L’otto marzo balkaro

Per la Repubblica di Kabardino-Balkaria l’8 marzo è giorno di lutto in ricordo dell’esilio forzato del 1944. Una nonna, reduce dalla deportazione e suo nipote raccontano di ieri e di oggi

04/03/2009, Maria Elena Murdaca -

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foto di Maria Elena Murdaca

In Russia l’8 marzo è festa nazionale. Per la Repubblica di Kabardino-Balkaria, almeno per una parte di essa, è invece giorno di lutto. L’8 marzo 1944, infatti, la popolazione di etnia balkara della repubblica caucasica è stata radunata a Nalčik, caricata su vagoni merci, e trasportata in Asia Centrale, in Kirghizistan e Kazakistan. Lo stesso destino è toccato ad altre popolazioni, caucasiche e non, falsamente accusate di collaborazionismo con i tedeschi, e spedite lontano dalle terre d’origine. Incontriamo al villaggio di Kašchatau, a maggioranza balkara, un’anziana donna, reduce della deportazione. Mentre entriamo in casa, dalla moschea vicina si ode il richiamo del muezzin che ricorda l’ora della preghiera. La tavola viene imbandita, anche se siamo appena usciti da un ristorante ci vengono offerti, insieme al the, i kočeni. Sono una squisita specialità balkara: delle sottilissime crêpes con ripieno di carne o di patate e formaggio, preparate in casa. Il costume locale vuole che la cuoca, per modestia, non si mostri agli ospiti, per cui non ci resta che esprimere la nostra gratitudine e ammirazione per interposta persona. Mentre mangiamo, entra nella stanza un’anziana signora. È Sahidat Temiržanova. La sopravvissuta. Si trascina nella stanza e si siede affaticata nella poltrona.

Il rispetto che la presenza di questa signora incute è uguale a quello che si prova davanti ai sopravvissuti di Auschwitz. I miei accompagnatori mi presentano, spiegano che vorrei sapere della deportazione, e lei inizia a raccontare. All’inizio con fatica, poi aggiunge sempre maggiori particolari. Ancora bambina, nei giorni della deportazione è stata portata a Nalčik. Dopo un paio di giorni tutti sono stati caricati su vagoni merci. Lei su un treno, i suoi genitori e il resto della famiglia, due fratelli, una sorella e i nonni su un altro. Non si sono mai più ritrovati. Vivi? Morti? Solo con un fratello si sono rincontrati, ormai diversi anni dopo il ritorno. Furono scaricati in Asia centrale, nel bel mezzo del nulla, in Kirghizistan e Kazakistan, dopo un viaggio in condizioni atroci. Senza acqua, senza cibo. Senza servizi igienici. Il pudore delle donne era tale, che molte non sopportavano la vergogna di fare i propri bisogni sotto gli occhi dei compagni di viaggio dell’altro sesso, e così morivano. Il tifo, il freddo e la fame hanno fatto il resto.

La cosa che più sorprende nella narrazione è che non c’è astio né alcuna sfumatura di rabbia nel tono di Sachidat Temiržaeva. Parla della deportazione come se parlasse di una calamità naturale. Di un terremoto, di un’inondazione, di uno tsunami. Non è colpa di nessuno. Non ci sono responsabili con nomi e cognomi. Era un passo doloroso ma necessario per vincere la guerra. Non si tratta di un caso isolato. Sono diversi gli ex-deportati a pensarla così. Il mito di Stalin rimane intangibile. Al massimo, se proprio si deve indicare un responsabile, si ricorre a Berija capo della polizia segreta di Stalin ebbe un ruolo importante nella campagna delle epurazioni staliniane e nell’organizzazione dei campi di lavoro sovietici. Paradossalmente, nella rievocazione della deportazione della nostra testimone, risuonano toni di rimpianto per la vita in armonia con le altre popolazioni, l’assenza di furti e crimini e il clima caldo, che favoriva l’agricoltura. Il rientro e il reinserimento della popolazione sul Caucaso non ha comportato particolari difficoltà, se non quelle legate all’attesa della realizzazione di abitazioni e alloggi in numero sufficiente per tutti. Le tensioni, non sono state forti come quelle seguite al rientro dei ceceni, e soprattutto degli ingusci. Il conflitto congelato del Prigorodnyj Rajon, distretto conteso fra ingusci e osseti, esploso violentissimo all’indomani del crollo dell’Urss, affonda le sue radici proprio nelle deportazioni staliniane.
Contro ogni aspettativa, i toni più amari non riguardano il racconto della deportazione, ma la dissoluzione dell’Unione Sovietica, che ha portato con sé un improvviso e rovinoso crollo da un punto di vista economico e sociale, e un netto decadimento negli standard morali.

Magomed Čerkesov oggi ha 28 anni. È il nipote di Sachidat Temiržaeva. Appartiene all’ultima generazione che ha coscienza e conoscenza diretta dei sopravvissuti alla deportazione. I suoi figli nasceranno quando forse sua nonna non ci sarà più, per cui saranno privi del valore della testimonianza diretta. Magomed ne è consapevole. Si accosta al tema della deportazione con la serietà e la solennità che una tragedia del genere richiede: "Forse la generazione successiva avrà un approccio più leggero, ma finché mia nonna è viva, per me è un avvenimento da ricordare con la dovuta importanza. Oggi noi siamo sulla nostra terra, ma molte persone sono morte lontano da qui."

Il senso di appartenenza al proprio territorio è sempre forte, nei popoli caucasici. In Kabardino-Balkaria l’otto marzo la deportazione del popolo balkaro viene ricordata con concerti, manifestazioni e deposizioni di fiori e corone al Museo Memoriale della Deportazione. La coincidenza con la Festa della Donna rende la memoria di questa tragedia un evento circoscritto e localizzato. Magomed spiega che si è sempre parlato liberamente della deportazione, come evento storico. "Il cambio di potere c’è stato sotto Chruščev, che con il suo discorso al XX Convegno del Pcus nel 1956 ha riabilitato le popolazioni represse, autorizzandole a tornare in patria. Il ritorno non è cominciato subito, di fatto noi balkari abbiamo iniziato a rientrare parecchio tempo dopo. Negli ultimi anni della perestrojka, sono stati emesse numerose leggi e decreti che hanno riabilitato i popoli deportati, prevedendo anche una sorta di compensazione economica. In realtà, a causa della corruzione, i fondi stanziati per il risarcimento non sono arrivati ai destinatari." Magomed ci racconta anche delle vittime illustri della deportazione. Fra i deportati noti, i balkari ricordano i poeti Kazim Mečiev, considerato uno dei fondatori della letteratura balkara, deportato e morto nel 1945 in Asia Centrale, e Kaisyn Kuliev, che scelse volontariamente l’esilio in Kirghizistan, insieme al suo popolo, nonostante Boris Pasternak gli avesse procurato un salvacondotto per vivere a Mosca in tutta tranquillità. Per tutto il periodo della deportazione, fino alla riabilitazione, le opere dei poeti e degli scrittori appartenenti a popoli deportati, non venivano pubblicate in Urss.

La frammentazione caratteristica dei popoli caucasici si ritrova anche nelle giornate di lutto. È singolare che non esista un unico Giorno della Memoria per ricordare le deportazioni di tutti i popoli repressi. Ogni popolo ha il suo giorno del dolore. Per i ceceni, ad esempio, il giorno del lutto è il 23 febbraio (ironia della sorte, altra festa nazionale russa, il Giorno del Difensore della Patria). È forse anche l’assenza di una ricorrenza comune che impedisce a livello sovranazionale un recupero della memoria doloroso ma comunque doveroso. Finché la memoria rimane frammentata, l’incidenza del recupero della storia rivestirà sempre importanza relativa, senza travalicare i confini delle unità amministrative locali. "Ma oggi c’è la globalizzazione, mentre allora, davvero nessuno sapeva cosa accadesse" riflette e sottolinea il nostro interlocutore.

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