno all’Ucraina lo status di candidato. I leader dell’UE hanno concesso lo status di candidato alla Turchia 23 anni fa, nel 1999, quando in Turchia vigeva ancora la pena di morte. Lo hanno concesso alla
Macedonia del Nord nel 2005. In entrambi i casi, lo status di candidato non ha comportato una rapida adesione.

Allo stesso tempo, l’apertura di colloqui di adesione con molti più paesi pone all’UE delle domande cruciali. Quanto l’UE è pronta per un altro allargamento in grande stile, per un’Unione di 35 o più membri? In questo momento la risposta onesta, sicuramente a Parigi e all’Aja, a Berlino e a Copenaghen, sarebbe: non lo è.

Non è un dibattito che l’UE risolverà nei prossimi giorni, anche se un giorno dovrà iniziare a discuterne. Tuttavia, ciò che si può fare ora, in risposta alle candidature ucraine e moldave, è ripensare l’attuale disfunzionale processo di adesione.

Se il 2022 vedrà l’apertura di nuovi negoziati di adesione, questi dovranno essere accompagnati da negoziati che portino anche a una Comunità (economica) europea aperta a tutte le democrazie europee, compresi i Balcani occidentali. È necessario uno strumento potente per accelerare, nella tradizione di Schuman e Monnet, "l’eliminazione delle barriere che dividono l’Europa".            

Questo sarebbe sia visionario che familiare, poiché qualcosa di simile è già stato fatto in passato. È così che Finlandia, Svezia e Austria hanno aderito prima al mercato unico nel 1994 e poi all’UE nel 1995. Questa era la visione del leggendario presidente della Commissione Jacques Delors. Nel suo discorso inaugurale al Parlamento europeo, nel gennaio 1989, Delors si è chiesto come "conciliare il successo dell’integrazione dei Dodici senza respingere coloro che hanno lo stesso diritto di chiamarsi europei?". Delors si riferiva ad Austria, Svezia, Norvegia e Finlandia. Egli propose loro un "partenariato più strutturato con istituzioni decisionali e amministrative comuni".

Tre anni dopo, il 2 maggio 1992, Austria, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia firmarono l’accordo sullo Spazio economico europeo (SEE). Il 1° gennaio 1994 entrarono a far parte del mercato unico.

Questo processo in due fasi non è stato una deviazione, tutt’altro. Ha aumentato le probabilità di un’adesione all’UE. Veli Sundbäck, ex negoziatore capo della Finlandia, concorda su questo: "Per noi finlandesi, il SEE ha facilitato enormemente i nostri negoziati di adesione". 

Lo ha sottolineato anche Anders Olander, ex negoziatore svedese: "Per il mio paese, la Svezia, è stata una tappa fondamentale verso la piena adesione all’UE. Senza l’accordo SEE e il processo che lo ha preceduto – la migliore scuola di integrazione europea che mi viene in mente – non saremmo stati in grado di concludere i negoziati di adesione così facilmente e rapidamente come è poi avvenuto".

È il momento della leadership            

Il momento attuale della storia europea richiede l’immaginazione pratica di un Jacques Delors. Riuscirà Ursula von der Leyen a fare qualcosa di simile?            

Il momento attuale richiede l’audace realismo di coloro che hanno negoziato la Comunità del carbone e dell’acciaio e il Trattato di Roma. Charles Michel può essere il Paul-Henri Spaak, Emanuel Macron il Robert Schuman e Olaf Scholz il Konrad Adenauer di questa generazione?

Il momento attuale richiede una visione di audacia alla Churchill, che deve però tradursi in passi tecnici concreti nella tradizione del venditore di Cognac Jean Monnet, che ha sempre puntato su quelle che Robert Schuman chiamava "realizzazioni concrete che creano innanzitutto una solidarietà di fatto".            

Naturalmente, l’Ucraina del 2022 non è la Svezia o l’Austria del 1994. È un paese in guerra in un continente in bilico, all’inizio di una nuova guerra fredda. Ma questo rende più, e non meno, urgente una solida strategia per la futura integrazione europea.

L’attacco all’Ucraina del 24 febbraio 2022 ha reso evidente che anche l’Unione Europea deve prepararsi a difendere i suoi membri dalla minaccia di una Russia revanscista. Negli ultimi decenni le democrazie europee hanno raggiunto la propria sicurezza grazie all’alleanza con le grandi democrazie d’oltreoceano, Stati Uniti in primis, ma anche Canada.

Tuttavia, se un giorno le democrazie europee non potranno più contare sugli Stati Uniti per la loro sicurezza, dovranno essere in grado di difendersi da sole per difendere il loro progetto anti-imperiale. Avranno bisogno quindi di avere dalla loro parte il maggior numero possibile di democrazie. Un’Ucraina democratica, che abbia sfidato una Russia ostile, sarebbe un alleato prezioso.

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