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L’ombra del genocidio
Il voto del Congresso americano sul genocidio e il futuro dei protocolli d’intesa firmati da Ankara e Yerevan in ottobre. Il dibattito in Armenia
La Commissione per gli affari esteri del Congresso americano ha approvato all’inizio di marzo, di stretta misura, una risoluzione che esorta gli Stati Uniti a riconoscere come genocidio il massacro e la deportazione, avvenuta nel 1915, di almeno un milione e mezzo di armeni che vivevano nell’Impero ottomano. Simili risoluzioni non sono una novità, e normalmente si concludono con una pressione presidenziale che blocca ogni atto legislativo conseguente per il timore di alienarsi l’amicizia della Turchia. Questa risoluzione è giunta però in un momento particolarmente delicato. Malgrado la Turchia respinga le accuse, Ankara ammette che ci furono dei morti armeni, ma aggiunge che a morire furono anche molti turchi.
Nel tentativo di risolvere questo doloroso passato, Armenia e Turchia hanno firmato in ottobre due storici protocolli, volti a ristabilire le relazioni diplomatiche e a riaprire il confine tra i due vicini divisi. Il confine era stato chiuso dalla Turchia nel 1993, in solidarietà con l’Azerbaijan durante la guerra scoppiata con l’Armenia per il territorio conteso del Nagorno Karabakh. Oltre 25.000 persone morirono durante quel conflitto, e un milione di persone furono costrette ad abbandonare le proprie case. Al momento dell’accordo per il cessate il fuoco, firmato nel 1994, le forze armene mantennero il controllo del 14 per cento del territorio azero al di fuori del Nagorno Karabakh propriamente detto.
Sedici anni dopo, la prospettiva di un trattato di pace rimane più lontana che mai, e l’Azerbaijan si oppone con forza alla ratifica dei protocolli fino a quando non verrà trovata una soluzione al conflitto del Karabakh e le forze armene non si saranno ritirate dal territorio occupato. Di conseguenza, molti analisti pensano che i ritardi nella ratifica dei protocolli arrivino da Ankara piuttosto che da Yerevan, frustrando tanto i policy maker statunitensi quanto l’Armenia. È per questa ragione, sostengono, che il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, non si è opposto al voto del Comitato del Congresso tanto fermamente quanto avevano fatto i suoi predecessori.
Il governo armeno ha sottoposto i protocolli al parlamento il mese scorso, insieme ad un emendamento alla legislazione sui trattati internazionali, che ne permette l’annullamento nel caso in cui la Turchia non ottemperi tempestivamente alla sua parte dell’accordo. “Se, come sono in molti a sospettare, verrà provato che l’intento della Turchia è quello di temporeggiare, invece di normalizzare le relazioni, dovremo interrompere il processo,” ha dichiarato il presidente armeno Serzh Sargsyan nel corso di una recente visita a Londra. È noto inoltre che Sargsyan è infuriato per i tentativi turchi di collegare questi accordi alla risoluzione del conflitto del Karabakh.
“Un Paese che sogna una regione senza confini dovrebbe fare il primo passo e porre fine al blocco dell’Armenia”, queste le parole di Sargsyan riportate in una dichiarazione ufficiale emessa dall’ufficio presidenziale. “Se la pressione dell’Azerbaijan non permette al parlamento turco di ratificare i protocolli, niente però impedisce al governo turco di riaprire, anche prima della ratifica dei protocolli, il confine tra i due Stati, che esso stesso aveva chiuso”.
Eppure, nonostante quello che potrebbe sembrare un successo per la politica estera armena, perché sposta il biasimo sulla Turchia, altri a Yerevan stanno prendendo una linea diversa. Parlando ad una manifestazione che celebrava il secondo anniversario della sommossa del primo marzo, seguita alle elezioni, e che aveva avuto dieci vittime, il leader dell’opposizione extraparlamentare Levon Ter-Petrosyan è stato particolarmente duro. L’ex presidente, noto per avere posizioni concilianti riguardo alle relazioni armeno-turche, rivolgendosi a circa 7.000 sostenitori ha definito il processo di riavvicinamento come “umiliante”.
Anche altri sono critici, ma per ragioni differenti. La Federazione armena rivoluzionaria – Dashnaktsutyun (ARF-D), nazionalista, che faceva parte del governo fino a quando, lo scorso aprile, abbandonò i suoi seggi in segno di protesta contro il processo di normalizzazione, è rimasta altrettanto insoddisfatta dallo stretto margine del voto del Congresso [americano]. Nel 2007 una simile risoluzione era stata approvata con 27 voti a favore, mentre quest’anno è passata con solo 23 voti contro 22. La ARF-D ha anche dichiarato di ritenere che proprio i protocolli, che includono l’impegno per l’Armenia e la Turchia a risolvere il loro doloroso passato attraverso la creazione di una commissione storica, erano responsabili per una vittoria così risicata.
“Penso che tutti quelli che hanno seguito il dibattito della Commissione abbiano visto e capito molto bene come questi protocolli possono frenare il processo di riconoscimento internazionale del genocidio armeno”, ha dichiarato ai media Armen Rustamyan, leader storico della ARF-D. Questo nonostante il successo del voto e il fatto che in passato la risoluzione non è mai riuscita ad essere tramutata in legge. “Nonostante l’avessimo sostenuto per mesi, molti pensavano che si trattasse solo di una visione di parte”.
Più preoccupante, forse, è stata la reazione della Turchia e degli Stati Uniti. Dopo che la risoluzione è stata approvata la Turchia ha richiamato il suo ambasciatore negli Stati Uniti per consultazioni, mentre gli analisti hanno avvertito del possibile allontanamento del Paese dall’Occidente e dei rischi per le operazioni militari degli Stati Uniti in Afghanistan condotte tramite la base aerea turca di Incirlik. “La decisione della Commissione per gli affari esteri non colpirà la Turchia, ma danneggerà gravemente le relazioni bilaterali, gli interessi e la visione [comune]”, ha dichiarato il Primo ministro turco Tayyip Erdogan. “A rimetterci non sarà la Turchia".
Nel frattempo il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha telefonato al presidente della Commissione per gli affari esteri per esortarlo a non mettere in campo proposte legislative. Si dice che anche Obama abbia chiamato la sua controparte turca, Abdullah Gul, per invitarlo a ratificare tempestivamente il protocollo, spingendo così qualcuno a pensare che la risoluzione potrebbe anche servire ad aumentare la pressione sulla Turchia in questo senso, specialmente dopo che sono passati cinque mesi dalla firma dei protocolli. Il 24 aprile gli armeni di tutto il mondo commemoreranno il 95° anniversario dei massacri, e cresceranno le pressioni su Obama perché riconosca quei fatti come genocidio.
Pochi naturalmente si aspettano che egli lo faccia, non ultimo a causa dell’importanza strategica che la Turchia continua ad avere per gli Stati Uniti. Le potenziali ripercussioni politiche, tuttavia, potrebbero essere importanti. Il presidente Obama aveva promesso di riconoscere il genocidio armeno nella sua campagna elettorale. Per ora, mentre gli attivisti della vasta diaspora armena continuano a sperare che lo farà, Yerevan e Washington sono più preoccupati da un’altra questione. La loro speranza è che la normalizzazione dei rapporti tra Armenia e Turchia possa contribuire alla pace e alla stabilità nel Caucaso. Il fatto è, però, che questa opportunità potrebbe richiudersi molto presto.