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L’odore delle bombe nell’estate di Donetsk

Una giornata estiva trascorsa a Donetsk, Ucraina, tra i boati delle bombe e una disperata ricerca di normalità. Foto e testi di Maurizio Vezzosi. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Spesso, nel caldo di Agosto, a Donetsk si ha la sensazione che l’ultima guerra vissuta dalla città sia stata quella terminata settant’anni or sono: eppure sono pochi i chilometri che la separano dalle trincee della prima guerra civile europea del XXI° secolo. Una guerra che, secondo le stime dell’ONU avrebbe già ucciso oltre seimila persone e feritone quindicimila, benché i numeri di altre stime siano fino a dieci volte maggiori.  

(Nella foto: Il mercato all’aperto di Donetsk)

In centro molti passeggiano costeggiando la riva del fiume, il Kalmius, che entrando in città si spande assomigliando quasi ad un lago. Le betulle ed i salici si specchiano nell’acqua torbida sul ponte di viale Illich sopra il quale svettano massicce decorazioni sovietiche, rivendicando l’ancestrale natura operaia della città: una città che deve la sua stessa esistenza all’estrazione mineraria ed all’industria siderurgica.

(Nella foto: Lo stemma della RSS Ucraina sul ponte di viale Illich)

Nonostante l’inferno della guerra a pochi chilometri di distanza, il mercato di Donetsk brulica di persone indaffarate. Chi carica, chi scarica, chi vende, chi compra. Appena fuori, in un bellissimo parco c’è chi va in bicicletta, chi si allena, chi prende il sole. Nel centro della città incrociamo comitive di adolescenti, bellissime ragazze ed alcune babushke – in russo: nonne, anziane signore – che portano a spasso i propri nipoti.

(Nella foto: La merenda di un bimbo sulla spiaggia del fiume)

Nei locali nulla riesce ad avere la meglio sul flusso di dance anni novanta, al ritmo della quale è cresciuta de facto la nostra generazione mentre la gente del Donbass, dell’Ucraina, della Russia, e tutta l’ex Unione Sovietica conosceva fame, miseria e disperazione. I tormentoni da discoteca, che dopo qualche ora ci sono già entrati in testa, contorcono l’atmosfera di una città sotto assedio, rendendola allegramente surreale.

(Nella foto: Uno scorcio della stazione ferroviaria di Donetsk)

In centro della città è ordinatissimo. Strade pulite, prati rigogliosi, aiuole in fiore: quasi non si direbbe che ci sia la guerra, se non fosse per i continui boati che arrivano da una manciata di chilometri dalla città. Nella periferia nord, la situazione è ben diversa: con un autobus di linea raggiungiamo rapidamente la stazione ferroviaria, nel quartiere Kyvskiy, prossimo alla zona dell’aeroporto. La stazione è stata completamente ristrutturata in occasione dei campionati europei di calcio del 2012, ma i bombardamenti dell’esercito ucraino l’hanno seriamente danneggiata in più parti. Appena scesi, ad accoglierci, in lontananza, ci sono raffiche di mitragliatrice ed una serie di esplosioni.

(Nella foto: Sui binari della stazione)

Attraversando il sottopassaggio della stazione imbocchiamo viale Maresciallo Žukov, che collega il quartiere Kyvskiy a Pesky, un sobborgo sulla linea del fuoco dove da mesi si combatte senza tregua. Percorrendo il viale in direzione nord l’atmosfera si fa spettrale passo dopo passo. Chi non ha abbandonato il sobborgo e – per il momento – non ha visto la propria casa ridotta in cenere e macerie cerca come può di proteggerla, e di proteggersi barricando le finestre con sacchi di sabbia, assi, vecchi mobili e calcinacci.

(Nella foto: Una colonna della banchina crivellata di colpi)

Nella periferia di Donetsk ed in altre zone del Donbass molte famiglie hanno trascorso l’inverno rifugiandosi nelle cantine. Adesso, pur continuando a vivere qui, chi ha la fortuna di avere amici o parenti nel centro della città o in altri quartieri più lontani dal fronte il pomeriggio si posta per passare la notte lontano, si fa per dire, dalle zone dove la tregua di Minsk forse non è mai cominciata.

(Nella foto: Un muro nei dintorni della stazione ferroviaria)

Proseguendo sul viale alberato suscitiamo l’interesse dei pochi, pochissimi passanti, il cui numero già sparuto diminuisce man man che il suono degli spari e delle esplosioni si fa più vicino, fino a raggiungere lo zero assoluto. Con quelli che incontriamo abbiamo serie difficoltà a conversare, tant’è forte e continuo il frastuono dei combattimenti ad appena qualche centinaio di metri.

(Nella foto: Viale Maresciallo Žukov)

Un anziano, ex minatore, come la maggior parte degli uomini del quartiere, e della città, con la rassegnazione negli occhi ci mostra gli scheletri carbonizzati del cinema, del centro culturale, del mercato del quartiere e di molte abitazioni.

(Nella foto: Katia, fuori dalla propria casa a pochi chilometri dal fronte)

Fotografiamo dall’interno quel che rimane del cinema del sobborgo, e le ceneri che calpestiamo saturano velocemente i nostri polmoni. Usciamo tossendo e sputando a più riprese.  

(Nella foto: Quel che resta del cinema del quartiere Oktjabrski)

Continuiamo ad avvicinarci alla linea del fuoco fino a raggiungere la moschea di Donetsk, costruita negli anni ’90 dagli oligarchi Bragin e Akhmetov, forse i due più noti esponenti della numerosa comunità tartara del Donbass.  

(Nella foto: La parte coperta del mercato rionale)

Su invito di Alexey, il guardiano della moschea, documentiamo i danneggiamenti provocati da mortai e granate, che mentre fotografiamo continuano ad esplodere a qualche centinaio di metri. Trovandosi nel bel mezzo dei combattimenti, la comunità islamica della città è stata costretta ad interrompere nella moschea ogni attività religiosa. Camminando ascoltiamo Alexey: è cresciuto a Donetsk, ma la sua famiglia viene da L’vov, città a cui si sente legato nonostante, dice, sia la roccaforte del banderismo. Raccontandocelo, con il sangue agli occhi impreca contro i nazisti di Pravy Sektor.

(Nella foto: Il minareto della moschea colpito dall’artiglieria ucraina)

Non lontano dalla moschea incontriamo Vasil, un pastore con le sue capre. A molti, in Donbass, le bombe hanno portato via tutto: la casa, gli affetti, la vita. Vasil è riuscito a salvare solo le sue capre.

(Nella foto: Vasil, con le sue capre: Angela, François e Barack)

Sorridiamo mentre una di queste prova ad assaggiare i nostri pantaloni. Divertiti, le grattiamo la testa un po’ come si farebbe con un gatto. “Le mie capre vengono da tutto il mondo. Sapete come si chiama quella?” ci chiede. “Si chiama Angela, e viene dalla Germania”. Indicandoci un maschio: “Lui è francese, e si chiama François. Ma c’è anche uno statunitense che si chiama Barack”. L’orrore della guerra non è riuscito a schiacciare l’ironia di quest’uomo che, ci dice, ha ripagato così il sostegno dell’Unione Europea e degli Stati Uniti al governo di Poroshenko, responsabile, afferma con odio, di un vero e proprio genocidio.

(Nella foto: Angela, François e Barack)

Salutiamo Vasil con un abbraccio mentre il sole tramonta e ci allontaniamo dalla periferia nord insieme agli ultimi che passeranno la notte lontano dalle proprie case. In centro, poco prima del coprifuoco – le ventitre locali – l’aria è piacevole e un po’ tutti, a dispetto dei boati provenienti dalla periferia settentrionale, vorrebbero continuare a godersi il fresco serale che si alterna al caldo del giorno. Il vento accarezzando le strade impregna l’aria umida della sera di un odore inequivocabile, unico. L’odore delle bombe. Un odore sulfureo che impregna narici e pensieri, e su cui rimane ben impresso, a dispetto del tempo e degli accordi di Minsk.

(Nella foto: Viale Maresciallo Žukov: nel pomeriggio, chi vive ancora qui si allontana dalle proprie case)

Testo e foto di Maurizio Vezzosi

(Nella foto: Al tramonto, un pescatore sul fiume Kalmius, a ridosso del centro città)

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